Urss: dall'economia di piano all'economia di mercato

Premessa

Più volte, in diverse occasioni, e in tempi politicamente non sospetti, abbiamo denunciato l'inconciliabilità dello stalinismo prima, e del trotskismo poi, con il programma del comunismo rivoluzionario.

La falsità e l'ignominia dell'elaborazione teorica staliniana, a cui è seguita la prassi di una sedicente costruzione del socialismo nella "sola" Russia, ha percorso trasversalmente tre generazioni di proletari, vittime, una prima volta, dello sfruttamento capitalistico di stato, e la seconda di una aberrante ideologia che contrabbandava il tutto come il prezzo che la classe operaia russa e quella internazionale dovevano pagare per la costruzione del socialismo.

In questa sede, dovendo trattare il problema della crisi dell'economia russa, del passaggio da una economia di piano ad una economia di mercato, non abbiamo l'interesse né lo spazio per riproporre analisi già fatte sui motivi interni e internazionali che hanno impedito alla prima e unica rivoluzione proletaria di realizzare le condizioni materiali di una società socialista. Non riprenderemo dunque, alla luce dell'ottobre rosso, l'insuperabile contraddizione tra l'esistenza di tutte le più importanti condizioni politiche per il passaggio verso la nuova società, e il permanere di condizioni economiche e di isolamento da altre esperienze rivoluzionarie che ne negavano ogni passo in avanti. Lo stesso dicasi per la Nep, per l'analisi bucharino-staliniana della via nazionale al socialismo, per la goffa mistificazione tra la socializzazione dei mezzi di produzione e la statalizzazione che, da dialetticamente contrari, nel calderone controrivoluzionario dello stalinismo, sono diventati politicamente dei sinonimi.

In sintesi, assumiamo come dato di fatto che nella Russia degli anni Venti sino a oggi, sia andata maturando una forma economico-produttiva che, al di là della eccezionalità dei fattori storici che l'hanno prodotta, è e rimane interamente all'interno dei meccanismi capitalistici, anche se caratterizzata da una particolare concentrazione dei mezzi di produzione e da una assoluta centralizzazione del capitale finanziario.

Ciò nondimeno, a beneficio di chi al marxismo non si è ancora avvicinato, o, avvicinatosi, non ne ha mai compresi metodo e prassi, o peggio ancora, è rimasto travolto dal crollo dell'Est, come se quel crollo fosse la dimostrazione concreta del fallimento del "socialismo reale", un paio di osservazioni, forse marginali, certamente accessorie rispetto alla corposità di una analisi che diamo per acquisita, val pur sempre la pena di farle.

Sin troppo facile e politicamente conseguente è stato, per quella nutrita schiera di pseudo-comunisti che per anni hanno ideologicamente attinto alla mala pianta stalinista, l'accodarsi al vociante coro borghese che, in una sorta di funerea litania, canta il de profundis delle società "comuniste" e conseguentemente del marxismo. È nel gioco delle parti; guai se la borghesia occidentale non sfruttasse sino in fondo quel che il crollo dello stalinismo le sta offrendo di giorno in giorno su di un piatto d'argento. Non tanto e non solo per un mero calcolo di contrapposizione ideologica, quanto perché l'insistere sulla incapacità di "quei" regimi di assolvere alle più elementari esigenze della vita quotidiana e del vivere democratico, con il conforto di marxisti pentiti, diviene il più chiaro dei messaggi da inviare ai rispettivi proletariati. "State buoni, accontentatevi di quello che passa il convento. Il marxismo e la sua realizzazione 'reale' hanno ridotto la classe operaia dell'Est in condizioni pietose, meglio una società dominata dal capitale che una senza, se le conseguenze sono queste".

Ma proprio qui sta lo stramaledettissimo punto. Che i pennivendoli della borghesia occidentale facciano il loro mestiere è comprensibile, un po' meno è comprensibile che "sinceri" comunisti - quelli per intenderci che sono passati dallo stalinismo al maoismo, o dall'operaismo all'autonomia, che hanno cioè spaziato in lungo ed in largo nel vasto campo seminato dalla controrivoluzione stalinista - abbiano potuto credere che nella Russia del secondo dopoguerra, per non arretrare eccessivamente nel tempo, ci fosse una società senza classi, senza capitale e soprattutto senza quel rapporto, tipico di qualsivoglia società borghese, tra capitale e forza lavoro. I casi sono due: o la madre degli idioti è sempre incinta, osservazione possibile ma quanto mai poco politica, o la borghesia occidentale e la controrivoluzione stalinista hanno saputo, pur in modi e per finalità opposte, fare sino in fondo il loro mestiere. Che l'ideologia dominante sia l'ideologia della classe dominante non è una legge che valga solo per l'occidente; il guaio, semmai, sta nel fatto che il proletariato occidentale, là dove è riuscito a rompere con l'ideologia della sua classe dominante, è caduto, suo malgrado, nelle più sofisticate spire di un'altra classe dominante che ha fatto della menzogna della realizzazione del socialismo il punto centrale del suo potere di condizionamento. Ecco perché, crollato il mondo dell'Est, devastato economicamente e politicamente il suo più importante bastione, anche quelle coscienze politiche che, con una mano sul cuore e l'altra sugli occhi, hanno continuato a credere nell'impossibile favola, sono miseramente crollate sotto le macerie della disillusione. Ci sono oggi più marxisti pentiti in circolazione che preti in parrocchia, anche se l'oggetto del pentimento con il marxismo non ha nulla a che vedere. Ma tanto ha lavorato la talpa della controrivoluzione che è riuscita a nascondere o a camuffare persino gli aspetti più evidenti della realtà.

L'altra osservazione, siamo sempre nel marginale e nell'accessorio, riguarda la gestione del potere. Anche in questo caso la controrivoluzione stalinista è riuscita a stravolgere completamente i termini della questione.

Il marxismo e la teoria rivoluzionaria hanno sempre concepito il potere proletario, il suo stato, come organo in progressiva estinzione. Estinzione tanto più veloce e completa quanto rapida e socialmente consistente fosse la trasformazione verso il socialismo, verso cioè una società senza classi. Inoltre, a questo concetto di estinzione dello stato si è sempre accompagnata la necessità della gestione collegiale del potere proletario. La gestione individuale del potere o, peggio ancora, forme di dittatura personale non solo sono estranee al socialismo ma ne rappresentano il suo opposto sociale.

Non c'era bisogno di attendere lo sfascio dei regimi dell'Est per accorgersi con sorpresa che nei presunti paesi del socialismo reale la forma dominante del potere era rappresentata, Russia in testa, da "istituzioni uomo", da vere e proprie satrapie paragonabili per assolutistica ferocia solo alle dittature personali di alcuni paesi sud-americani.

Nella stessa Russia, da Stalin in poi, fatta salva l'unica eccezione di Kruscev, non si è mai dato che un suo successore sia morto senza avere ancora tra le mani le leve del potere. Lo stalinismo ha riproposto se stesso non soltanto per ciò che concerne la gestione economica del capitalismo di stato, ma anche la espressione istituzionale, ovvero la gestione personale del potere politico, della polizia di stato, di un regime di dittatura esercitata in nome del proletariato, ma in realtà contro il proletariato e tutte le altre forze sociali che non fossero compromesse con il potere.

Tracciata la strada, molti "nipotini" l'hanno percorsa per decenni senza mai deflettere, nemmeno per un istante, dall'esercizio del potere. Così il proletariato dell'Est si è ritrovato sulla schiena personaggi inamovibili, burocraticamente monolitici come i rapporti di produzione che li hanno espressi. Personaggi come Ulbricht ed Honecker nella Rdt, o Ceausescu in Romania, o uno Zivkov che ha dominato ininterrottamente la scena politica bulgara dal 1962, non sono episodi limite né tantomeno occasionali, sono il frutto di una prassi di potere dittatoriale instaurata dalla controrivoluzione stalinista. Sono il frutto storico di un nuovo potere borghese tanto più assoluto e vigliacco quanto falso e ipocrita è stato il suo tradimento.

Che piaccia o no, il crollo di questi regimi, la loro devastante crisi economica e la conseguente crisi politico-istituzionale, sono la palese dimostrazione che in quell'area non sono falliti dei regimi socialisti, non è fallito un progetto politico di classe, ma si sono sciolte delle dittature politiche espressione di regimi a capitalismo di stato.

L'economia di piano

Dalla Russia stalinista in poi, immutabili nel tempo, come scolpite nella roccia, le categorie economiche capitalistiche hanno costantemente rappresentato la base strutturale della presunta Unione delle Repubbliche sovietiche. Prima ancora di andare a indagare la specificità del modo di essere e del manifestarsi di questi rapporti di produzione capitalistici, è determinante individuarne l'esistenza e quindi l'operatività. Per troppo tempo, in buona o più spesso in cattiva fede, nel variegato e ideologicamente corrotto mondo della sinistra, si è tentato di nascondere la realtà economica russa, le sue peraltro evidentissime connotazioni, camuffando il capitale, il danaro, i salari come pseudo-categorie di cui il "socialismo" si sarebbe servito soltanto come mezzi tecnici per valutare la produttività sociale, le capacità di creazione di ricchezza dell'apparato produttivo.

Una volta chiarito l'equivoco tra socializzazione e statalizzazione dei mezzi di produzione, equivoco tanto profondo quanto determinante - come approccio alla questione dell'esistenza del capitalismo in Russia, (al riguardo vedere in Prometeo 13 l'articolo "Crisi del comunismo o del capitalismo di stato?") - definito cioè il reale contesto nel quale le categorie economiche si muovono, il capitale, il suo rapporto con le fasce salariali, il rapporto produzione-prezzi-consumo, emergono quali condizioni di una produzione organizzata in funzione del mercato e basate sull'appropriazione di plus-valore prodotto dalla classe operaia nell'unica prospettiva della valorizzazione del capitale.

L'unica grande differenza tra una economia di piano, o a decisioni accentrate, e una economia di mercato, o a decisioni decentrate, risiede nel fatto che la prima ha nella istituzione Stato il possesso e il controllo dei mezzi di produzione e del capitale finanziario, nonché la capacità di determinare a priori il costo della forza lavoro e il prezzo di vendita delle merci; la seconda ha nelle istituzioni private (imprese, corporations, banche) la gestione dei rapporti di produzione e del capitale finanziario. I prezzi e i salari sono al contempo determinati dalle leggi del mercato e dai condizionamenti che esse subiscono dalla capacità contrattuale della forza lavoro e dalle pressioni oligo-monopolistiche dell'offerta.

Va peraltro detto che le economie di piano sono comunque rivolte al mercato, così come nelle economie di mercato la concentrazione dei mezzi di produzione e la centralizzazione del capitale finanziario possono essere gestite dallo Stato, dando vita a sistemi economici misti in cui l'intervento statale può raggiungere anche il 50% del Pil.

Nella economia di piano l'impresa, sede e strumento della creazione di plus-valore, si trova rigidamente incastonata tra le forniture di beni strumentali e le concessioni di capitale finanziario che promanano dallo Stato, ed i prezzi predeterminati sempre dallo Stato sia della forza lavoro che delle merci prodotte. Salendo dal microcosmo produttivo ai grandi meccanismi macro economici, il processo di valorizzazione dell'intero capitale sociale è predeterminato dal Piano, che, una volta stabilita la quantità di capitale investita nei vari settori della produzione, ne garantisce un sufficiente indice di profittabilità, imponendo un monte salari e una politica dei prezzi che siano compatibili con le necessità della valorizzazione. In altre parole il consumo, sociale e individuale, ovvero la quantità di beni e servizi che la popolazione attiva può consumare, non è in funzione dei propri bisogni, ma è commisurato alle priorità degli investimenti, alle necessità del capitale finanziario e dei suoi meccanismi di valorizzazione.

L'economia russa, basata essenzialmente sullo sviluppo estensivo dei mezzi di produzione, ha dovuto imporre un intensivo livello di sfruttamento delle risorse naturali e della forza lavoro, contenendo i consumi per favorire gli investimenti. Ancora oggi l'economia russa non è riuscita a passare dalla fase estensiva a quella intensiva, continuando a proporre schemi socio-economici in cui, a fronte di mastodontiche strutture produttive nel settore dei beni strumentali, è palesemente deficitaria la produzione di beni di consumo e di servizi sociali. Se ciò fu una condizione necessaria allo sviluppo del capitalismo di stato in Russia negli anni Trenta e Quaranta e, in parte, nei primi due decenni del secondo dopoguerra, successivamente l'elevato contenuto di capitale costante nel primo settore della produzione, accompagnato da una inadeguata crescita della produttività, non solo ha reso impossibile il passaggio da una produzione estensiva a una intensiva, ma ha innescato una caduta del saggio del profitto i cui effetti pesano come un macigno sulle scelte attuali.

Stabiliti dunque dal Piano i costi delle materie prime, dei beni strumentali e del capitale finanziario, predeterminati i prezzi di vendita delle merci e della forza lavoro (l'eventuale aumento dei salari deve essere necessariamente inferiore all'aumento della produttività: ad esempio, nel periodo 1950-65 ad un incremento dei salari reali dell'85% è corrisposto un aumento della produttività del 175%) all'impresa, per massimizzare i profitti non rimane altro che intensificare lo sfruttamento sulla base del lavoro a cottimo o con incentivi materiali di vario genere (maggiore liquidità nella busta paga, promesse di trasferimento, condizioni abitative meno precarie, ecc).

L'impresa, una volta comprate le materie prime e i beni strumentali dallo Stato secondo le indicazioni del Gosplan (ente che presiede alla stesura e al controllo dell'economia pianificata), e contratti dei debiti con la Gosbank (istituto finanziario dello Stato), produce per il mercato secondo un indice di profittabilità del capitale che in nessun modo si discosta dai meccanismi di valorizzazione "occidentali". In via subordinata l'impresa può giocare sulla diversa composizione dei fattori produttivi, sulla gestione delle scorte, sulla capacità di meglio soddisfare le esigenze della domanda, ma in ultima analisi è nel rapporto del tutto mercantile tra ricavi e costi che costruisce il suo profitto. Quel profitto cioè che è necessario a pagare il costo delle materie prime e dei beni strumentali e degli interessi sui debiti maturati. Ciò che resta prima di prendere la strada dell'aumento dei salari percorre sentieri diversi se non opposti, primo fra tutti quello che conduce ancora una volta verso le casse dello stato.

La banale formula capitalistica: P = R - C, il profitto è uguale ai ricavi (quantità delle merci vendute a un determinato prezzo) meno i costi (somma di tutte le voci che compongono i costi di produzione), viene riprodotta dagli economisti russi. Assunta la seguente terminologia:

  • R = Tasso di profitto, o redditività del capitale
  • Q = quantità di merci effettivamente vendute dall'impresa
  • P = prezzo di vendita della merce sul mercato
  • C = costo medio unitario del capitale fisso
  • F = valore medio annuo del capitale fisso
  • V = valore medio del capitale variabile.

Si ottiene la formula:

R = 100 * Q * (P - C) / (F + V)

Non è necessario essere dei sofisticati economisti per capire come la formula esprima il tasso di profitto mettendo in rapporto il profitto lordo con il capitale complessivo impiegato, ovvero con la somma di capitale fisso e di quello variabile.

Concretamente, nella prassi dei pianificatori russi si è sempre usato il banalissimo metodo del "markup", ovvero determinando a priori il costo medio di produzione di una determinata merce di un particolare settore della produzione e aggiungendovi un margine differenziale che può variare a seconda del tipo di merce e del settore produttivo (bene di prima necessità o voluttuario, bene industriale o agricolo). Mediamente nella Russia degli anni Settanta-Ottanta, il margine differenziale è oscillato tra l'8% e il 16% con punte che hanno toccato il 20% per certi beni in particolari periodi di recessione economica.

Riducendo il processo produzione-prezzi-distribuzione a circuito semplice, tra l'investimento di capitali e il mercato, tra la produzione di beni, merci e servizi per la vendita, tra cioè la creazione di valore e la sua realizzazione, l'unico fattore comprimibile rimane quello della forza lavoro. La caratteristica di una economia retta a capitalismo di stato consiste nel perseguire la valorizzazione del capitale attraverso la realizzazione di un profitto che viene sì calcolato percentualmente nella distribuzione di mercato, ma sulla base di un saggio di pulsvalore già programmato nel piano. Per qualsiasi impresa, il cui operare economico è chiuso a monte e a valle dall'imposizione dei costi delle materie prime e dei beni strumentali e dal costo del danaro da una parte, e dal prezzo di vendita delle merci dall'altra, la massimizzazione del profitto può passare solo attraverso l'intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro. Più l'impresa di stato riesce a far produrre la classe operaia a salari fissi, imposti dal piano, più plusvalore riesce ad estorcere e maggiore sarà il saggio del profitto, così come più elevata sarà la remunerazione del capitale investito. All'impresa non è minimamente consentito di "sfruttare" lo Stato pagando meno le forniture di materie prime, beni strumentali o prestiti di capitale, l'unico fattore che le è consentito di amministrare al meglio è quello della forza lavoro, nei tradizionalissimi canoni del processo di accumulazione del capitale. Ne è una riprova il fatto che il Gosplan, come la Gosbank, non rilasciano forniture e finanziamenti alle imprese, piccole o grandi che siano, se i loro programmi produttivi non sono conformi ai dettami del piano e se non garantiscono un tasso di profittabilità del capitale sufficiente.

Ne consegue che tutta la programmazione del piano si basa sulla legge del profitto, sulle esigenze di valorizzazione del capitale. La produzione è orientata verso il mercato, il consumo è limitato dalle esigenze di accumulazione, tutte le categorie economiche tipiche del capitalismo esistono e sono operanti anche se all'interno di una organizzazione di mercato monopolistica di cui il centro organizzatore e propulsore è lo Stato, ovvero l'istituzione politico-economica del capitale complessivo.

È lo Stato che vede e provvede. Stanzia i fondi, detiene il monopolio delle risorse naturali e della tecnologia, determina i prezzi sul mercato, stabilisce il costo della forza lavoro, il tutto non in funzione delle esigenze sociali (a ognuno secondo i suoi bisogni), ma in ossequio ai ritmi e alle necessità di valorizzazione del capitale. Quando l'impresa non riesce a rispettare i programmi del piano, o non è in grado di restituire i debiti contratti, lo Stato, attraverso i suoi organismi periferici, solitamente le banche del distretto dove opera l'impresa in questione, può rivalersi sui salari degli operai, sino a debito estinto. Nella specificità di questa situazione non viene messa in discussione la validità sociale di una impresa, ma la si punisce in termini capitalistici per non aver rispettato il sacro principio del profitto e della valorizzazione del capitale, e chi ne fa le spese, come si conviene in un classico rapporto tra capitale e forza lavoro, è quest'ultima e la sua penalizzazione in termini di decurtazione dei salari è tanto maggiore quanto più grave è l'inadempienza finanziaria dell'impresa.

Una economia non cessa di essere capitalistica per il mero fatto di essere pianificata; la presenza parziale o totale dello stato nei rapporti di produzione non può mai essere assunta a socialismo. Quando le categorie economiche capitalistiche esistono e riempiono di sé tutto l'apparato produttivo e distributivo, ogni segmento, ogni tratto della vita sociale deve necessariamente sottomettersi al dominio del capitale, deve accondiscendere alle sue leggi. Se una osservazione a questo riguardo deve essere fatta, occorre dire che là dove il capitale finanziario e i mezzi di produzione si presentano massimamente concentrati e centralizzati, più ferreo e bestiale si manifesta il controllo e lo sfruttamento della classe operaia.

L'impresa, in simili condizioni, ha come unico, grande scopo la massimizzazione del profitto pur se nel rispetto dei tempi e dei modi voluti dal piano. Dal profitto lordo ottenuto, sia che provenga da investimenti completamente statali, che dal reinvestimento degli utili ricavati dal processo produttivo precedente, l'impresa tiene per sé solo il 20%, tutto il resto è dello Stato sotto forma di oneri fiscali (imposte), oneri sul capitale fisso e su quello variabile (salari). All'interno di questo 20% si deve trovare lo spazio per i finanziamenti per lo sviluppo dell'impresa quali l'allargamento della base produttiva e l'aumento degli stock, gli incentivi materiali sui quali costruire un più efficace sfruttamento della forza lavoro e che, comunque, non devono superare il 5%, un fondo culturale e un fondo per l'edilizia. Se dovesse rimanere qualcosa sarebbe ancora lo Stato a beneficiarne.

Nel microcosmo dell'impresa passano trasversalmente gli assunti del piano che si basano sul principio di un processo di accumulazione estensivo, finalizzato al potenziamento dell'investimento produttivo, e a scapito dei consumi sociali e dei servizi. Ovvero la distribuzione del profitto non ha mai potuto prendere la strada del soddisfacimento dei bisogni sociali, ma l'esatto suo contrario, quella dell'accumulazione del capitale, in cui i rapporti tra capitale e forza lavoro, ovvero tra valore investito e plus-valore, tra produzione e consumo sono sempre stati determinati dalla prima delle due componenti.

Per tutti i decenni del secondo dopoguerra, nell'economia russa, sofferente di una sorta di sindrome da capitale costante, senza peraltro un adeguato sviluppo della tecnologia, alle necessità di valorizzazione del capitale previste dai vari piani quinquennali, si sono progressivamente sempre più sacrificati i consumi sociali e individuali. La scuola, la sanità come l'edilizia popolare, la produzione dei beni di prima necessità si sono a tal punto depressi da creare il triste fenomeno della cronica penuria dei generi alimentari, delle lunghissime code davanti a qualsiasi centro di distribuzione di beni di consumo, il sovraffollamento abitativo, il degrado dell'istruzione, della farmacologia e della scienza medica, vanto dell'epoca stalinista.

Il capitalismo di stato russo, in nome di un falsissimo socialismo, è riuscito a gestire tutti i fattori del capitalismo, giocando più e meglio del capitalismo occidentale su di un poderoso contenimento dei consumi e del costo della forza lavoro che, nei calcoli di una economia pianificata, è sempre stata considerata una costante, ovvero non suscettibile di modificazioni verso l'alto che non fossero preventivamente disposte dal piano stesso.

È così che il processo di valorizzazione del capitale ha un inizio ed una conclusione. Lo Stato anticipa capitale sotto forma di prestiti da investimento, materie prime e beni strumentali di cui detiene il monopolio assoluto; l'impresa produce a costi di produzione e di vendita delle merci che sono previsti dal piano, ivi compreso il costo della forza lavoro. Il profitto lordo ottenuto, secondo le imprescindibili leggi del capitalismo, in qualsiasi forma organizzativa si manifesti, ritorna per l'80% allo Stato nelle voci che abbiamo visto, ritorna cioè sotto forma di remunerazione del capitale anticipato e sulla base del rapporto di sfruttamento capitale-forza lavoro.

La crisi dell'economia di piano

Se si dà retta agli stessi analisti russi, Aganbegjan in testa, l'attuale crisi economica russa e di tutto il mondo dell'Est, avrebbe come causa portante una serie di disfunzioni e di squilibri imputabili al soffocamento del cosiddetto libero mercato da una parte, e ad una colossale politica dello spreco dall'altra. Certamente, nel lungo periodo, entrambi i fattori hanno giocato un ruolo negativo nei confronti dell'apparato produttivo-distributivo dell'economia; se a questi aggiungiamo la corruzione, il privilegio parassitario di larghissimi strati della burocrazia, il quadro che ne esce non è certamente dei più confortanti. Ma se ci fermassimo a questi aspetti, tutto sommato secondari e fenomenologici, non riusciremmo ad avere una spiegazione scientifica del tremendo, devastante crollo dell'economia pianificata. Dai tempi di Stalin sino ai giorni nostri, i meccanismi economici russi, al pari di qualsiasi altra realtà sociale capitalistica, si sono espressi secondo i ritmi di accumulazione classici, dando vita a quel fenomeno che gli economisti borghesi definiscono il ciclo economico, ovvero il susseguirsi di fasi di espansione e periodi di crisi, di riprese economiche e di depressioni.

La ciclicità nel lungo periodo è per sua natura caratteristica dell'evolversi contraddittorio dei rapporti di produzione capitalistici. L'inconciliabilità tra le necessità di valorizzazione del capitale e quelle di consumo della forza lavoro, l'insuperabilità della contraddizione tra il valore d'uso e il valore di scambio delle merci, la modificazione del rapporto organico del capitale e gli incrementi non sempre adeguati della produttività, la perenne disomogeneità tra produzione e consumo, son sempre stati i fattori che hanno fatto assumere alle economie a decisione decentrate come a quelle di piano il classico andamento ciclico. Non si può parlare di recessione e di ripresa, di espansione e di recessione senza che queste aggettivazioni non comportino un contenuto economico che si riferisce alle categorie capitalistiche. In Russia, se prendiamo le mosse dalla situazione immediatamente successiva alla chiusura della Seconda guerra mondiale, si ha l'apertura di un lungo ciclo di accumulazione favorito dalle pesanti distruzioni della guerra stessa. La ripresa economica durò quasi un ventennio. Gli indici di riferimento in questo periodo erano tutti positivi: il tasso di crescita del Pil, gli investimenti, il Pnl; per la stessa classe operaia russa, che era costretta a vivere delle briciole del "boom" economico, ci fu un incremento dei beni di prima necessità del 60% rispetto al precedente periodo bellico. Niente di paragonabile al consumismo di stampo occidentale, cionondimeno la fase dell'espansione economica si produsse con rilievo e continuità. Ma già agli inizi degli anni Sessanta, il ciclo inverte la sua rotta, la recessione si presenta con forti aumenti dei beni di prima necessità quali la carne, il latte, lo zucchero, l'abbigliamento, ecc. Si incomincia ad assistere al fenomeno delle file davanti a negozi pressoché vuoti. Il mondo industriale fa registrare consistenti diminuzioni negli investimenti e nella produzione, mentre l'intero settore agricolo è talmente collassato da costringere i responsabili del piano e quelli politici ad iniziare l'importazione di grano dagli Stati Uniti.

Nel quinquennio 1966-70, superate in qualche modo le maggiori conseguenze della crisi, l'economia russa si riassesta su livelli decenti. Un buon balzo in avanti dell'industria fu favorito dall'enorme sviluppo degli armamenti in senso stretto e delle attività militari in senso lato tra cui la ricerca spaziale.

Ma già alla fine degli anni Settanta lo spettro della recessione, che ancora oggi travaglia le notti di Gorbaciov, ha ripreso a manifestarsi minacciosamente. Nel quadriennio 1979-82, come sostiene Aganbegjan nel suo libro Il futuro dell'economia sovietica:

Gli investimenti destinati allo sviluppo della sfera sociale cominciarono ad avvenire secondo il principio residuale e diminuì notevolmente, nell'ambito del reddito nazionale e del bilancio statale, l'aliquota dell'istruzione e della sanità.

È quindi necessario scendere nei meccanismi ciclici del processo di accumulazione dell'economia russa per analizzare le cause della profondissima crisi che ha investito con la Russia tutta l'Europa dell'Est. Come per tutti i regimi capitalistici le cause strutturali sono sempre le stesse anche se, e a questo riguardo il caso della economia pianificata è esemplare, non mancano vistose specificità nei tempi e soprattutto nei modi di esprimersi della crisi stessa.

Limitandoci al periodo del secondo dopoguerra, alla base del ciclo e dei problemi dell'economia russa troneggia la contraddizione tra l'enorme investimento nel settore dei beni strumentali, ovvero in capitale fisso, e un incremento basso, a volte bassissimo della produttività del lavoro. Il che non solo è andato a modificare il rapporto organico del capitale, il rapporto cioè tra il capitale costante e il capitale variabile, innescando la caduta del saggio del profitto, ma, a fronte di una produttività scarsa, o comunque non sufficiente a compensare le modificazioni di composizione del capitale, ha finito per esasperare la caduta stessa del profitto, facendogli toccare vertici statistici che raramente si possono riscontrare in occidente all'interno dell'area dei paesi ad alta industrializzazione.

Per decenni il 75% degli investimenti si è concentrato nel primo settore della produzione a scapito del secondo, quello dei beni di consumo, e della produzione agricola che, prima di andare in deficit cronico, ha sostenuto con prezzi di vendita dei suoi prodotti inferiori ai costi di produzione il mondo industriale, ad un tasso di produttività semplicemente ridicolo. Ad esempio, negli anni Cinquanta, per ottenere un incremento di un rublo nel prodotto nazionale lordo, in regime di prezzi costanti, era necessario un investimento di un rublo e 40 centesimi. Nel 1963 l'investimento era salito a 4 rubli e 67 centesimi, a 12 nel 1970 ed infine a 15 agli inizi degli anni Ottanta.

Può sembrare paradossale ma il colosso del socialismo reale non ha saputo accompagnare all'enorme sviluppo e concentrazione dei mezzi di produzione una adeguata crescita della produttività, sino al punto di condizionare negativamente sia gli investimenti che il Pnl. L'evoluzione della produttività tra il 1971 e il 1983 è sempre stata percentualmente negativa, attorno al -2,8% con punte del -4,8% nel 1979 e del -3,4% nel 1981. Negli ultimi anni Ottanta le cose non sono cambiate, il trend negativo ha continuato a esprimersi approfondendo il più grande dissesto economico-sociale mai determinatosi dal 1917 in avanti. La caduta tendenziale del saggio medio del profitto ha avuto nell'humus economico della Russia un terreno particolarmente fertile. L'economia di piano, privilegiando l'allargamento della base produttiva con uno sfruttamento non sempre razionale delle risorse naturali e delle materie prime, ingigantendo a dismisura il settore della produzione dei beni strutturali con un contenuto tecnologico progressivamente sempre più basso, si è trovata, suo malgrado, nella condizione di non riuscire a passare alla seconda fase, quella della produzione intensiva, caratterizzata dal potenziamento del settore produttivo di beni di consumo e di servizi, dalla diversificazione dei prodotti.

Al capitalismo di stato russo, dopo una fase di strabiliante sviluppo che l'ha portato, a ritmi di accumulazioni incredibili, da paese arretrato, per alcuni versi ancora semifeudale, a seconda potenza mondiale, è mancata negli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra, la capacità tecnologica di rendere profittevoli gli investimenti, di sviluppare il secondo settore della produzione, di progredire nella meccanizzazione dell'economia agricola. In sintesi, gli enormi investimenti nel settore primario, non sorretti da una adeguata produttività, hanno finito per trasformare da tendenziale in reale la caduta del saggio medio del profitto, e per deprimere gli altri settori della produzione sino a renderli cronicamente deficitari.

Una ulteriore chiave di lettura della crisi strisciante del capitalismo di stato in Russia viene fornita dal progressivo decrescere del tasso degli investimenti.

Quinquennio Tasso investimenti
1951-55 8,9
1956-60 11,0
1961-65 8,0
1966-70 7,8
1971-75 6,8
1976-80 3,4
1981-85 2,0
Tasso degli investimenti in Russia - Fonte: Studio sulla situazione economica in Europa. Nazioni Unite N. Y.

Il commento delle cifre è nelle cifre stesse. In un arco di tempo di 35 anni gli investimenti sono percentualmente scesi di quasi cinque volte. Da una media di incremento del 10% nel decennio 1951-1960 si è passati al 2% del periodo 1981-85, con un ritmo di de-accelerazione che ha dell'incredibile per intensità e durata nel tempo.

Nella esperienza del capitalismo occidentale, simili fenomeni accompagnano le grandi depressioni, durano soltanto pochi anni, o, pur mantenendo un trend negativo, hanno un andamento sinusoidale caratterizzato da momenti di ripresa e di ricaduta, ma mai, nemmeno nella depressione degli anni Settanta, si sono espressi con indici così progressivamente negativi.

Ma al di là dell'intensità e della durata del fenomeno, che comunque la dicono lunga sulla operatività delle contraddizioni capitalistiche agenti negli schemi economici delle società rette a capitalismo di stato, ne risulta che la diminuzione degli investimenti è strettamente collegata al saggio medio del profitto, ovvero là dove non si trovano rimedi alla caduta del saggio medio del profitto si determina inevitabilmente una diminuzione degli investimenti e una contrazione della produzione.

Se si confrontano tra loro i saggi della diminuzione della produttività con quelli del decremento degli investimenti, abbiamo una progressione negativa che investe tutto l'apparato produttivo russo e che si manifesta sul mercato con la penuria dei beni di prima necessità, con il restringimento dell'area dei servizi sociali e con la produzione di beni strumentali a basso contenuto tecnologico. Gli unici investimenti che hanno sempre "tirato" sono stati quelli legati all'apparato militare, a quel settore che avrebbe dovuto, nonostante tutto e comunque, garantire la supremazia dell'imperialismo russo nell'area del rublo e possibilmente anche fuori. Quanto sia conciliabile il ruolo di grande potenza militare con una devastante crisi economica interna lo sta dimostrando la perestrojka di Gorbaciov, ma questo è un altro problema.

Il punto determinante, che vale per il capitalismo di stato russo, come per qualsiasi capitalismo occidentale, è fornito dal fatto che gli investimenti di capitale aumentano o diminuiscono percentualmente sulla scorta della loro profittabilità: più profitti, più investimenti e viceversa. La legge del profitto non conosce confini nè barriere se son quelle imposte dal capitale stesso.

Quando si dice che la quantità di valore investita in capitale costante è proporzionalmente superiore a quella investita in capitale variabile, in correlazione a un tasso di produttività progressivamente decrescente, o al massimo uguale, si vuole dimostrare come la caduta del saggio medio del profitto, in mancanza di consistenti controtendenze, da tendenziale diventa reale, deprimendo gli investimenti e la produzione nel suo complesso. Se le cifre hanno un senso e se, soprattutto, la realtà le conferma, quanto oggi sta avvenendo nella patria del falso socialismo risponde in tutto e per tutto alle leggi delle categorie economiche capitalistiche con una evidenza e con una chiarezza che difficilmente è data da vedersi nell'area occidentale, dove i meccanismi di contenimento e di compressione degli effetti della crisi sono più avanzati, ma soprattutto dove più sofisticati sono i modi di appropriazione parassitaria del plusvalore in sede speculativa e finanziaria.

Persino un osservatore accorto anche se non marxista come l'attuale consulente economico di Gorbaciov, Aganbegjan, è costretto a rilevare il fatto:

In altre parole, di anno in anno l'apparato produttivo del paese vedeva decrescere la sua efficienza. Ogni rublo investito nella base tecnico-materiale dava una resa in produzione sempre più bassa. In ogni quinquennio, a decorrere dal 1970 e fino al 1985, si registrava una contrazione della resa dei capitale fissi del 15%, ossia di circa il 3% all'anno. Per ottenere un aumento della produzione, poniamo, del 3-4% all'anno, occorreva aumentare gli investimenti di capitali fissi del 6-7%. Correlativamente ogni rublo investito forniva una resa sempre più bassa, mentre cresceva il numero dei cantieri non portati a compimento e i potenziali produttivi restavano, per una ragione o per l'altra, non adeguatamente sfruttati.
op. cit., pag. 87

Aganbegjan, come tutti gli economisti borghesi, anche se nato e cresciuto in un ambito socio-economico del tutto particolare come quello del capitalismo di stato, nota il fenomeno ma non le cause che lo pongono in essere. Non parla di caduta del saggio del profitto, non mette in relazione la profittabilità del capitale con il tasso di sfruttamento della forza lavoro, pone soltanto il problema in termini di efficienza e di produttività degli investimenti, recriminando sulla scarsa intensità del lavoro e sulla mancanza di libertà delle imprese di agire sul mercato.

Ma indipendentemente dalle "analisi" dell'economista principe della Perestrojka, i mali dell'economia russa risiedono tutti nei meccanismi di accumulazione del capitale, nel rapporto tra capitale, produttività e caduta del saggio del profitto, con una peculiarità tutta tipica del capitalismo di stato: la sottoproduzione dei beni di consumo e di servizi e la sovrapproduzione di capitali e di beni strumentali.

Anche se atipica e paradossale, la crisi dell'economia russa risponde in pieno alla dinamica della peculiarità delle sue contraddizioni. Nonostante una progressiva diminuzione della produttività, degli investimenti e del tasso di crescita del Pil, frutto della caduta del saggio medio del profitto e quindi delle sempre maggiori difficoltà incontrate dal processo di valorizzazione del capitale, si è prodotto una sovrapproduzione di mezzi di produzione, soprattutto nel settore minerario, siderurgico e metallurgico, rispetto alle reali possibilità di utilizzo degli impianti. La stessa situazione vale per la sovraccumulazione di capitale finanziario impiegato nel primo settore della produzione. Benché a tassi progressivamente decrescenti, la massa di capitali investita risulta superiore alla capacità del sistema di impiegarle profittevolmente.

In una economia di mercato, a fronte di simili indici statistici, avremmo assistito a una ulteriore disincentivazione degli investimenti, allo spostamento produttivo del capitale verso altre zone del mercato e, soprattutto, al gonfiarsi del fenomeno della speculazione. In una economia centralizzata, controllata rigidamente dal piano, con scadenze quinquennali o decennali, priva di una apparato finanziario sviluppato, certe controtendenze sono più difficili da mettere in atto, e comunque in una simile struttura economica, la borghesia di stato, che poggia il suo privilegio economico nella gestione del capitale e nella corruzione burocratica, ha comunque l'interesse agli investimenti anche quando la profittabilità del capitale è scarsa o nulla.

Ecco perché per anni, come lamenta Aganbengjan, si è continuato a sfruttare intensamente le risorse minerarie, si sono costruiti cantieri rimasti inutilizzati e creati impianti produttivi la cui utilizzazione non ha mai superato il 60% della loro potenzialità. Ecco perché, nonostante tutti gli indici negativi, la borghesia di stato, sempre più avida e corrotta, ha continuato a investire, anche se con una progressione negativa; ecco perché negli anni ottanta, il Pil si è mantenuto sul 3%, certamente ben al di sotto dei livelli dei decenni precedenti, ma sempre "alto" rispetto alla reale situazione economica interna.

Contemporaneamente, si è registrata una tremenda sottoproduzione di beni di consumo e di servizi. Le ragioni di una simile, apparentemente contraddittoria situazione, si ritrovano, rovesciate, nelle cause della sovrapproduzione del settore dei beni strumentali. A parte l'atavica ed ormai cronica propensione della economia russa a privilegiare la produzione estensiva a scapito di quella intensiva, la gestione in deficit del primo settore della produzione doveva necessariamente penalizzare quello dei servizi e dei beni di consumo.

Già negli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra, quando le cose andavano capitalisticamente bene, l'economia russa non era riuscita a organizzare il passaggio dalla fase estensiva a quella intensiva; nei decenni a seguire, caratterizzati da una lunga, strisciante crisi da' profittabilità dei capitali, le risorse finanziarie da stornare verso la produzione di servizi sociali e beni di consumo, sono andate diminuendo sino ad azzerarsi.

Sempre più paradossalmente, alla povera, quasi indigente, classe lavoratrice russa, afflitta dalla mancanza di abitazioni, pesantemente sfruttata in fabbriche tecnologicamente obsolete, i magri salari sembrano essere in eccesso rispetto alla penuria dei beni alimentari e di prima necessità. Chi avesse il senso dello humor potrebbe praticare l'ipotesi di un eccesso di domanda monetaria sul mercato commerciale o, addirittura, pensare che la classe lavoratrice russa percepisca salari ben superiori a quello che produce sotto forma di merci. In realtà il secondo settore della produzione è così depresso, così drammaticamente povero che pur con salari bassissimi occorre fare file di centinaia di metri per comprare due cavoli e una ala di pollo. Questo è quanto passa il mercato; frigoriferi, televisori, elettrodomestici in generale, vestiario e automobili appartengono ai generi di lusso, quindi carissimi e praticamente introvabili.

In mancanza - Gorbaciov direbbe in attesa - di un possente processo di ristrutturazione dell'economia, che dia finalmente saggi di interesse compatibili con un "sano" aumento della accumulazione, il sistema si trascina nel baratro di una crisi senza fine, nella quale, accanto a una fittizia sovraccumulazione nel settore dei beni strumentali, fa riscontro un cronico annichilimento dei consumi, ovvero una sottoproduzione del secondo settore. L'assurdo della economia russa, assurdo del tutto capitalistico, è che il contenimento drastico dei consumi ha creato le condizioni per la formazione di un mastodontico apparato produttivo il cui potenziale non è sfruttabile per mancanza di capitali, di tecnologie. Ovvero la classe operaia russa non può essere sufficientemente sfruttata da quella enorme massa di capitale costante oggettivizzato in macchinari tecnologicamente obsoleti.

A questo poi dobbiamo aggiungere un insufficiente apparato finanziario. Mentre nel capitalismo occidentale, in questi ultimi venti anni, si è assistito a un enorme sviluppo e sofisticazione della finanza e dei suoi strumenti operativi, nel capitalismo dell'Est, e segnatamente in Russia, il mondo della finanza si è riproposto per decenni con gli stessi meccanismi e le stesse funzioni.

Un po' per il percorso storico, un po' per la cecità della centralizzazione del capitale finanziario, un po' per la stessa rigidità del piano, il capitalismo russo si è ritrovato negli anni Ottanta con una struttura finanziaria simile a quella che aveva alla fine dell'ottocento sotto la gestione dei Romanov. In pratica una unica banca, la Gosbank, funge da istituto di emissione, da banca ordinaria e da banca commerciale. Esistono le Casse di risparmio, ma il loro ruolo è talmente irrilevante da poter essere considerato nullo. Le imprese non possono emettere obbligazioni né tantomeno azioni che comporterebbero una compartecipazione alla proprietà dell'impresa stessa. Manca la Borsa ovvero il mercato finanziario sede naturale, oltre che della speculazione, dell'autofinanziamento delle imprese. Nei meccanismi del Piano la emissione di Titoli pubblici è prevista solo eccezionalmente e per importi complessivi risibili. In simili condizioni il capitalismo russo ha marciato su di una sola gamba, quella della produzione reale, atrofizzando il secondo arto, quello del credito, relegandolo al mero rapporto Stato-investimenti-prezzi, senza trasformarlo sino in fondo in quel potente mezzo di appropriazione parassitaria di plusvalore come è avvenuto in Occidente. Il che non è ascrivibile a una "sana" concezione del ruolo del capitale e dei suoi ambiti d'impiego, ma più semplicemente a una rigidità degli schemi economici, e quindi finanziari, che tutti i Piani, sia quelli a medio che a lungo termine, hanno assunto come cornice al loro operare economico.

Anche quando la Russia ha agito su questo terreno più per scopi imperialistici che per mero calcolo economico, ha potuto giocare sul piano della finanza solo in modo molto relativo.

Culmine della propria crisi strutturale, ha imposto ai paesi del Comecon l'iniquità degli scambi finanziario-commerciali, costringendo partner quali la Polonia, la Cecoslovacchia, la Bulgaria e altri paesi alleati extra europei a non produrre merci che in Russia venivano prodotte per l'esportazione. Li ha costretti a ricevere prestiti dalla Gosbank alla sola condizione che con i finanziamenti ricevuti dovessero comprare petrolio, materie prime e beni strumentali dalla Russia stessa, oppure che i finanziamenti servissero all'acquisto di armi e strutture militari. Nonostante ciò l'esposizione finanziaria non ha mai raggiunto cifre iperboliche. Secondo i dati pubblicati dalla Izvestija, i 49 paesi "fratelli" indebitati con la Russia hanno ricevuto credito per 15,5 miliardi di rubli (25 miliardi di dollari circa). Tra questi paesi troviamo Cuba, Mongolia, Vietnam, Polonia, Siria e Iraq.

Sono paesi in cui l'imperialismo russo ha lavorato per decenni e talvolta con significativi risultati. Le propensioni speculative e strategico-militari espresse nei termini precedentemente esposti sono al contempo il segno e il limite di un imperialismo finanziariamente zoppo che ha profuso poco non perché non lo volesse o fosse reticente, ma perché la sua struttura finanziaria interna, poco sviluppata, glielo ha sempre impedito. I 25 miliardi di dollari che rappresentano il debito dei paesi dominanti nell'area del rublo sono pressoché insignificanti al confronto dei 1500 miliardi di dollari che i paesi in via di sviluppo hanno sotto forma di debito nei confronti del Fmi e delle banche commerciali giapponesi e americane.

Ciò non significa che la crisi dell'economia russa dipenda da una arretrata struttura finanziaria, ma più semplicemente si vuole mettere in risalto come l'inefficienza del settore creditizio, e più in generale la ristrettezza del mercato finanziario, non abbiano consentito al capitalismo russo di gestire al meglio le proprie contraddizioni, scaricandole con più forza alla periferia del suo impero, come hanno fatto gli Usa; di operare per tempo il processo di ristrutturazione, come è avvenuto per alcuni paesi europei e per il Giappone, o soltanto di non crollare verticalmente come è successo, trascinando nel baratro della crisi economica tutto il mondo dell'Est, Germania compresa.

Il passaggio dall'economia di piano all'economia di mercato

È dalla vastissima crisi economica, dalle peculiari deficienze della economia di piano che nasce la perestrojka. Nel 1985, quando Gorbaciov è salito al potere in Russia, la situazione era così grave da mettere in forse non soltanto gli equilibri politici interni, ma anche quelli alla periferia dell'impero, nella Europa del patto di Varsavia e del Comecon.

Nelle ambiziose prospettive di Gorbaciov la perestrojka significava e significa a tutt'oggi, ristrutturazione ad alto contenuto tecnologico, ricerca di adeguati capitali finanziari, reintroduzione della proprietà privata e della libera imprenditorialità, riforma del credito. In altri termini il programma della nuova leadership politica russa pone il problema del superamento della crisi economica e del suo pesante fardello politico, attraverso il passaggio dalla economia di piano ad una economia di mercato.

In realtà la formulazione così espressa è imprecisa o quantomeno impropria perché si sarebbe portati a pensare che nella Russia odierna non viga una economia orientata verso il mercato, ovvero che non ci sia una produzione di merci. Questo tipo di economia è sempre esistito checché ne dicano gli strenui difensori del "socialismo" reale; solo che il mercato, come la produzione e la distribuzione delle merci, ha assunto nel quadro rigido del capitalismo di stato delle connotazioni del tutto particolari, prima fra tutte, quella di rispondere in termini di quantità, di qualità, di prezzi e di costi, ai programmi del Piano, alle esigenza cioè di una struttura di mercato monopolistica particolarmente concentratrice e centralizzatrice. Meglio sarebbe quindi parlare di un passaggio da una economia a decisioni accentrate ad una economia a decisioni decentrate, all'interno della quale il mercato resta come elemento comune, anche se con caratteristiche e agibilità completamente diverse.

Il primo obiettivo della perestrojka, prima ancora di mettere mano ai meccanismi economici e di mercato, è quello di recidere dal tessuto sociale quella incrostazione borghese-burocratica che sui vecchi schemi della economia di Piano aveva creato il proprio privilegio politico e il proprio interesse economico.

Anche in questo caso però le lucciole non vanno confuse con i lampioni, nel senso che, il nuovo vate perestrojkante del "socialismo" non deve passare come il rinnovatore democratico, come il progressista che libera il "socialismo" dalla putrida e ingombrante corazza dello stalinismo. Molto più pragmaticamente avviene che Gorbaciov, per rimettere in sesto le precarie condizioni economiche del paese, per non perdere altre posizioni strategiche sullo scacchiere internazionale, per cercare di contrapporsi in qualche modo al processo centrifugo che si muove trasversalmente alle province-stato della Russia, dal Baltico alla Transcaucasia, è costretto alla più radicale delle riforme economiche, la quale è possibile solo a condizione di eliminare il vecchio potere burocratico che da una simile riforma può subire solo danni e perdita di influenza politica e clientelare.

Gorbaciov è stalinista quanto basta per definire ancora oggi la Russia come paese socialista, ed è antistalinista quanto gli conviene nel momento in cui condanna il vecchio regime per il suo dirigismo, il suo oscurantismo e per la gestione personale del potere. Non ci sembra, a conti fatti, che Gorbaciov, dopo aver condotto una lunga lotta nel partito contro i quadri stalinisti, dopo aver inneggiato alle libertà democratiche di stile occidentale, e soprattutto dopo aver rinunciato strumentalmente alla suprema "sovranità" del Partito per dare vita ad una Repubblica presidenziale, di cui ovviamente egli è il presidente, con poteri che nemmeno Stalin poteva vantare, razzoli come predica.

Per la perestrojka la democratizzazione, la trasparenza il ripristino delle più elementari libertà personali e sociali, sono stati il prezzo che la nuova dirigenza ha dovuto pagare nel tentativo di scalzare i quadri della vecchia amministrazione. La democrazia può ben valere un migliore sfruttamento della forza lavoro, ben vengano le riforme economiche e sociali se verranno anche più profitti.

Il secondo obiettivo era e resta quello di convincere la burocrazia militare, restia per tradizione, per interessi materiali e di prestigio ma anche per ottusità mentale, ad accettare il fatto che il ruolo di grande potenza militare, in questa fase, non sarebbe stato conciliabile con le necessità di ristrutturazione dell'economia. In un paese dove il 35% delle risorse sociali e finanziarie erano assorbite dall'industria di guerra e dalle spese del presenzialismo militare, i conti sono presto fatti. Non per niente l'entrata di Gorbaciov al Kremlino è coincisa con il progressivo disimpegno della Russia dai teatri delle guerre locali per passare poi al progetto di smilitarizzazione dei due blocchi. O soldi per la ristrutturazione e per investimenti remunerativi o soldi per la militarizzazione che oltretutto avrebbe rappresentato soltanto una opera di facciata per niente corrispondente alle effettive potenzialità interne.

L'economia russa è così depressa che continuare un confronto militare, anche se indiretto, con il mondo occidentale, a lungo andare sarebbe stato un suicidio; meglio rimettere mano all'economia e poi si potrà pensare di riprendere la corsa imperialistica.

Sbarazzato il campo da questi due primi ostacoli, al riguardo va detto che la lotta interna di Gorbaciov è a buon punto ma non è ancora vincente su tutta la linea, la perestrojka può tentare di iniziare a risolvere i problemi economici. Primo fra tutti quello che riguarda l'efficienza delle imprese di stato. Da più parti, sia all'interno dell'area politica della perestrojka che negli ambienti accademici, si è fatta strada l'ipotesi che alla base della inefficienza dell'apparato produttivo ci sia lo spreco, l'incompetenza manageriale e l'interesse privato della burocrazia. Economisti come Aganbegjan, Abalkin e Bogomolov predicano la necessità della privatizzazione di alcuni settori della produzione, l'introduzione della libertà imprenditoriale per le piccole e medie imprese e l'introduzione di incentivi economici per i lavoratori dipendenti.

Ma non basta; un altro problema, ben più complesso, è quello del reperimento di capitali e tecnologie necessarie alle riprese dell'economia. La sola riforma istituzionale della proprietà privata o della libera imprenditoria non basta; pur nella foga del rinnovamento, dove la parola Stato è sinonimo di inefficienza e corruzione, e privato di libero e produttivo, appare evidente che il problema non sta nella gestione privatistica o statale dei rapporti di produzione, ma nella tecnologia degli impianti e nei conseguenti saggi di sfruttamento della forza lavoro. A tal fine le maggiori imprese statali come le medie e piccole imprese private o a gestione mista, possono dare vita a delle joint ventures con imprese occidentali allo scopo di importare capitali e tecnologie avanzate.

Pur di favorire questo processo che, al di là di alcuni episodi di rilievo (Fiat e Montedison), non è ancora decollato, la nuova amministrazione ha varato una legge, quella denominata "majority equity stake", in base alla quale il partner straniero può detenere la maggioranza del pacchetto azionario. Una sorta di invito con garanzia per il capitale occidentale che, dopo le perniciose esposizioni verso i paesi periferici e il terzo mondo, ha cominciato a muoversi con i piedi di piombo.

O la nuova amministrazione dimostra con i fatti di assecondare le "voglie" del capitalismo di Occidente con contratti vantaggiosi per entrambi, o la presunta invasione finanziaria dell'Est è destinata a rimanere sulla carta. Dal 1985 al 1989 solo 900 imprese russe hanno dato vita a delle joint venture, molte delle quali piccole e medie. La legge della majority equity stake, varata proprio nel 1989, ha il compito di far decollare al più presto il processo di importazione di capitale finanziario e di tecnologia, pena il perdurare della crisi economica e delle sue devastanti conseguenze politico-sociali.

A detta dello stesso Gorbaciov, il passaggio dalla economia di piano all'economia di mercato, non può avvenire senza le iniezioni vivificanti dell'occidente capitalistico. Non solo, anche le altre riforme segnerebbero il passo, chiudendo il circolo vizioso della crisi.

Il secondo passo consiste nella concessione in affitto a privati di alcune imprese statali. Anche in questo caso, perchè il passo potesse essere effettuato occorreva che cadesse giuridicamente il "tabù" della proprietà statale dei mezzi di produzione, o se si preferisce la reintroduzione della proprietà privata dei mezzi di produzione sotto forma di affitto degli stessi con contratti pluridecennali. Di proprietà privata nel vero senso del termine, ovvero di possesso e di controllo dei beni produttivi, con relativa possibilità di acquisto e di cessione, si deve parlare a proposito della legge che disciplina le piccole e medie imprese a carattere familiare, agenti soprattutto nel settore agricolo, come le fattorie, in quello dei servizi e nell'artigianato.

Persino le cooperative, agricole e non, hanno oggi la possibilità di assumere lavoratori esterni, cioè non membri della cooperativa, secondo una contrattualità non più regolamentata dal piano, ma libera, secondo modalità di espressione del mercato della forza lavoro.

In sintesi la struttura portante della perestrojka prevede la introduzione di elementi dichiaratamente di mercato nel cuore di una economia di piano, con la prospettiva, peraltro dichiarata, di dare vita a un sistema economico misto nel quale, pur rimanendo alti i livelli di concentrazione e di centralizzazione, crescano e si potenzino tutte le categorie tipiche del capitalismo privato. Ancora una volta, la condizione che ne è alla base e che informa tutto il progetto di ristrutturazione, è che i meccanismi di un mercato libero, o parzialmente libero dalla rigidità del Piano, possano ricreare sufficienti margini di produttività, e quindi di estorsione di plus-valore.

Ma la legge che disciplina la reintroduzione della proprietà privata come quella sulla libera imprenditorialità non può che essere accompagnata dalla riforma dei prezzi. Fenomeno non nuovo nei paesi del "socialismo" reale. In Cina, sotto la gestione di Deng, la gestione controllata dei prezzi delle materie prime, dei beni strumentali e dei beni di consumo è stata rimossa già nel lontano 1979, con risultati a dir poco disastrosi. Ciononostante la liberalizzazione dei prezzi diventa un corollario necessario alla legge che l'ha preceduta. Come sarebbe possibile per le imprese statali, miste o private, approvvigionarsi sul mercato libero, quindi a prezzi in teoria oscillanti, ma in realtà tendenti verso l'alto, senza poi rifarsi attraverso una dinamica dei prezzi di vendita delle merci, se questi ultimi continuassero ad essere imposti dal Piano? Il libero accesso per le imprese al mercato delle materie prime e dei beni strumentali, deve dare uguale libero accesso alla determinazione dei prezzi delle merci, ovvero al mercato commerciale, nei modi da esso consentiti. Per di più è ambizione della perestrojka che, liberalizzando i prezzi, le imprese, ad ogni livello, possano avere maggiori stimoli a produrre di più e meglio.

Benché tutti questi meccanismi, compresa la liberalizzazione dei prezzi, siano stentatamente ancora alle soglie del decollo, i primi effetti non hanno tardato a manifestarsi. Sino al 1987 l'inflazione in Russia ufficialmente non esisteva. A fronte dei prezzi fissi dei generi di consumo o di prima necessità, si riscontrava il fenomeno delle code ai centri di distribuzione, una inflazione sommersa, nascosta, non certo senza conseguenze per il consumatore. I dati del 1988 parlano di una inflazione ufficiale del 2% per giunta accompagnata da un ulteriore allungamento delle code dei consumatori. Nel primo trimestre del 1990 si è già arrivati all'8% rispetto allo stesso trimestre dell'anno precedente, mentre le file sono diminuite per il semplice fatto che non c'è più nulla da comprare, o quel poco che c'è ha prezzi troppo elevati per la stragrande maggioranza della popolazione.

Nelle pieghe della riforma si nasconde anche la liberalizzazione del prezzo della forza lavoro. Anzi, quest'ultima, che viene considerata come una conseguenza necessaria, inevitabile, nell'ambito della più ampia problematica della riforma dei prezzi, ne diventa il fulcro centrale. Se si sfronda la perestrojka dalle banalità del tipo che la competitività, gli incentivi economici e un più elevato tasso di produttività possono essere di aiuto all'asfittica economia russa, emerge chiaramente che, a parte le privatizzazioni, la nascita di joint ventures e la liberalizzazione dei prezzi, ciò che conta è che il prezzo della forza lavoro sia proporzionalmente più basso dell'incremento della produttività, e che lo Stato non debba farsi carico di "mantenere" comunque posti di lavoro e livelli salariali, quando né i primi né i secondi sono compatibili con il processo di valorizzazione del capitale investito produttivamente. In altri termini l'impresa deve essere messa in condizione di accedere al mercato della forza lavoro e di trattarne il prezzo di acquisto in termini ancora più rigorosi di prima, pagando cioè i salari più bassi possibili, contenendo al minimo i contributi e avendo libertà di licenziare ogni qual volta l'andamento produttivo lo richieda. Così come l'economia di mercato penalizza ed espelle le imprese che non riescono ad essere competitive, così l'impresa del nuovo corso può espellere la forza di lavoro in eccedenza senza incorrere nelle ire di quello stato che sino a pochi anni fa si vantava di aver la piena occupazione.

Anche per le vestali della perestrojka, efficienza e produttività significano che nel mercato rimane solo chi è in grado di garantire remuneratività al capitale, imprese ma soprattutto forza-lavoro comprese. Ecco allora che lo Stato non solo non si fa più carico di mantenere la piena occupazione e di fungere da stato sociale nelle fasi di emergenza, ma concede al mondo della produzione la liberalizzazione del prezzo della forza lavoro, nel quadro del quale chi spunta prezzi più bassi, secondo i sacri canoni della domanda e dell'offerta, avrà più spazi di sopravvivenza nell'ambito del nuovo mercato liberalizzato. Libertà, dunque, nella determinazione dei prezzi delle merci, ma anche libertà per le imprese di gestire al ribasso i salari, di licenziare, di incrementare i saggi di sfruttamento senza l'ingombrante interferenza del Piano.

Altro punto cardine del passaggio dalla economia di piano all'economia di mercato è la riforma finanziaria. Non è più lo stato il principale fornitore di capitale, le imprese non devono più sottostare alle leggi del Piano per ottenere i finanziamenti. Al riguardo è interessante riportare un passo dell'economista Aganbegjan:

Col passaggio ai metodi economici di gestione, le competenze delle imprese e organizzazioni si sono notevolmente ampliate. Le imprese e le organizzazioni elaborano autonomamente i loro propri piani, che non devono sottostare ad approvazioni dall'alto. Spetta a loro allocare le risorse guadagnate, concludere contratti con altre organizzazioni, contrarre, ove necessario, debiti con le banche, eccetera. Insomma è stata attuata una consistente ridistribuzione delle risorse a vantaggio delle imprese e delle organizzazioni. Infatti con il nuovo sistema di gestione, le imprese e le unioni dell'Urss sono state trasferite a un regime di piena autonomia economica e all'autofinanziamento, e devono quindi coprire con i loro profitti tutte le spese.

op. cit., p. 108

Perché tutto questo avvenga occorre che nascano altri istituti di credito oltre alle banche statali e alle Casse di Risparmio, occorre che le imprese possano non solo reinvestire liberamente gli utili, ma avere libero accesso al credito e autofinanziarsi, ovvero devono avere la possibilità di emettere azioni e obbligazioni, come è tipico e necessario in una economia di mercato. Il principio, peraltro banale, che i riformatori della perestrojka hanno scoperto, risiede nel fatto che un migliore drenaggio di moneta e una più ampia circolazione di capitali, nell'ambito di una accresciuta competitività, possano favorirne la valorizzazione a beneficio di una "sana" ripresa del processo di accumulazione.

Di pari passo è imminente la creazione di una Borsa valori, tipico strumento del capitalismo parassitario, dove Stato, imprese e piccoli e grandi speculatori possono accedere al mercato finanziario giocando a distribuirsi quel valore che da altre parti la classe operaia ha socialmente prodotto. Nel dramma la beffa. Sia al vertice della perestrojka che negli ambienti accademici, tutti i meccanismi di trasformazione dell'economia di piano, ovvero del capitalismo di stato, in economia di mercato, cioè in una economia il cui modo di presentarsi è sempre più simile al capitalismo privato o misto dell'occidente, vengono banditescamente contrabbandati come un processo di riforma del "socialismo" reale. Una sorta di liberalizzazione dei meccanismi economici, di migliore gestione dei fattori produttivi, di democrazia imprenditoriale, ma pur sempre all'interno della forma economica socialista.

Così come lo stalinismo aveva occultato il suo progetto controrivoluzionario camuffando la costruzione del capitalismo di stato per socialismo, così l'antistalinismo della perestrojka contrabbanda il tentativo di introdurre nella economia centralizzata russa elementi di capitalismo privato per riformismo socialista.

È talmente goffa e di basso profilo teorico la falsità della manovra, che negli stessi ambienti della intellighenzia riformista russa si è preferito ridefinire il capitalismo, stravolgendone alcuni suoi connotati fondamentali, che ammettere la mancanza del socialismo. Un esempio è fornito dal romanziere Chingiz

Aitmatov, che nel suo intervento al Congresso dei deputati del popolo nel giugno 1989, ha voluto mostrare come non sia la Russia a venir meno al suo programma socialista copiando i modi di essere dell'economia occidentale, ma che alcuni paesi appartenenti al blocco del capitalismo privato, in realtà non sono paesi capitalisti ma socialisti, enumerandone tra gli altri, una decina in tutto, la Svezia, la Spagna e la Svizzera.

Si potrà dire che i romanzieri non fanno testo, che il loro mestiere è quello di scrivere delle belle storie e non quello di interessarsi di politica e di economia, ma il dramma è che su questa lunghezza d'onda si ritrovano anche fior di politici e di accademici. Il professor Denisov, deputato al Congresso, è arrivato a teorizzare che il socialismo si distingue dal capitalismo in quanto sistema nel quale la classe lavoratrice non viene sfruttata dalla Stato e/o da una classe capitalistica, ma ha la facoltà di vendere la sua forza lavoro a diverse categorie di proprietari di capitali, tra cui lo Stato, le cooperative, le istituzioni periferiche o i privati. Lo stesso Rizhkov, niente meno che primo ministro, in un discorso al Soviet Supremo nell'ottobre del 1989, nel tentativo di giustificare l'introduzione della istituzione economica e giuridica della proprietà privata, ha voluto sottolineare che al fondo della manovra non c'è la riproposizione degli schemi capitalistici, e il motivo starebbe nel fatto che lo stesso capitalismo avrebbe abbandonato il concetto di proprietà privata, sostituendolo con quello della proprietà collettiva. Chi detiene il possesso dei mezzi di produzione non sono più, o sempre meno, i singoli individui, ma società per azioni, e...

questa può essere definita proprietà privata solo con enormi riserve.

Izvestija, 17 ottobre 1989

Ma il dramma, quello vero, non risiede nelle allucinanti analisi dei rappresentanti perestrojkanti del Congresso, ma dell'impatto che le conseguenze della trasformazione della economia di piano in economia di mercato avrà sulla classe operaia. Da qualunque punto di vista li si vogliano prendere, i prossimi anni saranno densamente popolati da sacrifici e da ipersfruttamento per il proletariato russo.

Gorbaciov, in cambio di capitali e di tecnologia, può solo mettere sull'altro piatto della bilancia la proposta di sicurezza degli investimenti stranieri basata, oltre che sulla majority equity stake delle joint ventures, sulla messa a disposizione di ingenti quantitativi di materie prime strategiche a basso prezzo e su di un costo della forza lavoro bassissimo rispetto ai livelli salariali medi dell'Occidente. In più, permanenza della penuria di beni di prima necessità, inflazione galoppante, incertezza nel mantenimento del posto di lavoro, e comunque disoccupazione a livelli mai raggiunti, quale condizione necessaria al processo di ristrutturazione economica.

Il che vuol dire che si stava "meglio" quando si stava "peggio"? Dati e previsioni farebbero credere di sì, ma non è qui il problema. La questione fondamentale è che tutte le crisi del capitalismo, sia nella versione statale che mista o privata, vengono pagate dalla classe operaia. Per i proletari russi, come per i proletari di tutto il mondo, l'alternativa non risiede nello scegliere tra un tipo di capitalismo e un altro, di farsi carico delle devastanti conseguenze delle crisi economiche e di accettare di volta in volta le ricette delle politiche dei sacrifici per la difesa degli interessi di una borghesia privata o burocratica, ma nel rompere i meccanismi della forma produttiva capitalistica sotto qualsiasi veste si presenti.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.