Considerazioni e verifiche sulla caduta del saggio del profitto

La legge in quanto tale

La legge della caduta tendenziale del saggio del profitto è di per sé semplice ed evidente oltre che statisticamente rilevabile. Partendo dall’assunto marxiano della teoria del valore, la caduta del saggio del profitto ne discende inevitabilmente quale conseguenza necessaria.

In estrema sintesi (non ci proponiamo in questa sede di riprodurre tutti i meccanismi della legge che assumiamo come acquisiti, ma di prendere in esame solo il suo aspetto generale ed alcune tra le conseguenze più importanti riproponendoli in un esame comparativo). La legge mostra come al variare del rapporto organico del capitale, al variare cioè del rapporto tra capitale costante e capitale variabile, vari il saggio del profitto, che è come dire, parafrasando il concetto generale che, all’aumento del rapporto organico del capitale corrisponde una proporzionale diminuzione del saggio del profitto. Il che significa, in termini di scomposizione delle parti costitutive del capitale, che investendo più in materie prime, macchinari e tecnologia che in forza lavoro, il capitale restringe progressivamente l’area dalla quale attinge plusvalore per il proprio processo di valorizzazione.

Nella stessa unità di tempo, una accresciuta quantità di capitale costante avrà maggiore difficoltà ad estrarre una uguale quantità di plusvalore da un numero proporzionalmente minore di forza lavoro, in date condizioni di organizzazione del mercato. Ancora più banalmente possiamo dire che, se la valorizzazione del capitale ha come suo unico fondamento lo sfruttamento della forza lavoro, meno operai vengono impiegati nel sistema produttivo, sia in termini assoluti che relativamente alla quantità di capitale complessivo investito, più il saggio del profitto tende a decrescere, lavorando incessantemente alle crisi del capitale indipendentemente dalle forme specifiche del loro manifestarsi sul mercato ( di “sovrapproduzione”, finanziarie ecc..)

Senza complicare più di tanto le cose e rimanendo nella estrema semplicità degli schemi di Marx e assumendone la simbologia didattico-aritmetica, dove C è il capitale complessivo che entra nel ciclo di produzione, cioè il capitale costante, fisso e circolante (materie prime, macchinari, materiale ausiliario ecc..). Dove v è il capitale variabile (salari impiegati nel medesimo ciclo di produzione), pv il plusvalore ottenuto nella produzione, pv/v il saggio del plusvalore o saggio di sfruttamento della forza lavoro, pv per N° di forza lavoro la massa del plusvalore e pv/C il saggio del profitto, è possibile immediatamente verificare come al variare di c rispetto a v il saggio del profitto diminuisca. In altri termini, un uguale capitale complessivo C, a diversa composizione organica, fornisce due saggi del profitto differenti a condizione che il saggio del plusvalore sia costante (pv/v = K). Dato C = 100, possiamo descrivere simbolicamente due diversi schemi di produzione caratterizzati da una diversa composizione organica del capitale, lasciando costante il saggio del plusvalore pari al 100%.

Caso C c v pv pv/C
a) 100 20 80 80 80%
b) 100 80 20 20 20%

Nel primo caso a) il saggio del profitto è uguale all’80% mentre nel secondo caso b) il saggio del profitto è del 20% pur partendo da un medesimo capitale complessivo 100.

Ne consegue una prima rilevante conseguenza: un uguale capitale complessivo, a diversa composizione organica, produce saggi di profitto differenti che a loro volta determinano un diverso livello di valorizzazione del capitale stesso.

Benché palese e meccanicamente scontata, l’osservazione mette in rilievo una delle massime contraddizioni dell’intero sistema produttivo capitalistico, quella per cui, la ricerca del massimo profitto (lo sviluppo delle forze produttive, l'incremento del plusvalore relativo) innesca la caduta del suo saggio, ergendosi ad ostacolo alla stessa valorizzazione del capitale.

In regime capitalistico, lo scopo della produzione non è quello di creare beni finalizzati al consumo (produttivo o improduttivo), ma di creare plusvalore attraverso la produzione di merci al solo scopo di valorizzare, una volta vendute, ii capitale che ne è stato alla base del ciclo produttivo. La quantità di plusvalore creata, ovvero il profitto (per semplicità in questo caso assumiamo che tutto il plusvalore prodotto nel ciclo produzione-distribuzione si trasformi in profitto, tralasciando le distinzioni tra rendita fondiaria, interesse bancario ecc.) altro non è che il saggio di valorizzazione del capitale.

Quando si produce una modificazione nel rapporto tra capitale costante e variabile, proporzionalmente o in termini assoluti, a favore del primo nei confronti del secondo, discende il saggio del profitto e con esso diminuisce il tasso di valorizzazione del capitale complessivo. Ecco perché si può ben dire, parafrasando Marx, che la legge della caduta del saggio del profitto è di gran lunga la contraddizione più importante del sistema produttivo capitalistico, in quanto condizione prima e di accelerazione di tutte le sue crisi.

E' evidente che altri fattori incidono sull’andamento del saggio del profitto e quindi sul processo di valorizzazione del capitale come l’aumento o la diminuzione della giornata di lavoro (plusvalore assoluto), l’intensità del lavoro, l’aumento o la diminuzione del costo del lavoro, la possibilità di ottenere extra e sovra profitti, ma è la caduta del saggio del profitto a pesare e a condizionare tutti questi fattori.

Un esempio palmare è fornito dal fatto che un capitale che si valorizza ad un basso saggio del profitto è costretto, in presenza di una diminuita massa del plusvalore, ad imporre una accelerazione al processo di accumulazione. Ovvero un sistema economico che si esprime a bassi livelli di saggio del profitto è costretto a produrre di più per tentare di guadagnare sulla massa delle merci prodotte quanto va perdendo sulle quote del saggio del profitto.

Un altro esempio è dato dal rapporto saggio del profitto-intensità del lavoro. Là dove il saggio del profitto è basso, maggiore è la necessità da parte del capitale di aumentare la produttività e/o di contenere il costo del lavoro. Nella stragrande maggioranza dei casi la prima misura viene accompagnata dall’altra, o viceversa se il livello tecnologico del sistema è relativamente basso.

Alti tassi di valorizzazione del capitale non impongono di solito bassissimi salari ed esasperate intensità produttive, al contrario quando la diminuzione del saggio del profitto rende sempre più problematica la “giusta” valorizzazione del capitale,allora sulla forza lavoro si abbattono la riduzione dei salari, l’aumento della produttività, l’iper sfruttamento,l'allungamento dell'orario di lavoro, quali condizioni necessarie al ripristino di un saggio del profitto che sia sufficientemente remunerativo per il capitale investito.

Il che non sta assolutamente a significare che il capitale non persegua sempre e comunque la massima profittabilità nell’investimento, ma soltanto che, nel primo caso la ricerca del massimo profitto è una linea di tendenza generale che può esprimersi parzialmente tenendo conto anche dei costi politici oltre che economici, nel secondo caso diviene una necessità imprescindibile, da perseguire a tutti i costi, anche a prezzo di un aggravamento della tensione sociale.

In tutti i casi, la modificazione del rapporto organico del capitale e la caduta del saggio del profitto sono la molla che fa scattare tutti i meccanismi di crisi del sistema economico e che a sua volta mette in essere una serie di effetti collaterali e di controtendenze.

Nella dinamica dei rapporti di produzione capitalistici, la legge, ben lontana dall’essere un elemento incidentale o accessorio alla creazione delle crisi, è un modo di esprimersi delle contraddizioni del capitalismo, una caratteristica peculiare insita nella valorizzazione del capitale, uno dei meccanismi fondamentali che scandisce i ritmi di valorizzazione e accumulazione del capitale stesso.

Non è possibile avere una chiara visione delle crisi economiche se non si parte dalla legge della caduta del saggio del profitto, dalla sua influenza nei meccanismi del processo di accumulazione, sino al manifestarsi sul mercato dell’aspetto fenomenico delle crisi stesse.

Ciononostante, nella supposta omogenea area del marxismo ortodosso non sono poche le perplessità e le obiezioni alla esposizione marxiana della legge.

Le critiche assumono diversi aspetti e valenze a seconda che confutino completamente la efficacia della legge o le attribuiscano un ruolo secondario nell’analisi delle crisi, se non, addirittura, la neghino decisamente.

Si va dalla critica di Marx per aver presentato la legge in termini molto schematici e senza aver tenuto conto dell’importantissima funzione della produttività (in Marx pv/v = K) - per cui rovesciando i termini dell’impostazione si arriverebbe a invalidare il ruolo della legge o, nel migliore dei casi a ridurlo ad una sorta di contraddizione di terzo grado e di scarsa incidenza - alla teorizzazione che la causa della caduta del saggio del profitto deriverebbe dalla crescita del lavoro improduttivo, o dalla incapacità del sistema di progredire su livelli ottimali di produttività. Che la legge si esprimerebbe solo dopo la sopravvenuta crisi di saturazione del mercato e mai prima, o che la solita legge sarebbe in grado di esprimersi solo a saggi di plusvalore costanti o in diminuzione

Partiamo dalla prima critica la quale non mette in dubbio la validità complessiva delta legge ma ne denuncia la parzialità nelle forme espresse da Marx nel terzo libro del “Capitale”, dove il saggio del plusvalore viene mantenuto costante invece di variare al pari di tutti gli altri fattori del capitale.

In effetti, negli schemi numerici usati da Marx variano soltanto il capitate costante e il saggio del profitto, mentre rimangono costanti il capitale variabile, e quel che più conta nella disamina di questa critica, il saggio del plusvalore. Partiamo dunque dagli schemi numerici di Marx:

c v pv/v pv/C
50 100 100% 66,6%
100 100 100% 50%
200 100 100% 33,3%
300 100 100% 25%
400 100 100% 20%

Innanzitutto va detto che lo schema di Marx, come tutta l’elaborazione successiva, è preminentemente impostata ad una esigenza didattica, è cioè massimamente rivolto al mettere in evidenza la meccanica della legge, e questa meglio risalta se alcuni fattori rimangono costanti al variare di altri. L’esempio ne risulta forzato sul piano numerico, ma nulla viene tolto all’intrinsecità della legge stessa.

Se la legge si esprime come conseguenza della modificazione del rapporto organico del capitale, tenendo costanti v, pv/v ed aumentando solo c, la sua evidenza appare in maniera più chiara senza equivoci di comprensione. L’esasperazione del paradosso ingigantisce gli effetti ma non ne stravolge le cause, tant’è che se facessimo variare tutti i fattori secondo le proporzioni che sono tipiche dell’andamento del processo di accumulazione capitalistico, otterremmo lo stesso risultato, ovviamente in tempi differenti e con velocità diverse. È evidente, e Marx lo sottolinea a più riprese, che nella realtà storica del divenire dei rapporti di produzione capitalistici tutti i fattori si modificano.

Aumenta il capitale costante, il capitale variabile, aumenta anche il saggio del plusvalore e la massa dei profitti, ma diminuisce il saggio del profitto, e l’intensità della sua diminuzione è dovuta alle modificazioni percentuali del capitale costante rispetto al variabile e all'aumento del saggio del plusvalore. Perché la legge possa esprimersi occorre che l’incremento di C sia percentualmente superiore all’incremento di v e che l’aumento del rapporto organico del capitale sia percentualmente superiore all’incremento del saggio del plusvalore. In altri termini, va analizzato quanto, in termini percentuali, il saggio del profitto perda a causa dell’aumento di c nei confronti di v, e quanto guadagni nell’aumento di pv/v.

Nella realtà la dinamica della modificazione di tutti gli elementi del capitale non invalida la legge, solo c’è da verificare le loro variazioni in termini di proporzionalità, tra l’aumento della produttività che aumenta il saggio del profitto, e l’intensità della modificazione del rapporto organico del capitale che innesca la caduta del saggio del profitto. Sempre rimanendo all’interno degli esempi numerici, è facile notare come tenendo costante o aumentando ii saggio del plusvalore si ottengano dei saggi di profitto differenti.

Partendo dall’esempio di Marx: con c 400, v 100, pv/v 100% si ha un saggio del profitto del 20%. Andando a modificare pv/v portandolo dal 100% al 1000% si ha: c 400, v 100, pv/v 1000%, con un saggio del profitto del 200%.

Paradossi didattici a parte, la presunta arbitrarietà degli esempi numerici può essere presa come misura, ovviamente non statistica ma concettuale, delle diverse fasi di un processo di accumulazione sotto la spinta di due diverse fasi della caduta del saggio del profitto.

Nell’economia reale tutti i periodi di espansione produttiva sono caratterizzati da un aumento di c e di v in modo proporzionalmente diverso e con un incremento della produttività non sempre sufficiente a rallentare o ad arrestare la caduta del saggio del profitto. Questo avviene da sempre, ma è rilevabile l’intensità del fenomeno, sia pur con indici e tempi differenti, in tutte le aree del capitalismo dal '45 sino alla fine degli anni '60.

Per esempio, nel corso di questa ultima crisi che ha prodotto la ristrutturazione quale linea portante su cui si sono articolate le controtendenze, abbiamo assistito ad un enorme aumento di c, ad una stasi di v, e in alcuni settori portanti addirittura ad una sua diminuzione in assoluto, e ad un altissimo incremento della produttività.

Non è pertanto possibile parlare della legge della caduta del saggio del profitto senza mettere in relazione la modificazione del rapporto organico del capitale con l’aumento del saggio del plusvalore, ovvero della produttività del lavoro sociale.

Non avrebbe senso per il capitale complessivo aumentare la quota di capitale costante senza aumentare, anche di poco, il saggio del plusvalore, ovvero l’intensità dello sfruttamento del lavoro e quindi la produttività sociale. Se cosi non si comportasse, finirebbe soltanto per accumulare stock di materie prime ed ausiliarie con tutti gli oneri passivi del caso, senza ricavarne all’atto pratico il benché minimo vantaggio.

Aumentando la quota di capitale costante investendo in tecnologia, si incrementa automaticamente il saggio del plusvalore, riducendo il tempo di lavoro necessario alla produzione del medesimo quantitativo di merci o di un numero di merci superiore nella stessa unità di tempo. Il capitale complessivo, nella dinamica reale del processo di accumulazione capitalistico, si trasforma proporzionalmente più in c che in v alla sola condizione di aumentare la produttività del lavoro; anzi l’aumento della produttività del lavoro (lo sviluppo delle forze produttive) altro non è che il modo di esprimersi dell’aumento della composizione organica del capitale.

Sotto questo aspetto gli appunti critici agli schemi di Marx sembrano trovare un terreno adatto, ma molto spesso si dimentica, a parte il già citato aspetto didattico della questione, quanto lo stesso Marx abbia insistito su questo rapporto e sulla necessità di valutare la proporzionale modificazione di tutti i fattori del capitale.

La progressiva diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante, e di conseguenza al capitale complessivo, è proporzionale al progressivo elevarsi della composizione organica del capitate considerato nella sua media generale. Del pari, essa non è altro che la nuova espressione del progressivo sviluppo della produttività sociale del lavoro, che si dimostra per l’appunto nel fatto che, per mezzo dell’impiego crescente di macchinario e capitale fisso in generale, una maggiore quantità di materie prime e ausiliarie vengono trasformate in prodotto da un uguale numero di operai nello stesso tempo, cioè con un lavoro minore (1).

Non solo Marx ha ben presente la volontà da parte del capitale di non tenere costante il saggio del plusvalore, ma dimostra come, in certe condizioni, pur aumentando il rapporto organico del capitale, possano aumentare sia la massa dei profitti che il saggio del profitto. Ancora una volta, la condizione è che l’aumento del saggio del plusvalore sia proporzionalmente più elevato della caduta del saggio del profitto indotta dalla modificazione della composizione organica del capitate.

Ridiamo la parola a Marx:

Infine, faremo qui solo menzione al fatto che, data una determinata popolazione operaia, il saggio del plusvalore se aumenta in seguito al prolungarsi o all’intensificarsi della giornata lavorativa o per la diminuzione del valore del salario dovuto allo sviluppo delle forze produttive del lavoro, la massa del plusvalore (e quindi la massa assoluta del profitto) deve crescere nonostante la diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al costante (2).

In questo caso Marx si preoccupa di dimostrare come la modificazione del rapporto organico del capitate non presupponga, sempre e comunque, anche una diminuzione del plusvalore e quindi della massa dei profitti. Noi vogliamo mostrare, partendo da questa premessa che, dato un certo rapporto tra modificazione del rapporto organico e produttività, non solo possono aumentare il plusvalore e la massa dei profitti, ma anche il saggio del plusvalore e il saggio del profitto.

È importante insistere sulla relazione tra rapporto organico del capitale e produttività per evitare facili, quanto estremizzanti interpretazioni della legge della caduta del saggio del profitto. Oggi, come in passato, si sono commessi gravi, quanto politicamente pericolosi errori, sia nell’applicazione degli schemi di Marx che non tengono conto dell’aumento della produttività del lavoro, arrivando ad una sorta di autodistruzione del sistema produttivo capitalistico, già destinato a morte certa dopo soltanto un paio di processi di riproduzione allargata, sia, nel caso opposto, sottovalutando la complessa interrelazione tra la caduta del saggio del profitto e i fattori antagonistici, riducendo banalmente il tutto ad una mera linea di tendenza mai in grado di esprimersi compiutamente.

Solo l’attenta osservazione del modificarsi di tutti gli elementi del capitale (c, v, pv/v, pv/C) nelle varie situazioni di organizzazione del mercato, può far comprendere come la legge della caduta del saggio del profitto, e quindi le crisi economiche, possono esprimersi appieno, parzialmente, oppure essere temporaneamente amministrate. Per cui, a proposito di staticità e di dinamica di tutti i fattori del capitate, è ancora Marx ad essere il più esplicito:

In ogni singolo caso noi partiamo dunque dal presupposto che la produttività del lavoro rimanga costante. In realtà la composizione di valore di ogni capitate impiegato in un ramo industriale, vale a dire un determinato rapporto fra capitale variabile e capitale costante, esprime un determinato grado di produttività del lavoro. Non appena quindi questo rapporto subisce un mutamento per causa diversa da una pura e semplice variazione del valore degli elementi materiali costitutivi del capitale costante o da una variazione del salario, anche la produttività del lavoro deve aver subito un mutamento, e pertanto troveremo abbastanza sovente che le variazioni verificatesi nei fattori c, v, pv implicano analoghe variazioni nella produttività del lavoro (3).

È nella evidenza delle cose che questa variazione nella produttività, se è superiore alla modificazione del rapporto organico del capitate, influirà sulla caduta del saggio del profitto in misura maggiore o minore a seconda dell’intensità del suo indice di variazione. Circoscrivendo ulteriormente il problema, e centrando l’osservazione sul rapporto v-pv, si ha che, tenendo costante la quota di capitali anticipata in salari v, l’unico ostacolo all’aumento del plusvalore è dato dal livello di sfruttamento della forza lavoro, ovvero dall’indice di produttività del lavoro sociale. Al contrario, assumendo pv = K, il limite della valorizzazione del capitale è dato dalla massa del capitate variabile. E sempre con Marx:

Presupponendo dati i mezzi di produzione necessari, vale a dire una accumulazione sufficiente di capitale, la creazione del plusvalore trova il suo unico limite nella popolazione operaia, se il saggio del plusvalore, ossia il grado di sfruttamento del lavoro, è determinato, oppure dal grado di sfruttamento del lavoro, se la popolazione operaia è data (4).

Ecco che, superata definitivamente la staticità degli esempi numerici degli schemi di Marx, ed entrati nel più verosimile rapporto dinamico degli elementi costitutivi del capitale, la produttività ed il suo rapporto con la modificazione organica del capitate, diventano un elemento determinante per le necessità di valorizzazione del capitale, e quindi per il saggio del profitto.

In primo luogo perché la produttività del lavoro, più e meglio di altri fattori, è in grado di ridurre i tempi e i costi di tutto il processo produttivo, poi perché è la condizione principale in base alla quale si determina la stessa modificazione organica del capitale, infine perché, sia ai tempi di Marx che oggi, l’aumento della produttività è la strada obbligata che ha percorso e che deve percorrere il capitalismo.

In qualsiasi periodo, persino in quelli caratterizzati da una relativa stabilità del mercato, la latente pressione della caduta del saggio del profitto, induce i capitali ad una serrata concorrenza che viene di solito combattuta a colpi di tecnologia, di bassi salari, ma soprattutto di intensificazione del tasso di sfruttamento della forza lavoro, di cui l’investimento in capitale costante ad alto contenuto tecnologico e il contenimento del costo del lavoro, sono le componenti principali. Le crisi poi, rendono il tutto ancora più esasperato, intensificando tutti questi aspetti e favorendo al contempo i fenomeni macroeconomici come l’ulteriore concentrazione di mezzi di produzione o l’esprimersi della ristrutturazione dell’apparato produttivo, con tutti gli effetti negativi del caso sulle condizioni di vita del proletariato.

Ii rapporto che lega la caduta del saggio del profitto all'aumento della produttività sociale del lavoro, non solo è tipico dei rapporti di produzione capitalistici, ma è un suo, peculiare, modo di esprimersi.

Nel divenire del processo di accumulazione, il capitale complessivo si trasforma proporzionalmente più in capitale costante che in capitale variabile, alla sola condizione di aumentare la produttività del lavoro. Ma l’aumento della produttività del lavoro che nasce dall'aumento del plusvalore relativo, quello che riduce il tempo di lavoro necessario alla riproduzione dei mezzi di sussistenza del lavoratore, incide contemporaneamente sulla modificazione del rapporto organico del capitale, ed è la base su cui poggia la caduta del saggio del profitto.

Per il capitale, l’aumento della produttività è al contempo condizione e limite nello sforzo di superare la caduta del saggio del profitto. Ne è condizione nel momento in cui l’aumento della produttività è sinonimo di aumento del saggio del plusvalore, ne è il limite quando l’aumento della produttività comporta la modificazione del rapporto organico del capitale e, quindi, la caduta del saggio del profitto.

Ma ancora una volta è nella intensità e nella permanenza nel tempo dei due indici che è possibile distinguere e separare le due componenti che antiteticamente danno vita al processo di accumulazione. E allora, o l’aumento della produttività è percentualmente superiore all’aumento della composizione organica del capitale, e permette al saggio del profitto di aumentare garantendo un alto tasso di valorizzazione del capitale; o l’aumento della produttività è appena in grado di compensare la caduta del saggio del profitto innescata dall’aumento della composizione organica del capitale, ed in questo caso la valorizzazione del capitale rimane sui livelli precedenti. Oppure, l’aumento della prima è proporzionalmente inferiore alle modificazioni del secondo. In quest’ultimo caso la valorizzazione del capitale si esprime con tassi inferiori rispetto alla fase precedente, la caduta del saggio del profitto ha buon gioco ad esprimersi, e si innesca il tentativo di recuperare sulla massa del plusvalore prodotto, e quindi dei profitti, quanto si va perdendo sul saggio del profitto.

Sempre tenendo costanti tutti gli altri fattori del capitale, che possono influire sulla determinazione del saggio del profitto, pur indugiando in uno schema teorico astratto, e centrando l’analisi esclusivamente sulla interazione tra modificazione del rapporto organico del capitale e produttività, emerge come la caduta del saggio del profitto sia una linea di tendenza sempre pronta a manifestarsi a condizione che il livello della produttività sia uguale o inferiore alle conseguenze derivanti dalla modificazione organica del capitale. Tenendo conto dei rapporti percentuali dei due indici, va da sé che si può (deve) avere una caduta del saggio del profitto anche in presenza di un aumento della produttività. Anzi, nel terzo libro del Capitale, Marx insiste su quest'ultimo aspetto, identificando l'esprimersi della legge della caduta del saggio del profitto con l'incremento del plusvalore relativo e con il conseguente sviluppo delle forze produttive.

Le supposte teorie complementari

Abbiamo insistito sulla staticità degli esempi di Marx e sul rapporto tra la caduta del saggio del profitto e la produttività del lavoro, perché non pochi economisti dell’area marxista, partendo dalla presunta parzialità della esposizione della legge fatta da Marx nel III libro del “Capitale”, si sono sentiti in dovere di compendiarne alcuni aspetti, con il risultato, nel migliore dei casi, di confondere i rapporti di causalità, o di vanificarne il ruolo fondamentale, riducendo la caduta del saggio del profitto ad una sorta di appendice alla teoria delle crisi.

Per comodità di discorso e per questioni di spazio, prenderemo solo brevemente in considerazione alcune teorie che, con intenti e metodologie differenti, reinterpretano gli aspetti essenziali della legge.

Dovendo dare una definizione sintetica a queste teorie, chiamiamo teoria della Regolazione quella che individua nella progressiva diminuzione della produttività la causa principale della caduta del saggio del profitto, quella Terziaria, che individua la causa, oltre che nella modificazione del rapporto organico del capitale, nell’aumento del lavoro improduttivo nei confronti di quello produttivo, ed infine la teoria della “saturazione dei mercati”, che nella sua visione meccanicistica, finisce per stravolgere i meccanismi di accumulazione del capitale, riconoscendo operatività alla legge solo dopo l’avvento della crisi, relegandola così a mero corollario dei processi di crisi del capitate.

Il nostro interesse per queste teorie è breve e parziale, dovuto prevalentemente ad un motivo strumentale, quello cioè di mettere in risalto alcuni aspetti fondamentali della legge, e non quello di immergerci in un approfondito esame comparativo.

La teoria della Regolazione centra la causa della caduta del saggio del profitto nel non adeguato aumento della produttività e per gli alti salari, a fronte di un rapporto organico del capitale sempre più alto.

È indubbio che, nelle fasi di riproduzione allargata, con una massa di investimenti sempre crescente, ed orientata percentualmente più verso il capitale costante che quello variabile, e con un livello di produttività costante o percentualmente inferiore all’aumento del rapporto organico del capitale, il saggio del profitto è destinato a decrescere. Se poi si fanno variare i salari verso l’alto, il fenomeno è destinato ad assumere dimensioni rilevanti.

Questa teoria, come del resto le altre due, supporta la propria tesi con dati statistici che si riferiscono prevalentemente alla realtà economica americana dal 45 ad oggi, soffermandosi in particolare sugli effetti negativi del fenomeno, negli anni della crisi, ovvero dagli inizi degli anni Settanta in poi. L'evidente errore consiste nel non legare la caduta del saggio del profitto proprio allo sviluppo delle forze produttive, sulla base di un incremento del plusvalore relativo che sono alla basa della modificazione della composizione organica del capitale e della caduta del saggio

La teoria della Regolazione, dati alla mano, mostrerebbe come la crisi degli “anni 70” che si è abbattuta sulla economia americana, abbia la sua causa prima nella incompiutezza del processo di accumulazione del capitale americano, dove in corrispondenza di una enorme dilatazione della base produttiva caratterizzata da massicci interventi di capitale finanziario in investimenti produttivi, la produttività sociale del sistema è rimasta ferma agli anni “60”(?), mentre i salari hanno visto aumentare il loro potere di acquisto del 20%.

Pur tralasciando il supposto ruolo negativo ai fini dell’accumulazione degli aumenti salariali negli anni ‘70 e ‘80 (la questione è lunga e controversa), l’impostazione dell’analisi può essere considerata corretta a condizione di non confondere le cause con gli effetti. Un non adeguato incremento della produttività, non adeguato rispetto all’aumento percentuale del rapporto organico del capitale, sta semplicemente ad indicare che una delle controtendenze, la più importante, alla caduta del saggio del profitto non è sufficientemente efficace. O se si preferisce, che la controtendenza posta in essere all’aumento del rapporto organico del capitale è percentualmente inferiore alla causa che lo ha determinato.

Ragionando in termini meccanici di causa ed effetto, appare evidente come la causa prima della caduta del saggio del profitto, risieda interamente nella modificazione quantitativa e percentualmente diversa, tra capitale costante e capitale variabile, e che l’aumento della produttività sociale sia un necessario meccanismo indotto, essenziale oltre che tipico del manifestarsi del processo di accumulazione capitalistico, ma non sempre in grado di assolvere alla sua funzione, e comunque complementare alle modificazioni del capitale stesso nel senso dell'innalzamento della composizione organica.

Nella prima parte di questo lavoro abbiamo insistito sul come, per il capitale complessivo, la modificazione del rapporto organico, presupposto e conseguenza necessari all’aumento della produttività, fosse la condizione prima del processo di accumulazione, ma anche come fosse imprescindibile analizzare i due indici di incremento perché si potesse parlare di caduta tendenziale o reale del saggio del profitto. In altri termini è analiticamente pericoloso spostare l’accento sul fattore produttività dando per scontato il primo, quando entrambi gli indici devono entrare nell’analisi, tenendo in debito conto che sono gli indici di incremento del secondo che devono misurarsi con quelli del primo e non viceversa e che, comunque, entrambi sono momenti determinanti di un medesimo processo.

Il rischio di questa impostazione metodologica è che si finisca per attribuire il ruolo di causa della caduta del saggio del profitto alla mancanza di produttività o all’aumento dei salari reali, staccandoli dal loro referente che resta la modificazione del rapporto organico del capitale. Solo partendo dall’aumento percentuale di quest’ultimo è possibile valutare l’intensità e l’efficacia delle controtendenze, sia che si tratti del contenimento del costo della forza lavoro o dell’intensità del lavoro, e quindi verificare l’andamento della legge.

D’altra parte la storia del capitalismo contemporaneo, dal ‘45 ad oggi, ha mostrato come l’eterna rincorsa del capitale verso i guasti prodotti dalla caduta del saggio del profitto sia generalmente perdente, fatte salve alcune fasi di breve periodo. Da una verifica empirica basata su dati forniti dallo stesso governo americano e dall’OCSE, risulta che dal ‘45 ad oggi, il saggio del profitto in USA è diminuito del 35% e del 30% in Europa. Il fenomeno ha conosciuto una linea di tendenza progressiva di lunga durata, sino a quando il processo di ristrutturazione di questi ultimi anni, non ha invertito parzialmente la linea di tendenza.

Da un punto di vista generale si può empiricamente rilevare come la legge venga contenuta o bloccata momentaneamente nel breve periodo quando questo è caratterizzato da piccole o grandi “rivoluzioni” tecnologiche basate sul recupero della produttività, e quindi del saggio del plusvalore, e come riappaia nel lungo periodo, quando l’efficacia delle misure di controtendenza si affievolisce o scompare del tutto perché divenuto patrimonio dell'intero settore produttivo.

Quando un capitale sociale, o una parte di esso, pressato dalla crisi e dalla concorrenza, tende a forme superiori di concentrazione, lo fa sulla scorta di investimenti tecnologici (robotizzazione, uso di microprocessori e dell’informatica in generale), che gli consentono di guadagnare margini di competitività, di battere la concorrenza, e soprattutto di ripristinare i margini di profittabilità grazie all’enorme incremento della produttività. In questi casi la caduta del saggio del profitto viene tamponata, non solo, ma aumentano la massa dei profitti e lo stesso saggio del profitto.

Nelle fasi di lungo periodo, continuando ad aumentare la quota minima di capitale necessario a rimettere in moto l’apparato produttivo, e quindi per consentire la riproduzione allargata sulla base della medesima acquisizione tecnologica uguale ormai per tutto il sistema, va necessariamente dilatandosi la quota di capitale investito in c rispetto a v, mentre la produttività rimane costante.

In più, ma questo è solo un elemento accessorio e non una concausa, il capitale ristrutturato, una volta vinta la concorrenza e rintuzzati tutti gli aspetti degenerativi della crisi, proponendosi a livello di organizzazione del mercato in termini di monopolio o quasi monopolio, usufruendo cioè della cosiddetta rendita monopolistica, e del sovrapprofitto, ha minori incentivi a rinnovarsi tecnologicamente, contribuendo nel medio periodo al riemergere della legge.

In questo caso il processo di valorizzazione del capitale può essere garantito dall’aumento della massa dei profitti, o tentando di recuperare attraverso la pratica dei prezzi monopolistici ciò che il capitale va progressivamente perdendo all’interno dei meccanismi della produzione, o agendo su entrambe le linee. Ma anche in questa situazione, il declino della produttività non può essere assunto a causa della caduta del saggio del profitto, bensì il suo contrario.

Semmai dimostra come il venir meno di una delle più importanti, nel medio periodo, delle controtendenze dia il via libera alla causa prima della legge che è la modificazione del rapporto organico del capitale.

A conclusione bisogna precisare che il circolo “vizioso” accumulazione- produttività e caduta del saggio del profitto trova comunque un limite nel progressivo restringimento della domanda interna e nel ridursi dell’area nella quale attingere plusvalore. Facendo un esempio limite, astorico quanto fanta economico, in cui il sistema produttivo fosse composto esclusivamente da capitale costante con solo una unità di forza lavoro, non ci sarebbe tasso di sfruttamento e di produttività che tenga e nemmeno una sufficiente domanda da contrapporre alla massa di valore espressa sotto forma di merci. Ritornando sul terreno reale, va registrata la progressiva difficoltà da parte del sistema di compensare la divaricazione tra capitale costante e capitale variabile con incrementi della produttività che devono essere sempre più intensi ma che finiscono, di solito, per essere la causa prima di una accumulazione ad alto rapporto organico del capitale con tutte le conseguenze del caso.

Anche la teoria Terziaria ci consente alcuni spunti di analisi e di approfondimento.

La tesi, peraltro in parte corretta nella sua formulazione generale, sostiene che la caduta del saggio del profitto è da imputarsi, oltre che alla modificazione del rapporto organico del capitale, all’incremento del lavoro improduttivo rispetto a quello produttivo. A sostegno, sempre avendo come riferimento il quadro dell’economia americana, dalla fine del secondo dopoguerra ad oggi, si portano dati inequivocabili. In primo luogo la metamorfosi economico-organizzativa della società americana, in secondo luogo gli indici statistici di questa metamorfosi.

Il mutamento si è presentato sotto forma di una enorme dilatazione del settore terziario (improduttivo) rispetto a quello industriale (produttivo). Negli ultimi quarant’anni la società americana, punta avanzata del capitalismo occidentale, ha prodotto una dilatazione dell’apparato finanziario, delle compagnie di assicurazioni e di pubblicità, un sensibile incremento degli investimenti nel settore della circolazione delle merci. Negli ambienti più strettamente produttivi si è avuto un aumento delle fasi di controllo sull’attività produttiva ed in più l’apparato burocratico si è ingigantito a dismisura. I risultati di questa modificazione della società americana tradotti in cifre rivelano come il 70% del RNL sia prodotto nel settore terziario e che soltanto il restante 30% provenga dal mondo della produzione. Una seconda lettura ci fa intendere che i redditi del settore improduttivo devono essere pagati con quote del plusvalore estratto dal settore produttivo. In più la tesi Terziaria aggiunge che nel suddetto arco di tempo, a fronte di un incremento del saggio del plusvalore del 20% si è avuto un aumento della composizione organica del capitale del 40%, mentre il rapporto tra lavoro improduttivo e lavoro produttivo è aumentato del 100%, ovviamente a favore del primo. L’analisi si chiude con l’evidente constatazione che se alla massa di plusvalore socialmente prodotta si sottraesse la quota di plusvalore impiegata per pagare i redditi del settore improduttivo, la massa del profitto ed il suo saggio sarebbero destinati a decrescere. Le conseguenze sono che con la rinvigorita caduta del saggio del profitto risultante dall’effetto congiunto della modificazione del rapporto organico del capitale e dell’aumento del lavoro improduttivo, l’economia americana ha progressivamente perduto margini di competitività sul mercato interno ed internazionale, ha prodotto ed esasperato negli anni ‘70 l’inflazione, ha visto diminuire gli investimenti produttivi ed aumentare la speculazione con il relativo, enorme incremento della disoccupazione.

Anche per la tesi Terziaria nulla da eccepire a condizione che i fattori determinanti e derivati non si confondano tra di loro. Come per la diminuzione della produttività, è evidente che un aumento del lavoro improduttivo finisca per pesare sul plusvalore complessivo, e quindi sul saggio del profitto. Ma mentre l’aumento del rapporto organico del capitale, con il suo corollario della caduta del saggio del profitto, è condizione e modo di manifestarsi del processo di accumulazione capitalistico, la terziarizzazione e la estensione del lavoro improduttivo, ne sono, per alcuni versi, una conseguenza, inevitabile quanto dannosa per il saggio del profitto.

Da un punto di vista generale la terziarizzazione della società è un fenomeno parzialmente recente, ma perfettamente funzionale e necessario ai modelli di sviluppo del capitalismo moderno.

La grande concentrazione di mezzi di produzione e la grande centralizzazione di capitale finanziario, non possono che essere alla base di una produzione di merci su scala sempre più ampia. Il che inevitabilmente comporta una espansione del settore riguardante la circolazione delle merci ed un aumento dei costi della loro commercializzazione. Ovvero gli investimenti improduttivi che sono alla base della distribuzione e della commercializzazione delle merci, gravano pesantemente sul saggio del profitto se non vengono, in regime di monopolio, scaricati sul prezzo di vendita delle merci. Con una osservazione però, mentre le spese in pubblicità e in salario per gli addetti del settore, riducono la massa del plusvalore e diminuiscono il saggio del profitto, l’investimento di capitale nel settore della distribuzione può diminuire sensibilmente il tempo di circolazione delle merci, aumentando, anche se di poco, il saggio del profitto.

In tutti i casi si ha comunque che una quota più o meno rilevante di capitale deve essere distolta da una attività produttiva che crea plusvalore, per essere inserita in attività, sì improduttive ma necessarie il cui indice percentuale rallenta proporzionalmente la valorizzazione del capitale.

Del pari, la centralizzazione del capitale finanziario, più cresce e più ha bisogno di infrastrutture complesse e sofisticate a sostegno di tutte le attività improduttive, tra le quali, non ultima, la speculazione la cui abnorme crescita è proporzionale alla diminuzione del saggio del profitto.

Anche le attività di sorveglianza e di controllo aumentano in funzione dell’incremento tecnologico dell’attività produttiva sottraendo a loro volta quote di plusvalore.

Ma la terziarizzazione della società, l’aumento delle attività parassitarie e improduttive, peraltro sostenibili soltanto da un elevato tasso di sfruttamento della forza lavoro, sono una necessaria conseguenza dello sviluppo del capitalismo, ne rappresentano l’alto livello di produttività raggiunto e contemporaneamente mostrano la limitatezza della sua ulteriore espansione, ma non ne rappresentano la contraddizione principale che rimane quella tra capitale e forza lavoro, sul sempre maggiore sfruttamento del primo nei confronti del secondo basato sull'incremento del pv relativo e di cui la legge della caduta del saggio del profitto è l’immediata conseguenza.

Ecco perché le due tesi prese in considerazione possono essere considerate valide nel momento in cui pongono l’accento, anche se in maniera unilaterale, sui fattori economici e di organizzazione sociale che favoriscono la caduta del saggio del profitto, ma sbagliano se pretendono di considerare la diminuzione della produttività e il lavoro improduttivo come le principali cause della legge, mettendo in secondo piano i meccanismi di accumulazione, di cui l’aumento del rapporto organico del capitale è una premessa primaria al pari dell'incremento delle forze produttive sulla basa del plusvalore relativo..

La teoria della saturazione dei mercati

Non pochi teorici marxisti, pur rimanendo nell’ambito di una interpretazione dialettica delle crisi economiche, denunciano una presunta dualità di Marx nell’affrontare il problema. La dualità, che in alcune interpretazioni estreme diventa una sorta di inconciliabile contraddizione metodologica, consisterebbe nella separatezza tra la teoria delle crisi per sovrapproduzione e quella generata dalla caduta del saggio del profitto. Come se, nell’esame complessivo di Marx, le “due” analisi fossero a sé stanti o addirittura in contrapposizione. In alcuni casi, e non da ora, sono nate “scuole di interpretazione” che in modo unilaterale, oltre che meccanicistico, hanno ritenuto e ritengono che l’una escluda forzatamente l’altra.

Non entriamo nel merito della questione, anche perché falsa e scientificamente mal posta (al riguardo ci basti dire che Marx, pur avendo trattato le “due” impostazioni in libri diversi del “Capitale”, ha ripetutamente dimostrato come il fenomeno della sovrapproduzione e la legge della caduta del saggio del profitto siano due momenti complementari del processo di accumulazione capitalistico e delle sue crisi), ma riteniamo opportuno fare alcune considerazioni di merito sulla teoria della saturazione dei mercati, come sotto categoria interpretativa della teoria delle crisi per sovrapproduzione.

In primo luogo perché il suo approccio è unilaterale e parziale, poi perché relega la legge della caduta del saggio del profitto ad un ruolo subordinato che assolutamente non le compete, terzo perché considerando i modi e i ritmi di accumulazione del capitale solo in funzione di un asettico schema di riproduzione allargata in cui la modificazione del rapporto organico del capitale appare ininfluente nei confronti dello stesso processo di accumulazione, ed infine perché dovendo in qualche modo prendere in considerazione la legge della caduta del saggio del profitto, la colloca operante, cioè in grado di influire nei meccanismi del sistema economico, solo a saturazione del mercato avvenuta, il che vuol dire a crisi economica già prodottasi.

In altri termini l’operatività della legge, invece di contribuire all’accelerazione dei tempi di maturazione della crisi, entrerebbe in funzione a crisi già avvenuta, da qui l’implicita valutazione di assoluta ininfluenza della legge per tutto l’arco storico ed economico del ciclo di accumulazione.

Come nel caso di teorizzazioni consimili, la tesi della crisi per saturazione dei mercati, attinge, anche se in modo riduttivo e schematico alla impostazione della Luxemburg, per cui da qui dobbiamo partire per mettere in luce limiti e difetti di impostazione metodologica.

D’altronde il contenzioso teorico sulle crisi non si è mai ridotto, tanto meno oggi, quando la crisi mondiale del capitalismo ha prodotto “nuove” tecniche di gestione riuscendo a diluire nel tempo i suoi effetti che comunque restano profondi e irreversibili. Infatti si è discusso e ancora oggi si discute sulle cause prime delle crisi in regime capitalistico. Le teorie borghesi tendono a spostare le cause di queste all’esterno dei rapporti di produzione, cercando di dimostrare come le crisi non siano il prodotto di contraddizioni insanabili, ma soltanto la conseguenza di un mancato equilibrio distributivo, per cui è sufficiente intervenire sul rapporto domanda-offerta per rimettere le cose a posto. Brevemente possiamo dire che le teorie di mercato, come quelle del sottoconsumo, pretendono di eliminare le cause delle crisi intervenendo là dove sembrano presentarsi (mercato), agendo sugli effetti senza prendere in considerazione le cause effettive che ne sono i presupposti. Keynes, ad esempio, teorizzava la superabilità delle crisi (carenza di domanda), imponendo allo Stato di intervenire sul mercato come elemento complementare (domanda aggregata) in modo da ristabilire l’equilibrio tra domanda e offerta.

Ci sembra che Marx abbia sufficientemente mostrato l’errore di fondo di queste teorie di mercato, riconducendo le cause delle crisi all’interno dei rapporti di produzione, ponendo in luce il limite obiettivo a cui va incontro lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici. Per Marx il problema non è quello del sottoconsumo o della sovrapproduzione, l’aspetto determinante della contraddizione non risiede nell’inevitabile disequilibrio tra produzione e distribuzione, tra capacità produttiva e possibilità di consumo, tra valore d’uso e valore di scambio delle merci nel rapporto tra domanda e offerta. La contraddizione fondamentale che induce ed esaspera tutte le altre sta nel capitale stesso e nel suo rapporto con la forza lavoro, rapporto che è al contempo punto di partenza e limite al suo processo di valorizzazione. È solo all’interno dei meccanismi di accumulazione che si generano e si esasperano i motivi delle crisi che finiscono per ripercuotersi sul mercato e non viceversa.

Nel campo marxista, chi meglio di ogni altro ha abbracciato la tesi di mercato delle crisi per sovrapproduzione è stata Rosa Luxemburg. Sintetizzando il suo pensiero si ha questo quadro di sviluppo: il sistema produttivo capitalistico, nel suo aspetto complessivo, consta di due momenti tra di loro complementari. Il momento della produzione delle merci, nel quale si crea plusvalore ed il momento della distribuzione nel quale il plusvalore viene realizzato.

Se lo scopo del capitalismo è la valorizzazione del capitale, non è sufficiente che vengano prodotte delle merci, è altresì necessario che queste merci vengano vendute perché si possa realizzare il plusvalore in esse contenuto. Il profitto, infatti, non è altro che una quota di questo plusvalore. Non solo, ma essendo il profitto la condizione prima della riproduzione allargata, ovvero dell’accumulazione, quest’ultima è possibile alla sola condizione che le merci prodotte trovino sul mercato una domanda adeguata. In assenza di questa niente profitti e nessuna accumulazione, il sistema entra in crisi perché il mercato è saturo.

E' a questo punto dello schema che la Luxemburg entra criticamente nella questione. In una società capitalistica, in cui la borghesia detiene il capitale finanziario e i mezzi di produzione, la classe operaia può disporre soltanto del misero salario che ottiene in cambio della vendita della sua capacità produttiva, chi rappresenta sul mercato la domanda sufficiente per pareggiare l’offerta?

Evidentemente non i lavoratori la cui capacità d’acquisto, e quindi di consumo, è determinata a priori dalle esigenze di valorizzazione del capitale, non i capitalisti, i quali dedicano al consumo solo una parte della loro capacità di acquisto. L’unica alternativa possibile è, per la Luxemburg, che esistano dei compratori esterni al capitalismo, che rappresentino quella quota di domanda che non esiste al suo interno, che acquistino tutto quanto è stato prodotto (eccezion fatta per quei beni strumentali che vanno a rimpiazzare quelli consumati nella produzione, e di quei beni di consumo necessari alla stessa borghesia e al proletariato in proporzioni ben distinte e lontane) garantendo così al capitale profitti e accumulazione.

Quando queste aree diminuiscono o non assolvono più la loro funzione, ecco che siamo in presenza di una offerta produttiva che non trova più una adeguata domanda di consumo. Da qui la saturazione dei mercati, la sovrapproduzione ecc..

E indubbio che la tesi luxemburghiana sia suggestiva e contenga delle verità anche se parziali, ma è anche altrettanto vero che vi siano dei vizi di fondo quali il considerare l’accumulazione soltanto in termini monetari, il non ammettere a priori la possibilità di una accumulazione, anche se minima, all’interno del sistema, e di interpretare il comportamento del capitale costante nel problema dello scambio come fosse un capitalista singolo. E, paradossalmente, il suo sforzo per spiegare l’unica possibilità che ha il sistema per accumulare, finisce per rivoltarlesi contro costringendola a dare delle crisi, del processo di accumulazione e dell’imperialismo una definizione quantomeno impropria.

Infatti, se così fosse, se cioè il processo di accumulazione potesse avvenire solo a condizione che tutte le merci prodotte (eccezion fatta per quelle a cui si faceva prima riferimento) vengano vendute per permettere la realizzazione del plusvalore in esse contenuto, se ne dovrebbe dedurre che accumulare significherebbe accatastare una quantità di valore sotto forma di denaro e niente più. Ma se accumulare significa allargare gli impianti e aumentare la capacità produttiva, disporre di beni strumentali addizionali, occorre che siano disponibili sul mercato proprio quelle merci che invece sono state vendute al di fuori del sistema per garantire profitti nella forma monetaria. In realtà non si può parlare di accumulazione solo in termini monetari, ma soprattutto di merci. Il valore, ovvero una certa quantità di lavoro prodotto, può manifestarsi sotto forma di valore denaro o di valore merce, ed è la seconda in questo caso, e non la prima che interessa maggiormente ai fini della accumulazione, anche se i due valori si compendiano.

Se per ammissione della stessa Luxemburg è solo all’interno del sistema capitalistico che si producono oltre ai beni di consumo i beni strumentali, e se accumulare significa aumentare la base produttiva, è inevitabile che ciò avvenga sotto forma di valore merce (macchinari) e non sotto forma di valore denaro, anche se, come già detto, è con il danaro che si comprano macchinari e nuove strumentazioni. Quindi l’accumulazione è possibile non quando tutte le merci prodotte in eccedenza sono state vendute, ma quando una quota più o meno grande di queste vada ad ingrandire la base produttiva. Allora e solo allora si porrà il problema di una vendita in eccedenza che comunque (la storia lo ha dimostrato) non si rivolge solo ed esclusivamente alle aree extra capitalistiche.

In secondo luogo come è possibile basare l’enorme sviluppo delle forze produttive capitalistiche, il frenetico processo di accumulazione su scala mondiale, sulle capacità di acquisto dei paesi sottosviluppati? Questi, proprio perché arretrati in tutti i sensi ed in modo particolare nella possibilità di creare valore, non possono sobbarcarsi interamente l’onere di mantenere i costi del processo di accumulazione del capitalismo mondiale. Se lo scambio di mercato tra le zone capitalistiche e quelle extra capitalistiche avvenisse per valori equivalenti, significherebbe che per lunghi periodi i paesi più arretrati sono riusciti a produrre (non si sa come) una quantità di valore perlomeno equivalente a quella prodotta in eccedenza dai paesi ad avanzatissima capacità produttiva.

A settantacinque anni dalla pubblicazione della Accumulazione del capitale possiamo constatare come lo sviluppo del capitalismo, dopo due cicli di accumulazione ed altrettante guerre mondiali, sia sopravvissuto al progressivo esaurimento delle aree pre capitalistiche.

In modo particolare dal ‘45 ad oggi, il processo di accumulazione si è prodotto nello scontro tra il vecchio capitalismo europeo e quello americano, in regime di strapotere finanziario, tecnologico-produttivo del secondo nei confronti del primo. Con gli inizi degli anni ‘70, la linea di tendenza ha cominciato a rovesciarsi con il prepotente intervento del capitalismo giapponese. Più in generale, il ciclo di accumulazione dell’area occidentale ha visto ingaggiare anche un altro tipo di lotta, quella tra le aree di capitalismo avanzato e i paesi in via di sviluppo, con il risultato di coinvolgere tutti i segmenti del capitalismo internazionale, pur se a diversi livelli di sviluppo.

Da almeno mezzo secolo il mercato capitalistico ha integrato a pieno titolo tutte le aree economiche e il processo di accumulazione non per questo si è inceppato, si è più semplicemente manifestato nella dinamica dello scontro tra i settori forti e quelli deboli. Da sempre il capitalismo è sopraffazione e spoliazione, da sempre la forma produttiva basata sulle necessità di valorizzazione del capitale si è imposta in termini di dominio finanziario, produttivo e di controllo del mercato delle materie prime, sugli antagonisti più deboli, in virtù ed in funzione del proprio processo di accumulazione, ma lo ha fatto e lo fa indifferentemente dalle aree economiche che ha di fronte. Fatte salve quelle aree di sottosviluppo dove si è iniziato a delocalizzare la produzione in virtù dei bassi salari.

Solo il diverso sviluppo degli stessi rapporti di produzione ha imposto all’accumulazione di capitale di riferirsi alle aree pre capitalistiche o a quelle capitalistiche più deboli, senza per questo vedersi negare ambiti e spazi di intervento. Se i destini dell’accumulazione fossero stati legati esclusivamente, o solo prevalentemente, all’esistenza di aree economiche pre capitalistiche, il capitalismo si sarebbe estinto già da un bel pezzo.

La teoria della saturazione dei mercati si inserisce in questa impostazione metodologica, ma seguire la Luxemburg in tema di possibilità di accumulazione e di crisi significa correre il rischio di osservare il fenomeno solo per quello che appare e di scambiare gli effetti con le cause. Infatti da questa analisi discendono alcune considerazioni errate sia sul piano della definizione scientifica che della verifica storica:

  1. Che la contraddizione fondamentale del sistema produttivo capitalistico stia nel rapporto produzione-distribuzione.
  2. Che le crisi siano il prodotto di una sovrapproduzione per esaurimento dei mercati pre capitalistici.
  3. Che solo l’esaurimento o la saturazione di questi mercati trasformi la caduta del saggio del profitto da tendenziale a reale.
  4. Che l’imperialismo sia essenzialmente caratterizzato dalla ricerca di mercati extra capitalistici dove collocare l’eccedenza della produzione e solo in via subordinata dalla esportazione di capitali finanziari e di decentramento produttivo.
  5. Infine c'è da ricordare come Marx definisce il concetto do sovrapproduzione. La sovrapproduzione di merci come di capitali è tale nella misura in cui essi non possono essere impiegati più come strumenti di sfruttamento come lo erano precedentemente. Per cui la diminuzione del grado di sfruttamento determina perturbazioni all'interno dell'apparato produttivo producendo crisi e distruzione di capitale. In sostanza non si è creato troppo per i bisogni sociali, ma si è prodotto troppo in termini capitalistici trasferendo sul mercato le conseguenze di tutto ciò sotto forma di un eccesso di merci che l'iniqua distribuzione del reddito, provocata dell'ineludibile rapporto tra capitale e lavoro, porta inevitabilmente con sé indipendentemente dalla presenza o meno di mercati pre capitalistici.

La teoria delle crisi e la caduta tendenziale del saggio del profitto

Ripartiamo col prendere in considerazione i punti che riguardano la supposta contraddizione fondamentale e le cause principali delle crisi, in base ai quali il mercato e i fenomeni che in esso avvengono sembrano essere il punto focale su cui far procedere l’analisi. In realtà il processo è inverso. Pur partendo dal mercato e dalle contraddizioni che in esso si manifestano, è ai meccanismi che regolano il processo di valorizzazione e accumulazione che bisogna riandare per avere una più corretta visione del problema.

Il capitalismo, in quanto unità produttiva e distributiva, impone che si guardi a ciò che avviene nel mercato, come la conseguenza del giungere a maturazione delle contraddizioni che sono alla base dei rapporti di produzione e non il contrario. E' il ciclo economico e la necessità di valorizzazione del capitale che condizionano il mercato. È solo partendo dalle leggi che regolano il processo di accumulazione che è possibile spiegare le crisi di mercato.

Il capitalismo, come particolare forma di produzione, nasce, si sviluppa, ed ha il suo limite nel rapporto capitale-forza lavoro, ed ha come unico scopo la valorizzazione del capitale attraverso la produzione di merci. Queste sono il mezzo e non il fine della produzione capitalistica. Per ottenere questo fine il sistema produttivo è costretto non soltanto a riprodurre il rapporto capitale-forza lavoro, ma a farlo su scala allargata. Fin dagli inizi il capitalismo si è mosso in questa direzione allargando la base produttiva, innescando cioè i meccanismi contraddittori del processo di accumulazione.

E a questo punto che il capitalismo si è trovato ad un bivio. Accumulare significa creare, di produzione in riproduzione, una quantità di plusvalore sempre più grande, e ciò era possibile, in regime di libera concorrenza, solo a due condizioni. O prolungare la giornata lavorativa lasciando pressoché immutato il rapporto organico del capitale (plusvalore assoluto), o diminuire il tempo di lavoro necessario per ricreare i beni necessari al mantenimento del proletariato (plusvalore relativo) accumulando proporzionalmente più in capitale costante tecnologicamente avanzato che in mano d’opera (capitale variabile), andando così a modificare il rapporto organico del capitale.

Storicamente il capitalismo, dopo una prima fase, quella della accumulazione originaria, in cui batté la strada del prolungamento della giornata lavorativa, fu costretto a ripiegare sulla seconda, con la tecnologia, la grande industria e con lo sviluppo delle forze produttive, essenzialmente per tre motivi:

  1. L’allungamento della giornata lavorativa ha un limite invalicabile nella giornata stessa. Ovvero, pur facendo un paradosso, non è possibile far lavorare la classe operaia oltre le 24 ore giornaliere.
  2. In quei periodi l’orario di lavoro, che andava dalle 12-16 sino ad un massimo fisico di 18 ore giornaliere per uomini, donne e bambini, cominciava a creare sacche di resistenza che prima o poi avrebbero spinto le masse lavoratrici ad organizzarsi per contrattare orari di lavoro più umani, tendenti a ridurre e non ad aumentare la giornata lavorativa.
  3. Mentre l’aumentare, nella riproduzione allargata, la quota di capitale costante in rapporto al capitale variabile, significava per il capitalista diminuire il tempo di lavoro necessario alla produzione delle merci, aumentare lo sfruttamento e la quantità di plusvalore (relativo), ed implicava contemporaneamente il diminuire del valore delle merci e accelerare il processo di accumulazione battendo in breccia la concorrenza attraverso l'aumento della produttività del lavoro stesso dando impulso allo sviluppo delle forze produttive.

A sua volta però, l’aumento della produzione e della produttività del lavoro sulla base dello sviluppo delle forze produttive, che comportano la modificazione del rapporto organico del capitale, hanno innescato i meccanismi che regolano la caduta del saggio del profitto. La crisi economica che ha sconvolto la forma di organizzazione del mercato di libera concorrenza, ha avuto origine proprio nell’azione combinata della caduta del saggio del profitto che ha imposto una accelerazione della produzione delle merci (sovrapproduzione) nella necessità di aumentare la massa dei profitti. Storicamente un simile sviluppo ha finito per rompere il quadro di organizzazione di quella specifica esperienza di mercato che era la libera concorrenza, basata sull’esistenza di piccole e medie imprese, sulla produzione di plusvalore assoluto, di beni prevalentemente omogenei, con costi di produzione pressoché identici e prezzi di vendita dettati dal mercato al ribasso, in proporzione all’aumento dell’offerta.

In simili condizioni, per il capitale, si impose la necessità di recuperare sul piano della quantità della massa dei profitti quanto andava perdendo in termini di saggio del profitto; ciò ha dato il via alla grande crisi di sovrapproduzione che ha messo in grave difficoltà il sistema di mercato della libera concorrenza per dare il via alla costruzione di un mercato oligopolistico e poi monopolistico.

Non per un accidente storico, quindi, ma per una contraddittoria necessità di valorizzazione del capitale, alla crisi del mercato di libera concorrenza, è andato progressivamente sostituendosi una organizzazione della produzione che consentisse ai meccanismi dell’accumulazione di meglio sviluppare altre forma di sfruttamento, non più basate solo sull'allungamento della giornata lavorativa ma sul plusvalore relativo, quello che riduce il tempo di lavoro necessario alla riproduzione del salario con gli effetti negativi sulla modificazione della composizione organica del capitale e sulla caduta del saggio del profitto.

Un primo passo è stato quello di eliminare o contenere la concorrenza. I capitali più forti, giovandosi del deprezzamento del valore capitale che si manifesta in tutte le crisi economiche, hanno potuto dare facilmente luogo al fenomeno della concentrazione, eliminando dal mercato le strutture produttive più deboli incorporandole o mettendole in condizioni di non essere più competitive.

Così i primi grandi Trust hanno potuto, entro i limiti della nuova organizzazione di mercato, diversificare la gamma dei beni prodotti, giocando sull’aspetto estrinseco, accessorio; ed avere una maggiore discrezionalità nella determinazione del prezzo di vendita delle merci, anticipando nella forma il moderno capitalismo monopolistico.

Come vedremo più avanti, accanto all’aumento della sfruttamento, alla riduzione del costo del lavoro, l’aumento monopolistico dei prezzi è una delle controtendenze alla caduta del saggio del profitto, alla sola condizione che le forme organizzative del mercato libero-scambista vengano abbattute, e che pochi grandi colossi dominino l’assetto economico della nuova organizzazione del mercato.

Ma la strada che il capitalismo si è imposto, sulla base dello sviluppo delle proprie contraddizioni, lo ha portato di fronte ad un vicolo cieco. Il costante aumento delle forze produttive, l'innalzamento del rapporto organico del capitale, ovvero l’incremento del capitale costante nei confronti di quello variabile, innesca inevitabilmente la caduta del saggio del profitto. Solo per il singolo capitalista che per primo innova i processi produttivi sulla base dell'impiego del plusvalore relativo, c'è un vantaggio che gli permette di produrre delle merci a costi inferiori, mettendolo nelle condizioni di realizzare un sovra profitto. In questo singolo caso lo sviluppo delle forze produttive, pur andando a modificare la composizione organica del capitale, avvantaggia quel singolo produttore consentendogli di battere la concorrenza e di avere un'arma efficace contro la caduta del saggio del profitto. Ma il vantaggio dura il tempo tecnico impiegato dagli altri produttori del settore ad adeguarsi alle nuove tecnologie, per cui viene immediatamente a cadere il vantaggio del sovra profitto e rimane per tutti la modificazione della composizione organica che riprende a spingere il saggio del profitto verso il basso.

Possiamo quindi concludere che lo sviluppo delle forze produttive, l’accumulazione che ne consegue portano con sé la caduta del saggio del profitto che, a sua volta, accelera il processo di concentrazione, inserendo il sistema produttivo in un circolo vizioso dal quale non può uscire, se non momentaneamente, cercando di aumentare la massa del profitto con l’incremento della produttività. Ma tutto ciò non fa altro che riproporre il problema, aggravato dell’inconciliabilità tra un ulteriore sviluppo delle forze produttive e le specifiche condizioni di produzione entro le quali il capitale si muove.

Ne risulta che la caduta tendenziale del saggio del profitto è conseguenza e motore del ciclo di accumulazione nelle specifiche condizioni date dal rapporto capitale costante-capitale variabile e dal suo evolversi. Quando il sistema nel suo complesso perviene ad un momento del suo sviluppo in cui il rapporto profitti-plusvalore, prezzi delle merci-disponibilità del mercato, non è più coincidente con le esigenze di valorizzazione del capitale, è il momento in cui si determina il conflitto tra produzione e consumo, tra domanda ed offerta che porta alla cosiddetta saturazione del mercato o crisi di sovrapproduzione. E a questo punto che nel mercato si scatenano tutti i fenomeni tipici della crisi quali il crollo dei prezzi delle merci, il parziale utilizzo degli impianti, la delocalizzazione, il disinvestimento, la speculazione e la disoccupazione. Ma alla base di tutto questo c'è la crisi da saggio del profitto che tutto muove ed esaspera.

Così Marx tratteggia, sempre nel III libro del “Capitale” il rapporto tra la caduta del saggio del pro fitto e l’apparire delle crisi nel mercato:

Poiché le medesime circostanze che hanno accresciuto la forza produttiva del lavoro, aumentato la massa dei prodotti, ampliati i mercati, accelerato l’accumulazione di capitale come massa e come valore, e diminuito il saggio del profitto, hanno creato una sovrappopolazione di operai che non possono venire assorbiti dal capitale in eccesso perché il grado di sfruttamento del lavoro che solo consentirebbe il loro impiego non è abbastanza elevato, od almeno perché il saggio del profitto che essi produrrebbero a questo grado di sfruttamento è troppo basso (5).

Pochi passi più avanti, Marx rintuzza un’altra tesi, semplicistica quanto scientificamente errata, in base alla quale la caduta del saggio del profitto non sarebbe provocata, all’interno della dinamica del processo di accumulazione, dalla modificazione del rapporto organico del capitale, bensì dalla concorrenza che i capitali ingaggiano tra di loro in una sorta di guerra al massacro che li porterebbe ad innescare una spirale prezzi-profitti al ribasso, con influssi negativi sul saggio del profitto. Le cose stanno all’esatto opposto:

D’altro lato, la caduta del saggio del profitto, provocata dall’accumulazione, genera necessariamente la concorrenza. Soltanto il capitale complessivo sociale ed i grandi capitalisti già saldamente installati trovano una compensazione alla caduta del saggio del profitto nell’aumento della massa dei profitti. Il nuovo capitale addizionale che funziona per proprio conto non trova tali condizioni di compensazione, deve cominciare a conquistarsele lottando; e così è la caduta del saggio del profitto che genera la concorrenza tra i capitali, e non inversamente la concorrenza che determina la caduta del saggio del profitto…
Poiché il capitale non ha come fine la soddisfazione dei bisogni ma la produzione del profitto, e poiché può realizzare questo fine solo usando dei metodi che regolano la massa dei prodotti secondo la scala della produzione e non inversamente, si deve necessariamente venire a creare un continuo conflitto tra le dimensioni limitate del consumo su basi capitalistiche ed una produzione che tende continuamente a superare questo limite che le è assegnato (6).

Quindi, si parla di sovrapproduzione, prosegue Marx, non perché:

... vengono prodotti troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente... ma vengono periodicamente prodotti troppi mezzi di lavoro e di sussistenza, perché possano essere impiegati come mezzi di sfruttamento degli operai a un determinato saggio del profitto. Vengono prodotte troppe merci, perché il valore ed il plusvalore che esse contengono possano essere realizzati e riconvertiti in nuovo capitale, e nei rapporti di distribuzione e di consumo inerenti alla produzione capitalistica... Non viene prodotta troppa ricchezza. Ma periodicamente viene prodotta troppa ricchezza nelle sue forme capitalistiche, che hanno un carattere antitetico... l’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali... ma... in base al profitto ed al rapporto tra questo profitto ed il capitale impiegato, vale a dire in base al livello del saggio del profitto (7).

In questi termini, e solo in questi, è possibile parlare di sovrapproduzione e di saturazione del mercato, e comunque resta il fatto che non sono questi motivi alla base delle crisi, bensì è la caduta del saggio del profitto che determina l’impossibilità del capitale di valorizzarsi vendendo l’aumentato numero di merci a certi prezzi ed impiegando mano d’opera al medesimo livello di sfruttamento, che esaspera la concorrenza, che crea sovrapproduzione e crisi. Né tanto meno è teorizzabile che la caduta del saggio del profitto diventi operante solo a mercato saturo, quando è proprio dall’andamento della prima che si creano le condizioni di crisi nel secondo.

Se si vuole trovare un punto di contatto o di non contraddizione nella teoria marxista delle crisi, tra la caduta del saggio del profitto e la saturazione dei mercati, occorre innanzitutto ridefinire la seconda e subordinarla alla prima e non viceversa come hanno tentato di fare la Luxemburg e i teorici della saturazione.

Il mercato non è una entità fisica persistente al di fuori del sistema produttivo capitalistico, colmata la quale, tutto il meccanismo produttivo si inceppa. Al contrario è una realtà economica dentro il sistema, che si dilata e si restringe a seconda dell’andamento contraddittorio del processo di accumulazione.

Non esiste una domanda di una quantità di beni che, se superata dalla capacità produttiva dell’offerta, crea sovrapproduzione, ma si ha una offerta di beni ad un prezzo di mercato che sia remunerativo per il capitale investito, ma che condizionerà la domanda, per l’universalissima legge in base alla quale, se il prezzo della merce è alto, minori acquirenti saranno reperibili sul mercato e viceversa. Così come se la domanda, ovvero i salari, diminuiscono per l'effetto della diminuzione del numero dei proletari all'interno dei meccanismi produttivi a causa della modificata composizione organica del capitale. Domanda e offerta, sovrapproduzione e sottoconsumo altro non sono che la manifestazione della contraddittorietà del sistema economico capitalistico, stimolati dalla caduta del saggio del profitto.

Ben altrimenti è considerare i mercati come qualcosa di riempibile, finché c’è spazio c’è vita e tutto viene rimandato.

Il sistema produttivo capitalistico, ad un certo grado di sviluppo del processo di accumulazione, non arriva a produrre troppo sotto forma di beni e servizi, ma produce troppe merci nei termini capitalistici precedentemente espressi, saturando il mercato e dando origine alle crisi. Paradossalmente in questi casi, che coincidono con le perturbazioni del mercato o con l’imminenza di esse, non viene meno il bisogno sociale ovvero la domanda di beni e servizi, manca la capacità d’acquisto da parte dei redditi più bassi a causa dei prezzi troppo alti.

Inutile, oltre che falso, sarebbe il tentare di interpretare i cicli del capitalismo solo nel loro aspetto fenomenico come successione di crisi di sovrapproduzione o di sotto consumo. Il produrre “troppo” o il consumare “troppo poco” non possono riferirsi ad un involucro fisico o ad una mancata propensione al consumo, ma alla dinamica contraddittoria del processo di accumulazione. Ecco perché nel sistema capitalistico le crisi possono determinarsi anche prima dell’esaurimento fisico dei mercati. La caduta del saggio del profitto, momento peculiare del processo di accumulazione, favorisce la saturazione dei mercati prima di averli esauriti.

Per Marx la teoria della crisi non soffre della miope, unilaterale interpretazione della saturazione fisica dei mercati o della mancanza di mercati extra capitalistici, ma trova la base della sua determinazione nei meccanismi del processo di accumulazione, in cui la necessità di valorizzazione del capitale trova condizioni favorevoli nella riproduzione allargata, nell’aumento della massa dei profitti, nell’intensificazione della produttività e nel contenimento del costo della forza lavoro, ma contemporaneamente crea i suoi limiti nella modificazione del rapporto della composizione del capitale e nella conseguente caduta del saggio del profitto.

La caduta del saggio del profitto, il monopolio e la fase di decadenza

Tutta la storia del capitalismo è una perenne rincorsa verso un equilibrio impossibile.

Nel breve periodo la contraddittorietà del sistema può esprimere controtendenze in grado di superare temporaneamente gli ostacoli che si frappongono al processo di valorizzazione del capitale, ma nel lungo periodo le contraddizioni riemergono in tutte la loro potenzialità distruttiva. L’efficacia delle controtendenze è solo parziale e limitata nel tempo. Dialetticamente è soltanto attraverso un violento e profondo deprezzamento del capitale che si aprono le possibilità per una ulteriore fase di valorizzazione.

L’andamento ciclico dei rapporti di produzione capitalistici altro non rappresenta che l’interagire tra tendenze e controtendenze che sono peculiari ad ogni ciclo di accumulazione. Solo le crisi che significano distruzione di valore capitale, ma anche disoccupazione e fame per i lavoratori, sono i momenti attraverso i quali i rapporti di produzione ricreano le condizioni per un ulteriore ciclo di accumulazione che ha come punto di arrivo un’altra crisi, di solito più profonda e più vasta.

Il capitalismo vive di contraddizioni, il suo sviluppo dipende dal maturare di queste contraddizioni, e le forme del suo sviluppo sono caratterizzate dal tentativo di superarle, con l’unico risultato di allontanane nel tempo e di ritrovarsele, di lì a poco, ben presenti e potenziate.

Come abbiamo avuto modo di dire, se è vero che sino a quando l’aumento della produttività del lavoro, e quindi di creazione del plusvalore, si mantiene superiore al tasso di caduta del saggio del profitto, finché il capitale crea valore in proporzione maggiore alla caduta del saggio del profitto, il sistema può assolvere, entro certi limiti, alle esigenze di valorizzazione del capitale, è altrettanto vero che questo processo ad inseguimento matura gli ostacoli alla propria ulteriore espansione.

Infatti, nella fase iniziale della storia del capitalismo, con merci che venivano prodotte a valori sempre più bassi e con un capitale pervenuto ad un livello del rapporto organico già sufficientemente alto e con la necessità di reperire una quota minima di capitale sempre più grande per perpetuare il ciclo produttivo, si sono create tutte quelle condizioni che rendevano impossibile un ulteriore sviluppo delle forze produttive sulla base delle leggi di una economia di libera concorrenza.

Più precisamente è in questa fase storica che il capitalismo entra nel periodo della decadenza In questo caso per decadenza intendiamo la sempre maggiore difficoltà da parte del capitale di auto valorizzarsi). Il regime di libera concorrenza, esasperato dalle conseguenze della caduta del saggio del profitto, crea il suo opposto, il monopolio, che si presenta nella forma della organizzazione della produzione che il capitalismo si è dato per contenere la minaccia di una ulteriore caduta dei profitti.

Il monopolio infatti agisce su tre momenti critici determinanti: reperisce con la concentrazione una massa di valore e di capitale sufficiente, entro certi limiti, a garantire una maggiore creazione di plusvalore, elimina la concorrenza e favorisce la possibilità di imporre sul mercato prezzi il più possibile remunerativi per l’attività imprenditoriale.

  1. L’ulteriore concentrazione di capitale finanziario e di mezzi di produzione tale da aumentare la massa del plusvalore in modo soddisfacente, quando in precedenza, era impossibile a qualsiasi capitale individuale. Solo il monopolio, inteso come unità tra più capitali e tra capitale bancario e capitale industriale, sarebbe riuscito, come di fatto è avvenuto, a dare una momentanea soluzione al problema. Il monopolio non è stato il frutto occasionale o volontaristico di questa o quella borghesia illuminata, ma l’unica soluzione che il capitalismo aveva a disposizione, ad un certo stadio del suo sviluppo, per protrarre il processo di valorizzazione.
  2. Posto nella morsa tra prezzi e profitti e, quindi, nella impossibilità in un mercato liberoscambista di ottenere remunerativi profitti con la vendita di merci il cui prezzo era destinato a diminuire per via della crescente concorrenza, o tuttalpiù a rimanere inalterato, con il monopolio il capitale, favorito da una concorrenza più limitata, è riuscito ad imporre sul mercato un prezzo più alto rispetto al valore. E con il regime monopolistico che inizia la divaricazione a forbice tra valore e prezzo delle merci che caratterizza il capitalismo nella fase di decadenza.
  3. L’alta centralizzazione del capitale, premessa e condizione della organizzazione di mercato monopolistica, ha consentito infine di tamponare l’emorragia dei profitti, esportando capitale finanziario, investendo in aree dove il costo della forza lavoro è nettamente inferiore, svolgendo attività creditizie sia all’interno che all’esterno del proprio mercato, dando vita, cioè, alla fase parassitaria del capitalismo.

Ma se tutto ciò può risolvere temporaneamente i problemi del capitalismo della libera concorrenza, non ha potuto evitare che quelle stesse contraddizioni si riproponessero, questa volta ingigantite, nel regime di oligo- monopolio. Infatti l’ulteriore concentrazione è stata possibile solo a condizione di modificare il già alto rapporto organico del capitale, favorendo di conseguenza, l’accentuarsi della caduta del saggio del profitto. Riproponendo perciò, e non eliminando, il circolo vizioso con l’unica differenza di spingerlo verso livelli sempre più alti.

L’esportazione di capitale finanziario, tipica espressione del capitalismo nella fase monopolistica, se da un lato ha il potere di rinsanguare il sistema con facili profitti, dall’altro si presenta come pericoloso veicolo di propagazione delle contraddizioni che vengono esportate al rimorchio del capitale stesso.

La possibilità di collocare merci sul mercato ad un prezzo sempre più lontano dal loro valore, in quanto il monopolio condiziona concorrenza e domanda, innesca a sua volta una contrapposizione ben più ampia e violenta tra i colossi monopolistici. Non solo, ma lo stesso vantaggio di imporre un prezzo di mercato il più remunerativo possibile per il capitale investito, finisce a tempi lunghi per restringere la domanda e saturare il mercato, riproponendo su scala allargata le solite contraddizioni tra produzione e distribuzione, tra domanda ed offerta.

Il monopolio, se è stato la risposta che storicamente il capitalismo ha dato alla contraddizione: accumulazione-caduta del saggio del profitto, non è stato certamente la sua soluzione. Anzi, in questa fase di decadenza, le crisi economiche, ben lontane dall’essere superate, si ripresentano più gravi e profonde di quanto lo fossero nella fase di ascesa del capitalismo. Con il monopolio, il sistema produttivo si è inserito soltanto in una spirale più ampia, dove tutto, dal processo di accumulazione alle perturbazioni di mercato, viene ingigantito a dismisura.

La grande crisi economica attuale (anni settanta e ottanta), che partendo dagli Stati Uniti si è propagata su tutto il mercato capitalistico occidentale, e che ancora oggi, nonostante una serie di brevi, quanto effimere riprese, non si è conclusa, è la riprova che la struttura monopolistica, sia nella versione privata che statale, non può reggere a lungo alla erosione della caduta del saggio del profitto.

Dopo quasi trent’anni di espansione economica ininterrotta, il capitalismo americano, guida e punta avanzata di quello internazionale, aveva raggiunto livelli di concentrazione produttiva e di centralizzazione di capitale finanziario storicamente mai visti. I dati statistici riferiscono che quasi l’80% del mercato è nelle mani del 5% delle imprese, in pratica 280 grandi imprese dominano economicamente l’economia mondiale, e di queste il 70% è made in USA. La stessa cosa valeva per il capitale finanziario, con la differenza che il dollaro e le banche americane avevano sul mercato finanziario un peso ancora superiore. Nonostante ciò, il declino economico americano iniziò ad esprimersi proprio a partire da quei livelli di concentrazione e di centralizzazione. In primo luogo si è manifestata una perdita di competitività nei settori portanti della struttura industriale, di conseguenza si è andata progressivamente ampliando la voragine del deficit della bilancia commerciale, poi lo sganciamento del dollaro dall’oro con tutti i relativi sconvolgimenti monetari dell’assetto di Bretton Woods (8).

Questa crisi che ha divelto i cardini dell’impostazione economica keynesiana, che ha squassato il mercato con tassi di inflazione inimmaginabili sino a qualche tempo prima, che ha significato per tutto il mondo occidentale, una drastica diminuzione degli investimenti e degli scambi commerciali e che, soprattutto, ha generato un esercito di disoccupati che il capitalismo mondiale non registrava dalla crisi del ‘29, si è prodotta proprio dal capitalismo monopolistico americano.

I tempi e i modi di manifestarsi della crisi della struttura monopolistica ribadiscono, pur nella specificità delle forme e dei meccanismi di amministrazione della stessa, il nesso tra la caduta del saggio del profitto, i ritmi di accumulazione, la perdita di efficacia di alcune controtendenze e lo sforzo di renderne operative altre. In più, all’interno di questa crisi è possibile verificare come i mercati commerciali e finanziari, a seconda dell’andamento della congiuntura economica si siano allargati o ristretti, si siano dimostrati saturi o ricettivi, a conferma che è il divenire contraddittorio del processo di accumulazione ad influenzare il mercato e non viceversa.

Una teoria economica è valida a condizione che le sue aspettative vadano a coincidere con lo svolgersi degli accadimenti, in caso contrario sarà la stessa realtà storica ad incaricarsi di bocciarla.

Per ritornare e concludere la polemica, se la teoria delle crisi per mancanza di mercati extra capitalistici fosse valida, dovremmo ritenere che questa crisi, nata agli inizi degli anni ‘70 negli USA, rimbalzata in Europa e in Giappone e successivamente, attraverso gli infiniti ma obbligati canali del mercato, in tutto il mondo, sia la conseguenza di uno spazio che si è definitivamente chiuso o che sia in procinto di esserlo.

In questo caso lo sviluppo del capitale totale avrebbe esaurito tutti gli spazi a sua disposizione eliminando così, oltre ai mercati, la possibilità di accumulare, con tutto ciò che ne conseguirebbe sul piano economico, finanziario e della lotta di classe.

Solo a questo punto si inasprirebbe la concorrenza tra le centrali imperialistiche per la disputa dei mercati interni ed internazionali, ed incontenibile diverrebbe la caduta del saggio del profitto. Se questa ipotesi fosse vera, come mai la crisi che il mondo capitalistico sta vivendo è partita proprio dal quel paese (USA) che, essendo da un punto di vista imperialistico più forte e avendo a disposizioni più ampie possibilità di mercati avrebbe dovuto avere una maggiore possibilità di resistenza, e non da paesi meno agguerriti e competitivi, che al contrario avrebbero dovuto vedersi chiudere gli spazi molto prima? Una crisi per mancanza di mercati extra capitalistici avrebbe dovuto manifestarsi prima nei settori più deboli, cioè alla periferia del sistema e solo più tardi nel suo centro vitale e non al contrario come è avvenuto.

Sovrapproduzione, in questo caso, significa l’impossibilità per il capitale totale di collocare le proprie merci sul mercato perché contemporaneamente esaurito come area pre capitalista e saturo sul piano della ricettività delle merci. Come mai allora, gli USA, industrialmente più forti e quindi in teoria più competitivi, si sono visti chiudere fin dal ‘71 quei mercati che invece risultavano ancora aperti a strutture economiche apparentemente più deboli (Germania e Giappone)? Perché, dopo un andamento altalenante, oggi la bilancia commerciale americana registra un disavanzo di 170 miliardi di dollari, mentre economie come quella tedesca e giapponese, riescono, nonostante tutto, ad avere saldi positivi e a trovare ancora mercati disponibili, primo fra tutti proprio quello americano?

Perché, dunque, si parla soltanto in termini di sovrapproduzione e di chiusura dei mercati a proposito della crisi economica che ha come epicentro l’America, quando è lo stesso mercato americano che si mostra altamente ricettivo alle merci prodotte all’estero?

Come parlare di saturazione dei mercati, quando ancora oggi interi continenti, come quelli asiatico e sud americano, hanno estremo bisogno di beni di consumo, beni strumentali e di tecnologia? Non è possibile, dunque, porre il problema solo da questo punto di vista.

Ancora una volta diciamo che non si è prodotto troppo, non si sono esauriti, perché colmati, tutti i “recipienti mercato”, ma si è prodotto troppo in termini capitalistici con tutto ciò che ne consegue. Il ristagno degli investimenti, la diminuzione della produzione, l’affannoso attacco al costo del lavoro, la speculazione e fenomeni consimili, sono chiaramente il segno del limite a cui è arrivato il sistema produttivo capitalistico internazionale, stretto nella morsa accumulazione-saggio del profitto, e che ha avuto e ha tuttora negli Stati Uniti la punta più avanzata.

La caduta del saggio del profitto ha minori possibilità di essere arginata là dove maggiore è il rapporto organico del capitale, non è un caso, quindi, che la crisi abbia preso le mosse dal cuore del capitale finanziario mondiale, gli USA, e da lì si sia propagata, con andamento alterno frapponendo al lungo periodo di depressione momenti di ripresa, trascinando nel vortice della crisi l’intera area del capitalismo occidentale.

La caduta del saggio del profitto, la crisi americana e alcune verifiche

Relativamente alla questione in esame, il ciclo di accumulazione che si è aperto con la fine della seconda guerra mondiale, ha avuto ritmi e modalità di sviluppo differenti in Europa, Giappone e Stati Uniti, a seconda del punto di partenza delle rispettive strutture economiche e dei livelli di distruzione di valore capitale generato dalla guerra stessa.

Mentre l’Europa ed il Giappone sono stati letteralmente annientati dal secondo conflitto mondiale, al punto di dover ricreare quasi ex novo i loro apparati produttivi, gli USA si sono inseriti nel nuovo ciclo di accumulazione partendo da una base produttiva caratterizzata da una elevata composizione organica del capitale, con tutte le strutture economico-produttive e finanziarie altamente centralizzate e avendo a disposizione una enorme superiorità tecnologica, in virtù anche del fatto che, mentre la guerra aveva prodotto guasti pesantissimi dall’altra parte dell’oceano, aveva favorito crescita e sviluppo qualitativo sulla sponda americana. Detto in altri termini, la distruzione di valore capitale avvenuta in Giappone e in Europa nel corso della seconda guerra mondiale, aveva consentito al capitale di inserirsi in questa “distruzione” partendo da una posizione di privilegio economico e finanziario. Ovvero di colmare, per oltre un paio di decenni, i danni della distruzione bellica con la “sua” ricostruzione “pacifica”.

Da Bretton Woods in avanti, la ricostruzione economica del capitalismo mondiale ha subito la dittatura della tecnologia e del capitale finanziario americani. Il piano Marshall ed una superiorità sul mercato commerciale che sfiorava il 70%, sono gli esempi, non solo dello strapotere americano, ma anche di come la ripresa del ciclo economico abbia avuto nella economia americana, per quasi un trentennio, il suo centro propulsore, sotto forma di prestiti finanziari, esportazione di manufatti industriali, dalle automobili alle lavatrici, dai mietitrebbia alla cinematografia Hollywoodiana. La distruzione di valore capitale in Europa è stata l'occasione per l'imperialismo vincente di trovare gli spazi per essere a capo di un nuovo ciclo di accumulazione.

Ma all’interno di questo gigantesco processo di accumulazione, che ha fatto gridare alle vestali dell’economia borghese, che i rapporti di produzione capitalistici sono ormai in grado di progredire indefinitamente senza cadere nelle periodiche crisi di mercato eliminando così dal ciclo produttivo le recessioni e le depressioni, si sono progressivamente prodotti tutti quei fattori tipici, nel lungo periodo, dell’impossibilità del sistema economico di eliminare con la politica delle controtendenze, la contraddittorietà del processo di valorizzazione.

Non casualmente questi fenomeni di crisi si sono prodotti più largamente e intensamente negli USA, punta avanzata dello schieramento capitalistico occidentale. In maniera altrettanto non casuale, così come gli Stati Uniti sono stati il motore primo nella fase di espansione economica post bellica, lo sono stati nel palesarsi della crisi e nel trascinare dietro di sé il resto dell’economia mondiale.

Il primo grande guaio che si è abbattuto sull’economia americana è stato che la sua gigantesca espansione economica, l’enorme sviluppo delle forze produttive hanno innescato, più che in altri paesi, un alto rapporto organico del capitale e, quindi, l'esprimersi della legge della caduta del saggio del profitto, senza che le tradizionali misure di controtendenza crescessero in proporzione.

Durante il periodo dell’espansione economica l’alto indice dell’aumento del rapporto organico del capitale non ha potuto essere controbilanciato da un adeguato indice di aumento della produttività del lavoro (plusvalore assoluto e intensificazione dei ritmi di produzione) e di contenimento del costo della forza lavoro. Il che non significa che quelle controtendenze non si siano prodotte, ma solo che sono state prodotte a livelli non sufficienti a tamponare la progressiva caduta del saggio del profitto.

Per delimitare il discorso, possiamo individuare in tre punti le maggiori conseguenze della caduta del saggio del profitto, conseguenze che si manifestano sempre ed in generale, ma che diventano determinanti e specifiche per il sistema economico pervenuto nella fase critica del suo processo di accumulazione, come è avvenuto negli Stati Uniti tra la fine degli anni ‘60 e gli inizi degli anni ‘70.

Partiamo dalla ovvia constatazione che la caduta del saggio del profitto, quando da tendenziale diventa reale, diminuisce il tasso di valorizzazione del capitale. Nel momento in cui le politiche economiche di controtendenza vengono meno o diventano insufficienti, l’aumentata composizione organica del capitale, derivante dallo sviluppo delle forze produttive, si erge come ostacolo insormontabile non solo all’ulteriore profittabilità del capitale, ma anche al mantenimento del vecchio tasso di valorizzazione. Per di più, nella dinamica della economia di scala la perpetuazione del ciclo economico, di riproduzione in riproduzione, necessita di volta in volta, di una quota minima di capitale sempre maggiore per rimettere in moto l’intero apparato produttivo. Per cui, mentre da un lato il capitale vede restringersi le sue possibilità di valorizzazione, a causa di saggi del profitto sempre decrescenti, dall’altro vede progressivamente aumentare la parte di sé stesso necessaria a riprodurre le condizioni per un nuovo ciclo produttivo.

La caduta del saggio del profitto non danneggia solo nell’immediato il processo di valorizzazione del capitale; ma condiziona gli stessi schemi della riproduzione allargata, colpendo a tenaglia le vitali necessità del capitale complessivo. Più velocemente diminuisce il saggio del profitto e proporzionalmente più grande diventa la quota minima di capitale da reinvestire.

Prescindendo dall’aumento quantitativo imposto alla riproduzione allargata, (esempio statico che facilita la comprensione del fenomeno) mantenendosi inalterata la quota minima di capitale da reinvestire, se il saggio del profitto passa dal 30 al 25 e poi dal 25 al 20% questa, proporzionalmente diventa sempre più gravosa e rispetto alla massa dei profitti e nei confronti del saggio del profitto.

I dati statistici emessi dallo stesso governo americano denunciano una caduta dei profitti, dal ‘48 ad oggi (1988), pari al 35%. In un periodo di soli quarant’anni, nonostante un lunghissimo periodo di espansione economica coinciso con la ricostruzione post bellica, alternato da recessioni e riprese, la valorizzazione del capitale si è ridotta ai minimi storici. Mai il capitalismo mondiale, tanto meno quello americano, aveva dovuto subire un simile rallentamento nei ritmi del processo di valorizzazione, in un lasso di tempo sì lungo, ma prevalentemente caratterizzato da fasi espansive.

Ma è proprio nelle fasi di espansione economica, segnate da uno straordinario sviluppo delle forze produttive sulla base di un uso abnorme del plusvalore relativo,che si è creata l'inevitabile modificazione del rapporto organico del capitale da cui ha preso il via la caduta del saggio del profitto.

D’altra parte, più è alto il rapporto organico del capitale più il processo di accumulazione è veloce , più difficile è anche per il capitale mettere in atto con efficacia le controtendenze.

Se si vanno a disaggregare le statistiche americane più nel dettaglio si vede come i salari siano stati i meno contenuti di tutta l’area capitalistica occidentale. Ancora oggi il costo del lavoro negli USA è di sei volte superiore a quello asiatico e di due volte superiore a quello europeo e giapponese.

Mentre il saggio del plusvalore è mediamente aumentato del 20%, la composizione organica del capitale ha raggiunto l’aumento del 40% e la produttività ha seguito un percorso inverso, rimanendo inalterata per lunghi periodi, addirittura diminuendo in altri. Tutti questi dati sono omogenei e coerenti tra di loro e danno una prima interpretazione alla caduta del saggio del profitto del 35% dell’economia americana.

Altri dati statistici sempre provenienti dalla medesima fonte governativa supportano l’altro aspetto del problema, la sempre crescente difficoltà a reperire una quota minima di capitale necessaria alla riproduzione allargata in fase di caduta del saggio del profitto operante.

Mai come nel secondo dopoguerra, e in modo particolare nell’ultimo ventennio, si è assistito alla strettissima interdipendenza tra capitale bancario e capitale industriale. Il fenomeno ovviamente non è tipico solo dell’esperienza americana, ma negli Stati Uniti ha certamente raggiunto il punto più alto già negli anni ‘60.

Il mondo imprenditoriale americano, un tempo incontrastato dominatore del mercato commerciale internazionale, aveva nel reinvestimento degli utili la primaria fonte di finanziamento dei propri investimenti prodduttivi, in via subordinata ricorreva alla emissione di azioni ed obbligazioni, in “extrema ratio” al prestito bancario. Ma quella era una fase in cui i profitti erano facili e alto il loro saggio.

Progressivamente i rapporti sono andati modificandosi sino a ridurre drasticamente gli spazi dell’investimento degli utili per dare luogo all’autofinanziamento e al credito bancario, legando così in maniera indissolubile il mondo dell’imprenditorialità ai giochi borsistici e al tasso di interesse praticato dagli istituti di credito.

L’enorme potenziamento delle banche esistenti e l’alto numero di nuove società finanziarie, l’importantissimo, ed ormai insostituibile ruolo svolto dal credito nelle moderne società capitalistiche, di cui gli USA ancora una volta rappresentano la punta avanzata, sono i chiari sintomi della necessità sempre più pressante del settore imprenditoriale di attingere a masse di capitali enormi, nel momento in cui, ad investimenti crescenti corrispondevano saggi di profitti decrescenti. Ecco perché la fase del dominio del capitale finanziario, della grande centralizzazione è sinonimo di decadenza e di crisi latenti.

L’economia americana ha storicamente vissuto per prima e più intensamente l’ingigantirsi del ruolo del capitale bancario, proprio perché per prima ed in termini drammatici ha vissuto l’impatto progressivo con le conseguenze della caduta del saggio del profitto. Il che è servito a consolidare un legame che già esisteva ma lo ha esasperato sino al punto che, fatta salva qualche eccezione anche se di rilievo, dagli anni ‘70 sino ad oggi, le maggiori corporation che da sempre dominano il mercato commerciale, sono cadute nelle mani delle grandi banche nazionali o sotto il controllo dei finanziamenti federali. Per citare alcuni esempi illustri, è stato il caso della Honeywell, della General Motors, della UNI-Royal, Lockeed, Mc. Donnell Douglas, ecc..

Interessante è verificare il progressivo divaricarsi degli indici di incremento dei profitti industriali e bancari. Al 1971 la caduta del saggio del profitto faceva registrare un indice pari al 30% mentre i profitti bancari erano aumentati del 40% di cui la metà ottenuti su mercati esteri. Oggi la divaricazione si è ulteriormente approfondita. La media e piccola imprenditoria è letteralmente strozzata dai debiti, delle grandi corporations agenti nei settori tradizionali della produzione, la stragrande maggioranza di essa è alla deriva presa nella morsa della non competitività da una parte e dalle pressanti richieste di saldare i debiti da parte degli istituti di credito dall’altra. Si salvano quelle corporations che sono legate all’informatica e ai finanziamenti per commesse militari. In entrambi i casi chi domina è il credito, nella versione privata o in quella statale.

In questo periodo l’altra importante conseguenza della caduta del saggio del profitto, sta nella necessità da parte del capitale di accelerare i ritmi di accumulazione. Può sembrare un paradosso, ma in realtà è soltanto una delle contraddizioni del capitalismo, che un capitale a basso saggio del profitto debba investire sempre di più e sempre più velocemente.

Il paradosso sta nel fatto che un capitale a basso tasso di profitto, o peggio ancora, ad un saggio del profitto decrescente, più investe e proporzionalmente meno si valorizza. Una cosa è un profitto 100 con investimento 1000, altra cosa è un profitto 200 con un investimento 5000. La contraddizione, che spiega e supera il paradosso, consiste nel fatto che nel lungo periodo il capitale tende a superare la caduta del saggio del profitto con l’aumento della massa dei profitti. E per ottenere questo risultato il capitale è costretto ad aumentare la propria produzione di merci aumento lo sviluppo delle forze produttive che, a loro volta, sono la causa della modificazione della composizione organica del capitale.

Ma ancora una volta il limite si ripresenta nella aumentata massa di merci prodotte, la quale posta sul mercato al fine della realizzazione del plusvalore contenuto, ha come effetto finale quello di anticipare i tempi di saturazione del mercato. Se poi l’aumento della velocità del processo di accumulazione e la conseguente accresciuta massa di merci, intesi come antidoto alla caduta del saggio del profitto, si manifestano in organizzazioni di mercato rigidamente monopolistiche, l’effetto crisi viene ulteriormente anticipato ed amplificato.

E' vero peraltro che l’aumento della produttività del lavoro diminuisce il valore delle merci e conseguentemente anche il loro prezzo, ma è altrettanto vero che in regime di monopolio la diminuzione del valore delle merci è meno veloce dell’aumento della massa delle merci, senza considerare che, in alcuni casi, la cieca volontà di massimizzare la valorizzazione del capitale investito, porta l’imprenditore monopolistico ad incrementare i prezzi.

Per cui, in regime monopolistico, l’aumento della massa dei profitti finisce per trasformarsi in un rilevante aumento della massa delle merci che, poste sul mercato a prezzi relativamente alti, non risolvono gli aspetti negativi della caduta del saggio del profitto, ma favoriscono, al contrario nel lungo periodo, la crisi di mercato per “saturazione”.

Ancora una volta, ripetendoci con Marx, si è prodotto troppo nelle forme capitalistiche, si è prodotta una massa di merci troppo alta, a prezzi che per essere remunerativi per il capitale investito non rendono la domanda solvibile. Quindi se è il processo di accumulazione che porta il sistema economico alla crisi, la caduta del saggio del profitto ne rappresenta la causa prima e un fattore di accelerazione e di esasperazione.

In questo senso dire che negli Stati Uniti, agli inizi degli anni ‘70 è esplosa una crisi di sovrapproduzione e basta, è come dire che il malato ha cessato di vivere perché è morto. O si legano i meccanismi del processo di accumulazione alle modificazioni del rapporto organico del capitale e alla contrapposizione caduta del saggio del profitto, efficacia o meno delle politiche di controtendenza, e allora si potrà avere un quadro dinamico della crisi, oppure si cade in una visione meccanicistico-riduttiva dei fenomeni economici, correndo il rischio di rimanere perplessi sulle non coincidenze temporali e sulle capacità di resistenza della crisi stessa.

Si può anche parlare di crisi di sovrapproduzione rispetto all’esperienza americana ma alla sola condizione di ripercorrere analiticamente tutte le interazioni che si sono determinate all’interno di un processo di valorizzazione-accumulazione durato quarant’anni.

Ritornando ai dati statistici, negli Stati Uniti, già alla fine degli anni “60”, l’aumento generalizzato dei prezzi si esprimeva a livelli attorno al 8%, quando ancora la restante parte del capitalismo occidentale era assestata su tassi inflazionistici del 4%.

Anche sotto questo aspetto l’economia americana andava anticipando i sintomi e i motivi di quella che sarebbe stata, di lì a poco, la più grande crisi del suo apparato produttivo e di quello internazionale, dopo la chiusura della seconda guerra mondiale.

La sua più che collaudata struttura monopolistica è servita da acceleratore del fenomeno dell’inflazione nel tentativo di guadagnare nella sfera della distribuzione delle merci quanto andava perdendo nell’ambito della produzione.

Ben prima dello shock petrolifero, partito nel dicembre del ‘73, l’aumento dei prezzi aveva colpito anche il mercato delle materie prime di produzione americana, a testimonianza di un disagio economico interno, tra i cui sintomi, quella inflazione andava letta come quello più allarmante.

Se si considerano soltanto i quattro anni che precedono lo shock petrolifero, si ha la misura di come l’inflazione dei prezzi delle materie prime di produzione americana (come da tabella) fosse la risposta commerciale alla crisi economica dei prodotti industriali.

Prodotti 1970 1971 1972 1973
Alimentari vari 360 330 440 515
Semi ed oli vegetali 245 220 240 365
Metalli non ferrosi 360 340 355 490
Ferro e acciaio 300 290 355 430

Ne consegue che la doppia controtendenza: l’aumento della massa dei profitti che ha come base l’estensione della produzione delle merci e la determinazione di prezzi progressivamente e proporzionalmente più alti di cui la struttura monopolistica, sia in sede privata che statale, rappresenta lo strumento più idoneo a sopperire alla caduta del saggio, ma non possono che rappresentare una “soluzione” temporanea allo svilupparsi delle contraddizioni insite nel processo di accumulazione. Nel lungo periodo il monopolio, suo malgrado, è costretto a riproporre, ingigantiti, quegli effetti negativi che avrebbe dovuto combattere e per i quali è storicamente nato.

Da controtendenza il monopolio si trasforma nel suo contrario, da misura anti caduta del saggio del profitto diviene momento di accelerazione dei processi di crisi, così come un trattamento terapeutico intensivo non risolve la patologia di un malato, anzi ne aggrava le condizioni generali, scatenando oltre tutto una serie di effetti collaterali.

Inflazione, sovrapproduzione, diminuzione degli investimenti, rallentamento nella crescita del PNL e disoccupazione, sono stati gli effetti più immediati della crisi del sistema monopolistico americano prima interno e poi internazionale.

Ciò che ha sconvolto la “scienza borghese” è stato il frantumarsi della presunzione che il capitalismo monopolistico privato e il sempre più massiccio intervento dello stato nell’economia, secondo gli imperativi della scuola keynesiana, reggessero alle perturbazioni del ciclo economico e che fossero la panacea definitiva a qualsiasi tipo di crisi.

Infine, il terzo effetto della caduta del saggio del profitto si manifesta nella formazione di capitale eccedente, di capitale cioè che, non trovando le condizioni favorevoli per un investimento remunerativo, si stacca dalla produzione per cercare altre vie al suo processo di valorizzazione.

Più la caduta del saggio del profitto è elevata e più i capitali si indirizzano verso la speculazione o prendono la strada dell’investimento all’estero.

È nella logica del capitale perseguire la sua auto valorizzazione in qualsiasi modo, sia comportandosi parassitariamente investendo speculativamente al di fuori del ciclo produttivo, sia inserendosi produttivamente solo là dove il prezzo delle materie prime è più contenuto, il costo del lavoro più basso o dove più facilmente si possono aggirare le leggi sindacali e tributarie. Inoltre, sotto la pressione di un saggio del profitto decrescente, questi aspetti si moltiplicano e si accelerano sino ad arrivare a proporre guerre localizzate nelle aree strategiche ricche di materie prime funzionali ai meccanismi produttivi in crisi di profitti..

Già prima degli anni ‘70, l’imperialismo americano realizzava il 50% dei propri profitti da rendite di capitali e da investimenti all’estero. Negli anni successivi, e con particolare impulso sotto l’amministrazione Reagan, quando l’asfittico apparato industriale americano è stato commercialmente travolto dalla maggiore competitività produttiva tedesca e giapponese, si è intensificata l’esportazione di capitali che ha portato al 65% la quota di profitti realizzata all’estero.

Per l’imprenditore americano e per l’apparato bancario tradizionalmente legato alle attività imprenditoriali, la caduta del saggio del profitto che aveva ridotto nell’arco di poco meno di trent’anni del 35% la profittabilità degli investimenti, con un apparato produttivo tecnologicamente in parte superato e, comunque non in grado di competere con le economie giapponesi e tedesche, con un costo del lavoro elevato e reso ancora più alto dalla relativamente bassa produttività, una prima immediata soluzione fu quella di trasferirsi nell’area asiatica o nel sub-continente americano.

Taiwan, Corea del Sud, Honk Kong e Singapore da una parte, Brasile, Messico ed Argentina dall’altra, sono state le due aree geografiche dove più massiccia si è abbattuta la pioggia dei crediti e di investimenti americani. A questa rincorsa all’extra profitto hanno partecipato non solo le grandi corporations, ma anche le più potenti banche americane. Il motivo era quello di sfruttare in loco materie prime e forza lavoro a basso costo, il fine quello di guadagnare “fuori” quei margini di remunerazione per il capitale che non si sarebbero ottenuti “dentro”.

Come per i profitti, i prestiti e gli investimenti all’estero e la delocalizzazione, sono stati inversamente proporzionali all’indice di diminuzione del saggio del profitto all’interno della struttura economica americana.

Mentre interi settori, soprattutto nel campo siderurgico, metallurgico e metalmeccanico erano costretti a chiudere o a continuare la produzione con uno sfruttamento degli impianti ridotto del 30-40%, gli Istituti di credito vantavano all’estero un saccheggio di profitti mai registrato prima.

Tutta la recentissima storia della società americana di questi ultimi 15 anni è caratterizzata da una progressiva minore propensione all’investimento produttivo, che i teorici borghesi della sociologia economica si sono affrettati a battezzare “deindustrializzazione” e da un altrettanto progressivo fenomeno, quello del decentramento produttivo effettuato nelle aree periferiche.

L’altra via, quella della speculazione, ha assunto dimensioni gigantesche quanto contraddittorie. Pur tralasciando la vasta operazione sul dollaro, che ha avuto per lunghi periodi motivazioni macro-finanziarie nello scontro tra gli USA e il resto del mondo occidentale, il capitale speculativo si è concentrato sulle operazioni di borsa e sulla compravendita dei pacchetti azionari di maggioranza di imprese in crisi. Anche in questo caso, l’arma della speculazione, sia nella versione borsistica che in quella del take over, finché ha avuto la possibilità di esprimersi senza incappare in crolli di borsa o nella reazione del mondo imprenditoriale, mentre ha garantito facili, quanto effimeri, guadagni a quella parte di capitale che si è distaccato dai rischi dell’investimento produttivo, ha pesato negativamente sull’economia del capitale complessivo rendendolo più piccolo e più debole.

Tenendo come punto di riferimento i meccanismi portanti del processo di accumulazione, si rileva come una costante e progressiva modificazione del rapporto organico del capitale determini nel lungo periodo la caduta del saggio del profitto, la quale, a sua volta, induce il capitale complessivo ad accumulare più velocemente scaricando sul mercato una massa di valore sotto forma di merci e servizi superiore alla capacità di assorbimento della domanda. La crisi, così prodotta, rallenta o interrompe la valorizzazione del capitale inducendo parti di esso al disinvestimento e alla speculazione, alla fuga verso mercati più remunerativi. Esaspera altresì le misure protezionistiche all’interno dei settori nazionali del capitale mondiale, imprime una accelerazione alle guerre commerciali e scarica pesantemente sul tenore di vita della classe lavoratrice il peso delle proprie conseguenze. In breve la crisi da profitti stimola l’affannosa rincorsa alla riattivazione delle controtendenze alla caduta del saggio del profitto, con risultati alterni nel breve periodo, con risultati disastrosi sul lungo periodo.

La crisi che ha investito il capitalismo americano e di conseguenza quello mondiale, a partire dagli inizi degli anni ‘70 ha seguito questo percorso. Dopo le misure nixoniane del 15 agosto del 1971 ― concernenti l’imposizione di una tassa del 10% su tutte le merci di importazione, la svalutazione del dollaro che ha portato la divisa americana dalla vecchia parità aurea di 35 dollari oncia oro a 38 dollari e la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro che ha letteralmente sconvolto gli accordi monetari nati a Bretton Woods ― la voragine della crisi ha inghiottito il 25% degli investimenti produttivi con una punta del 40% nell’industria pesante e ha determinato il contenimento della domanda interna e il calo del 30% degli scambi internazionali.

Interi settori produttivi, logorati da due decenni di profitti decrescenti, si sono trovati nella impossibilità di coniugare prezzi, profitti e salari con gli auspicati tassi di valorizzazione del capitale, ed il mercato internazionale era diventato improvvisamente troppo piccolo. La siderurgia, la metallurgia, la metalmeccanica con particolare riferimento al settore automobilistico, poi la chimica e la stessa agricoltura, per anni fiore all’occhiello dell’economia americana, hanno toccato il limite più basso dal secondo dopoguerra in avanti.

L’economia americana si è presentata all’appuntamento con la deflagrazione delle proprie contraddizioni con un saggio del profitto del 35% inferiore rispetto a quello dell’immediato dopoguerra, con una inflazione vicina al 8%, con una produttività ristagnante e con un utilizzo degli impianti diminuito mediamente del 30%.

Sempre di quel periodo è la sensibile perdita di competitività sul mercato commerciale internazionale ed il conseguente ingigantirsi del deficit delle partite correnti (9).

Della crisi del centro del capitalismo mondiale hanno sofferto i settori esterni, già peraltro afflitti, pur in tono minore e con un diverso grado di resistenza all’ondata recessiva, dalla crisi per caduta del saggio del profitto. Con l’aggravarsi di essa, tutto il settore del capitalismo occidentale è stato risucchiato nella crisi, ha sopportato il peso di una inflazione devastante, ha compresso le condizioni di vita di milioni di lavoratori, come e più della grande crisi del ‘29.

La risposta del capitale non si è fatta attendere più di tanto. Di qua e di là dell’oceano si sono violentemente imposte le imperative necessità di amministrazione della crisi, andando a scegliere tra le misure di controtendenza, quelle che meglio e più rapidamente avrebbero potuto diluire nel tempo e scaricare sui paesi imperialisticamente più deboli l’onere maggiore delle conseguenze della crisi.

La cosa si è resa possibile operando su tre ordini di fattori che hanno agito profondamente sia sul terreno della struttura economica che su quello delle infrastrutture sociali.

In questo periodo, infatti, il capitalismo occidentale ha potuto usufruire di una struttura creditizia che gli ha permesso di ammortizzare nel tempo gli effetti violenti della crisi dei settori industriali rallentandone la verticalità della caduta.

Poi ha potuto giovarsi di una relativamente contenuta risposta della classe operaia, il che gli ha permesso, pur nell’affanno e nella pericolosità dello scontro reciproco, di manovrare distribuendo risorse alle imprese più importanti e imponendo sacrifici pesantemente pagati dalla forza lavoro a colpi di maggiore sfruttamento, cassa integrazione, licenziamenti e diminuito potere d’acquisto dei salari (un dato statistico per tutti è rappresentato dai 29 milioni di disoccupati nei paesi OCSE e dal potere d’acquisto dei salari americani che è fermo al 83 e non molto lontano da quello di dieci anni prima “73, mentre in Europa i salari reali, sfrondati dall’indicizzazione inflazionistica, sono fermi dalla fine degli anni sessanta).

Infine la borghesia internazionale ha usato con accortezza tutti gli ammortizzatori sociali, finché ha potuto, dalla cassa integrazione alla scala mobile, a quelli politici quali l’utilizzo dei partiti di sinistra e dei sindacati con il dichiarato obiettivo di tenere la “piazza” sotto controllo.

E sempre in questo periodo i vari settori del capitalismo, oltre che combattere in chiave preventiva i rispettivi proletariati, si sono reciprocamente confrontati sul terreno delle controtendenze, innescando una sorta di competizione tecnologica e finanziaria, i cui esiti non si sono ancora completamente esauriti.

Dati le cause e ritmi della crisi, a muoversi con anticipo nei confronti dei vari settori dello schieramento capitalistico occidentale, è stata ancora una volta la complessa struttura economica americana. La prima mossa è consistita nelle già citate misure nixoniane del 15 agosto del 1971.

Allora l’amministrazione Nixon doveva fare i conti con un apparato industriale in parte tecnologicamente superato, con un saggio del profitto decrescente che rendeva sempre meno remunerativo l’ulteriore impiego di capitale nell’ambito della produzione, con una consistente diminuzione della competitività sia sul mercato interno che su quello internazionale. Il tutto si traduceva in un progressivo deficit della bilancia commerciale, che sebbene allora ammontasse a poche decine di milioni di dollari, era comunque il sintomo, accanto alla disoccupazione e all’inflazione, di un cambiamento di tendenza e di un malessere economico strutturale e di lunga durata.

La risposta immediata fu miope quanto contingente, legata cioè alle sole perturbazioni che sconvolgevano il mercato interno americano. Quasi per una reazione istintiva l’amministrazione Nixon credette di individuare i guai dell’economia americana solo ed esclusivamente nel confronto commerciale con i partner occidentali, ignorando ed eludendo le ragioni strutturali che avevano prodotto la crisi, ovvero si operò sugli effetti del mercato senza incidere sulle cause. In ciò sta il senso delle misure del 1971:

  1. L’imposizione di una tassa del 10% sulle importazioni è palesemente una misura protezionistica la cui attuazione ha il solo scopo di salvaguardare il mercato interno dalla maggiore competitività delle merci estere, senza però intervenire sui bassi livelli di produttività dell’industria americana, che erano alla base dell’inferiore competitività.
  2. La svalutazione del dollaro esprimeva anch’essa una preoccupazione prevalentemente di natura mercantile, contingente e non risolutiva come la prima. Gli effetti dovevano essere quelli. Essendo il dollaro più debole, il problema era di sostenere la domanda interna, di sfavorire le importazioni e di rendere contemporaneamente più competitive le merci americane, i cui prezzi espressi in dollari svalutati, avrebbero potuto usufruire di un differenziale minore rispetto alle merci prodotte dal capitale concorrente.
  3. Infine la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro; gravissima misura che dava il segno della debolezza del dollaro, del cessato dominio americano sui mercati commerciali. Inconvertibilità oltretutto voluta per evitare che questa palese debolezza potesse spingere le grandi centrali della speculazione internazionale a restituire dollari alla Federal Bank per ottenere in cambio oro in attesa di tempi migliori o di centrare la propria attività speculativa su altre divise. Anche in questo caso, pur se sul versante monetario, e non prettamente produttivo-commerciale, la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro ha avuto una funzione difensiva che non ha contribuito al risanamento dell’economia americana né tanto meno ha tamponato l’emorragia della caduta del saggio del profitto.

Tra il ‘71 e il ‘79, pur nel succedersi delle varie amministrazioni, non è sostanzialmente mutato il tipo di intervento né il critico assetto dell’economia americana. I dati che si registrano in questo periodo sono di ulteriore lieve flessione e non di miglioramento. Ne è testimonianza, a metà degli anni ‘70, la manovra a largo respiro del “caro petrolio” voluto dai paesi arabi produttori ma sostenuti dal governo americano, con la quale gli Stati Uniti intendevano penalizzare gli apparati produttivi europei e giapponesi attraverso l’aumento dei costi di produzione e concorrendo a tamponare la loro diminuita competitività. Mentre contribuivano a sostenere il dollaro (moneta universale di scambio tra produttori petroliferi) che, dopo la dichiarazione d'inconvertibilità avrebbe potuto perdere quel ruolo primario che si era conquistato con la forza a Bretton Woods.

Le conseguenze di una simile manovra, nata spontaneamente nell’area dei paesi produttori, ma sorretta diplomaticamente e spinta economicamente dagli USA, hanno pesato per anni in termini di inflazione, depressione e disoccupazione sulle economie e sui proletariati del mondo occidentale. Anche in questo caso la manovra si è risolta per essere soltanto una mossa che, nell’area dello scontro interimperialistico, la traballante potenza americana ha messo in atto per contenere la maggiore competitività commerciale dei suoi partner, sempre operando all’interno di una logica di mercato. E ancora una volta la conseguenza più evidente è stata che l’economia americana non ha risolto i problemi di tamponamento della caduta del saggio del profitto, ma in compenso ha trascinato nel vortice della crisi il capitalismo occidentale.

Sono proprio gli anni ‘74-‘79 che fanno registrare il livello più basso degli investimenti e degli scambi commerciali, ed un incremento dell’inflazione e della disoccupazione senza precedenti. Quest’ultima ha raggiunto indici del 18-24%. Nei PVS vanno maturando tutte quelle condizioni di ristagno economico e di indebitamento finanziario che li porteranno agli anni Ottanta in condizioni di totale affamamento.

Con gli anni ‘80 la crisi del capitalismo americano ed occidentale entra in una nuova fase. 1981-1982 sono gli anni del secondo shock petrolifero, di una ulteriore flessione degli investimenti, del crollo dei prezzi delle materie prime. Si esasperano cioè tutti i fattori della crisi, compresa la concorrenza economico-commerciale fra gli Stati Uniti da una parte e Giappone e Europa dall’altra, guerra che ha visto sui rispettivi fronti la messa in opera di vecchie e “nuove” controtendenze.

Innanzitutto un attacco senza precedenti nei confronti della classe operaia la quale, per anni, e il processo non si è ancora fermato, ha dovuto sopportare per intero il peso della politica dei sacrifici, i cui contenuti si basavano sulla negazione di fatto delle rivendicazioni economiche, o al massimo sulla loro estensione sino al livello del tasso di inflazione ma non oltre, sull’accettazione della cassa integrazione e della sua logica conseguenza: i licenziamenti. Sulla mobilità del lavoro, sul maggiore sfruttamento in fabbrica, ovvero su tutti quei fattori che hanno rappresentato la premessa indispensabile di quel fenomeno meglio conosciuto come ristrutturazione.

A lato del tentativo di ricreare margini di profittabilità attraverso la ristrutturazione dei settori portanti dell’economia, si è aggiunto un più oculato intervento dello Stato. Facendo riferimento all’Europa e in modo particolare all’esperienza italiana, lo Stato è andato via via assumendo tutte quelle iniziative di politica economica e fiscale che meglio si prestavano all’assecondamento dei meccanismi di gestione della crisi, in termini di tamponamento della emorragia dei profitti, ovvero del solito processo di ristrutturazione.

Scopo dello Stato era quello di spianare la strada della ripresa economica creando le condizioni politiche e finanziarie agli investimenti. Il mezzo, giocare al ribasso con il tasso di sconto, reperire quote di capitale per sostenere i settori più importanti dell’economia italiana, elaborare una politica fiscale che gravasse sui redditi da lavoro dipendente e non penalizzasse il mondo imprenditoriale, ed infine accollarsi l’onere, anche se temporaneo, delle conseguenze del processo di ristrutturazione, quali la cassa integrazione e i prepensionamenti.

A partire da quegli anni si è avuto un crescendo delle tariffe pubbliche sull’uso di servizi di prima necessità come acqua, gas, luce elettrica, telefoni e trasporti pubblici, canoni d’affitto e un costante inasprimento della pressione fiscale.

Sull’altro versante lo Stato è andato progressivamente indebitandosi per sostenere la domanda interna produttiva, e contemporaneamente ha adottato la politica dei tagli della spesa pubblica nei settori non produttivi quali la prevenzione sociale, le pensioni, la scuola e la sanità. Ossigeno, dunque, per le precarie condizioni di valorizzazione del capitale nazionale e tartassamento su ogni fronte della forza lavoro.

Il processo di ristrutturazione europeo e giapponese ha cioè operato sul piano della risposta alla crisi e più in particolare alla caduta del saggio del profitto, andando ad incidere sull’aumento della produttività sociale ristrutturandosi ad alti livelli tecnologici e comprimendo al massimo i salari reali e le spese sociali improduttive.

Dall’altra parte dell’oceano, l’amministrazione Reagan ha prevalentemente usato un altro settore di controtendenza alla recessione economica, fatto salvo un uguale modello di comportamento dello Stato per ciò che concerne l’indebitamento, quello della centralizzazione del capitale finanziario e del suo impiego, speculativo o produttivo, decentrato rispetto alla struttura economica americana.

Ad eccezione dei settori produttivi legati alla produzione delle armi e ai sistemi di difesa, che dall’82 all’86 si sono visti assegnare dal Governo 1600 miliardi di dollari di commesse, e dei settori dell’alta tecnologia, l’apparato produttivo americano non si è incamminato sulla strada della ristrutturazione economica nel tentativo di colmare almeno in parte il disavanzo tecnologico nei confronti di Giappone ed Europa, rintuzzando con l’aumento della produttività l’annoso problema dei profitti decrescenti, ma ha puntato sulla politica del tasso di sconto al rialzo, nel tentativo, in parte riuscito, di riproporre gli USA quale maggiore potenza finanziaria e monetaria in grado di dominare sul mercato finanziario internazionale, anche a scapito di un ulteriore indebolimento della sua struttura produttiva.

Gli alti tassi di interesse praticati dalle banche americane e dal Tesoro Federale, sono riusciti a far affluire negli USA centinaia di miliardi di dollari che sono stati riciclati sotto forma di prestiti ai paesi periferici o investiti nel settore asiatico (Hong Kong, Taiwan, Singapore e Corea del Sud) e nel sub continente americano (Argentina, Brasile, Messico e Cile) (10). Nel contempo il dollaro ha continuato ad essere la divisa dominante, il bene di rifugio per eccellenza, lo strumento attraverso il quale scremare il plusvalore contenuto nelle altre divise costrette a comprare dollari per poi acquistare tecnologia, beni alimentari e petrolio.

Una prima conclusiva osservazione ci indica come la crisi internazionale, che da più di dieci anni attraversa in tutti i sensi i mercati capitalistici, abbia trovato una momentanea panacea alle devastanti conseguenze della caduta del saggio del profitto, agendo sul terreno delle controtendenze con modi ed intensità diversi.

Gli Stati Uniti hanno giocato la partita puntando sulla centralità del dollaro e sulla esportazione di capitale finanziario, sostituendo così alla caduta del saggio del profitto un aumento dei profitti bancari, accentuando l’incipiente processo di deindustrializzazione, e trasformando gradatamente l’assetto della economia americana da produttiva in “centrale finanziaria”.

Gli ultimi dati statistici riferiscono che il 70% del RNL è ottenuto nel settore terziario mentre il 65% dei profitti viene realizzato all’estero.

L’Europa e il Giappone, per tempo il secondo, meno puntuale e più disomogenea la prima, vanno in questo caso esaminati in maniera differenziata. Tutte le componenti della riorganizzazione produttiva dei capitali nazionali europei, hanno prevalentemente operato sul terreno della intensificazione della produttività industriale (aumento dei ritmi di produzione), e della maggiore competitività sul mercato commerciale internazionale, come primaria controtendenza alla crisi dei profitti, giovandosi in parte anche della calcolata rinuncia americana di scontrarsi sul terreno della competitività produttivo-commerciale per dedicarsi alla riproposizione del dollaro quale coefficiente universale di scambio tra le merci, in modo particolare quelle strategiche come il petrolio.

Ciò non sta assolutamente a significare che l’imperialismo americano abbia ceduto il passo senza combattere la sua guerra sul mercato commerciale, si vuole soltanto dire che le scelte dell’amministrazione Reagan, basate sul sostegno del capitale finanziario speculativo, non potevano essere di aiuto ad un improbabile e contemporaneo processo di ristrutturazione che avrebbe dovuto riallineare il capitale produttivo americano a quello dei partner occidentali. Alla ristrutturazione dell’apparato produttivo venivano meno proprio quei capitali che si dedicavano all’esercizio del credito e dell’immediata valorizzazione produttiva sui mercati esteri. Proprio per questo l’amministrazione Reagan non ha lesinato nei confronti di Giappone e Europa misure protezionistiche e pressioni monetarie.

Una seconda conclusione ci mostra come il temporaneo tamponamento della crisi, se ha in diversa misura e con modalità differenti, ridato fiato al sistema capitalistico dell’area occidentale, permettendogli di amministrare al meglio quest’ultima fase del suo declino, grazie anche, se non soprattutto, ad una risposta di classe che, al di là di episodi importanti quanto significativi, ha comunque mantenuto un profilo molto basso, non adeguato alla gravità e all’estensione della crisi stessa, consentendo al sistema di non avere il fiato sul collo e di poter provvedere al “risanamento” in condizioni di migliore tranquillità sociale.

La gestione imperialistica della crisi ha favorito in parte, determinato del tutto, l’impoverimento delle aree capitalistiche periferiche. Il continente africano e quello asiatico sono ridotti a livelli di mera sopravvivenza, i cosiddetti Paesi in via di sviluppo sono nella scomodissima posizione di non poter più sperare di inserirsi a qualche titolo come mini protagonisti sul mercato internazionale, in più hanno sommato un enorme debito pari ad oltre 1300 miliardi di dollari. Non per niente i maggiori e più duraturi episodi di esasperazione, di insofferenza e di ripresa della lotta di classe, sono da registrare nei paesi della periferia capitalistica che sino a questo momento ha retto il peso maggiore della crisi.

Ma anche là dove la ristrutturazione e la speculazione sembrano aver apportato un po’ di ossigeno all’asfittica economia occidentale, si palesano gravi sintomi di debolezza.

In Europa permane un esercito di disoccupati vicino ai 20 milioni e la cifra è destinata ad aumentare secondo un trend che dura ormai da più di dieci anni. In Inghilterra come in Germania, Francia e Italia continuano le politiche fiscali vessatorie e quelle finanziarie restrittive. Ricomincia a far capolino, di qua e di là dell’Atlantico, lo spauracchio dell’inflazione e della recessione. Negli USA il tasso degli investimenti produttivi è sceso dall’8,2 del 1983 al’1,5% del 1987. La domanda interna complessiva, nel medesimo periodo, si è ulteriormente contratta passando dal 4,5 al 2,5%, l’esportazione, nonostante la perdita di valore del dollaro, è rimasta inalterata, le importazioni hanno continuato ad aumentare, tanto che oggi la bilancia commerciale oscilla attorno a un deficit di 140-160 miliardi di dollari.

Un discorso a parte merita la disoccupazione: secondo le statistiche elettoralistiche reaganiane la disoccupazione si sarebbe ridotta dall’inizio degli anni ‘80 di ben 10 milioni di unità, attestandosi attorno al 7%. Niente di più falso, le compiacenti statistiche americane annoverano nel numero degli occupati anche i lavoratori part-time e quelli a lavoro nero nonché quelli che lavorano quattro settimane all'anno. Se negli USA si usassero metodiche statistiche come quelle italiane il tasso di disoccupazione sarebbe, secondo alcuni studi, pari al 12%.

Il che sta ad indicare che la tanto sbandierata ripresa dell’economia mondiale non si è prodotta, ma che il capitale complessivo è riuscito grazie ai massicci interventi ristrutturativi e alla parassitaria gestione del capitale finanziario a dare una maggiore circolarità alla crisi, collocandola in parte nei settori periferici del mercato internazionale, e comprimendo al proprio interno la potenziale deflagrazione della contraddizione scaricandola sulle spalle della forza lavoro. Ma persistono tutti i sintomi di una nuova recessione, la quale troverà un capitalismo debole e sempre meno in grado di fronteggiare la situazione sul terreno delle già sperimentate controtendenze.

Fabio Damen, dicembre 1988

(1)K. Marx:Il Capitale, Libro III, sez. III, cap. 13, Ed. Riuniti, p. 263.

(2)Ibidem, p. 271.

(3)Ibidem, sez. I, cap. 3, p. 81.

(4)Ibidem, cap. 15, p. 289.

(5)K. Marx: op. cit., p. 313.

(6)Ibidem.

(7)Ibidem, p. 297.

(8)Per quanto riguarda la crisi americana di questo periodo e gli sviluppi successivi, vedi “La crisi dell’impero americano” su Prometeo n. 11, IV serie, 1987.

(9)Per la visione di ulteriori dati statistici e per l’analisi degli aspetti fenomenici della crisi americana dal ‘71 ad oggi, vedi Prometeo citato.

(10) Per i dati e i movimenti di capitale, vedi Prometeo citato.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.