Le guerre di liberazione nazionale nell'epoca dell'imperialismo

Com'è nella metodologia del marxismo rivoluzionario, per analizzare una qualsiasi questione, è necessario che questa sia portata entro i suoi confini storici determinati al fine di ricavarne una impostazione adeguata alle linee di tendenza verso cui la stessa, per ragioni obiettive,si è indirizzata.

Le guerre di liberazione nazionale, parimenti, necessita ano di una sistemazione che tenga conto di quanto s'è venuto a modificare sul terreno delle “cose”, sul piano dell'oggettività. Lavoro che la Sinistra Italiana, a prezzo di aspri dissidi e di profonde lacerazioni interne, certamente come nessun'altra formazione politica ha portato avanti, dando un decisivo contributo alla elaborazione teorica approdata a quell'impostazione che si configura ormai come una delle acquisizioni più conseguenti e fondamentali del bagaglio dottrinario del marxismo rivoluzionario.

È necessario separare i due periodi del capitalismo -- scrive Lenin già nel lontano 1914 -- periodi radicalmente distinti dal punto di vista dei movimenti nazionali. Da una parte sta il periodo del fallimento del feudalesimo e dell'assolutismo, il periodo in cui si formano la società borghese e gli stati democratici borghesi, in cui i movimenti nazionali diventano, per la prima volta, dei movimenti di massa trascinando, in un modo o nell'altro, tutte le classi della popolazione nella vita politica per mezzo della stampa, della partecipazione alle istituzioni rappresentative; etc. Dall'altra parte, davanti a noi sta il periodo degli stati capitalistici completamente formati, il periodo in cui il regime costituzionale è consolidato da lungo tempo, in cui l'antagonismo tra il proletariato e la borghesia è fortemente sviluppato, il periodo che può essere definito come la vigilia del fallimento del capitalismo.

In questo primo periodo, ampiamente descritto da Marx, si rendono visibili due fasi (soprattutto per quanto concerne l'Occidente), certamente non distinte ma facenti parte di un unico processo di sviluppo; una prima fa se in cui la lotta della borghesia era condotta con l'apporto sussidiario del proletariato per la soppressione del feudalesimo, ossia una rivoluzione borghese sotto la forma specifica del bonapartismo che aveva avuto inizio nel 1808-1813 sino al 1848; una seconda fase in cui, man mano che la borghesia veniva rafforzandosi sul piano della sua economia e spezzava ogni velleità di ritorno delle forze dell'antico regime, si rendeva necessaria per la stessa classe borghese la necessità della lotta più dura contro il proletariato avanzante, ora con una fisionomia tutta propria, con proprie rivendicazioni economiche politiche, e soprattutto con la sua forza pericolosa di classe a sé stante.

La monarchia -- scrive Engels -- che si decomponeva lentamente dopo il 1840 aveva avuto come condizione fondamentale d'esistenza la lotta tra l'aristocrazia e la borghesia; a partire da questo momento non più l'aristocrazia contro la pressione della borghesia, ma tutte le classi possidenti contro la pressione della classe operaia.

Fin una parola era praticamente chiusa la fase storica di un proletariato al rimorchio della borghesia in lotta contro l'aristocrazia, ed era aperta la nuova fase storica del conflitto insanabile tra i due nuovi protagonisti della storia: la borghesia sfruttatrice e reazionaria e il proletariato rivoluzionario.

Lo schema di Marx, che si riferiva alla vecchia Prussia del tempo, non cambia nell'esame delle lotte sociali e politiche della Francia negli anni che vanno dalla rivoluzione 1793-1831 alle giornate del giugno 1848 e alla Comune di Parigi del 1871.

A livello generale questo primo grande periodo del capitalismo è caratterizzato dal risveglio dei movimenti naziona1i nei quali vengono mosse e trascinate masse immense di contadiname. Un periodo in cui il moto borghese, in fase ascensiva per l'affermazione del modo di produzione capitalistico, ha caratteristiche progressive in quanto lotta per lo smantellamento della feudalità presente nei fortilizi dell'economia e nelle tendenze politiche volte alla resistenza tenace al proprio irreversibile declino storico già in corso; in quanto molla per una espansione generalizzata di tutte le forze produttive e per una accelerazione espansiva del mercato capitalistico su scala planetaria.

Anche Marx ed Engels hanno rilevato il carattere progressivo dei moti borghesi nel loro sforzo di penetrazione nelle zone extracapitalistiche, per l'affermazione dei nuovi rapporti capitalistici di produzione che urtavano con le maglie della stretta rete dei rapporti economici dominanti facenti parte del corpo putrescente del vecchio regime. Ma già era viva e reale una preoccupazione tutta tesa a mettere in rilievo la reale consistenza del proletariato, analisi da cui sarebbe scaturita una prima definizione di quella visione strategica della lotta del proletariato, quella cioè che considera la classe operaia la vera “promotrice” delle lotte nazionali, che perciò stesso tali lotte tendevano sempre ad essere meno nazionali per trasformarsi in lotte sempre più socialiste.

La “simpatia” di Marx ed Engels quindi non andava tanto al moto nazionale in sé quanto al contenuto proletario e socialista che al moto stesso imprimevano ormai e in tutti i settori della rivoluzione democratica in atto allora in molti paesi europei, le prevalenti forze sociali e politiche del moderno proletariato. Sulla trama della rivoluzione nazionale portata a compimento dal proletariato, per cui i caratteri della rivoluzione democratica tendono a trasformarsi in quelli della rivoluzione socialista, si svilupperà la tematica della lotta operaia in tutta la fase storica posteriore a quella in cui vissero i due grandi maestri del comunismo.

Parimenti, così si esprimeva e sintetizzava Lenin:

Nel 1793 e nel 1848 in Francia come in Germania e come in tutta Europa, la rivoluzione borghese-democratica era obiettivamente all'ordine del giorno. A questa situazione storica obiettiva corrispondeva un programma “veramente nazionale”, il programma cioè nazionale-borghese della democrazia d'allora che, nel 1793, fu realizzata dagli elementi più rivoluzionari della borghesia e della plebe : programma che nel 1848 Marx proclamava a nome di tutte le democrazie avanzate. Alle guerre feudali e dinastiche si opponevano allora, obiettivamente, le guerre rivoluzionarie democratiche, le guerre nazionali-emancipatrici. Tale era il contenuto dei problemi storici dell'epoca.
Al presente, per i grandi stati avanzati dell'Europa, la situazione obiettiva è un'altra. Il progresso - se si trascurano certi regressi provvisori -non è realizzabile che andando verso la rivoluzione socialista, verso la società socialista. Alla guerra imperialista borghese, alla guerra di un capitalismo altamente sviluppato non si può opporre obiettivamente, dal punto di vista del progresso, dal punto di vista della classe avanzata, che una guerra contro la borghesia, la guerra per il potere, senza il quale non vi può essere serio movimento in avanti.

Ottobre 1916

Siamo così al secondo periodo del capitalismo. Periodo in cui il problema delle guerre nazionali è tutt'altro che risolto.

Incombeva ancora in particolari settori della vita europea l'irrompere delle forze della moderna borghesia alla conquista delle zone in ritardo nello sviluppo generale dell'economia capitalistica e l'atteggiamento delle forze dell'avanguardia rivoluzionaria era oggetto, nel seno delle stesse, di non sempre sereni dibattiti (ad esempio, la polemica Lenin-Rosa Luxemburg).

Il colonialismo cominciava a spingere verso una soluzione mondiale del nuovo aspetto economico capitalistico, imprimendo al proletariato dei popoli di colore, la necessità di un intervento nei moti che la giovane borghesia indigena esprimeva con una “autonomia” tanto relativa quanto era la sua subordinazione alle capacità di penetrazione nelle stesse aree di altri capitalismi.

Le zone extracapitalistiche, nella loro vastità geografica, subiscono ancora, in tale periodo, la necessità storica della rivoluzione democratico-borghese. Idem quei paesi toccati dal modo di produzione capitalistico in maniera parziale per i quali si impongono, esistendo di fatto un proletariato indigeno, tattiche di intervento meglio che da altri espresse, ancora una volta, dal compagno Lenin.

La doppia rivoluzione fu infatti lo scioglimento di quei nodi tattici che avevano posto la classe operaia di fronte a dilemmi pratici la non risoluzione dei quali l'avrebbero portata al rimorchio delle forze ancora espansive della borghesia protesa al consolidamento del proprio dominio di classe sulle basi dello industrialismo e della concorrenzialità nell'ambito del mercato del capitale finanziario. La questione della doppia rivoluzione, nata, come sempre, nel fuoco della lotta di classe, trovò soluzione nella stessa Russia ponendosi come modello per tutta una . fase storica, fase non divisa dai rigidi muri delle date ma che si esaurisce con il contrapporsi, a livello mondiale, dei fattori di decadenza del capitalismo, pervenuto alla sua fase parassitaria e speculatoria dell'imperialismo. Si trattava, cioè, di innestare negli aspetti della rivoluzione nazionale, come fase da portare a compimento, come tappa inevitabile per la strutturazione di una economia capitalistica, il problema della rivoluzione socialista, ritenendo l'eliminazione delle zone extracapitalistiche compito proprio all'imperialismo e alle sue forze; ossia fenomeno esplodente nel suo stesso seno e di cui il proletariato si sarebbe dovuto servire per i suoi fini rivoluzionari di classe.

Ciò non vuoi dire in nessun modo -- scrive infatti Trotsky nella sua “Storia della Rivoluzione Russa” -- il riconoscimento di qualche missione rivoluzionaria della borghesia delle nazioni coloniali o semi-coloniali. Al contrario è proprio la borghesia dei paesi arretrati che si sviluppa come un agente del capitale straniero e benché mostri per quest'ultimo una invidiosa ostilità, si trova e si troverà in tutti i casi decisivi unito ad esso nel medesimo campo.

Così come il colonialismo servì da acceleratore espansivo all'economia capitalistica ieri, così, bisogna aggiungere, la più recente “decolonizzazione” è servita e serve agli imperialismi di oggi come metodo di affermazione egemonica del proprio capitale finanziario. Così come la colonizzazione fu per le potenze coloniali terreno di scontro nell'opera di spartizione della forza-lavoro indigena e delle risorse naturali, allo stesso modo la “decolonizzazione” si configura, dal punto di vista del suo contenuto economico, come accaparramento di larghe fette del mercato internazionale, similarmente: mediante contrasti interimperialistici, a volte sinistramente preoccupanti dal punto di vista di ciò che in brevissimo tempo potrebbero generare, prima ancora di una maturazione della coscienza rivoluzionaria del proletariato internazionale.

Se sin dalla prima guerra mondiale le guerre di liberazione nazionale avevano perso le loro specifiche ragioni progressive, dopo il secondo conflitto imperialista tali ragioni si sono ulteriormente rarefatte essendosi consolidato, a livello planetario, il sistema capitalistico dell'era del capitale finanziario.

I paesi poveri, già risultato di quella tendenza che il capitalismo manifesta anche a livello di singola nazione per effetto della legge, funzionale ai suoi motivi di espansione, dello sviluppo ineguale (vedi ad esempio il problema del Mezzogiorno d'Italia) accuratamente studiata da Marx, oggi più che mai si presentano come l'opposto dialettico dei paesi ricchi; avvinti entrambi nelle spire della dialettica sviluppo-sottosviluppo, come due termini funzionali di una stessa realtà: quella dell'imperialismo, sistema di blocchi contrapposti, in perenne conflitto nella sistematica opera di rapina ai danni del proletariato internazionale, un sistema che ancora si presenta con le principali prerogative poste negli accordi di Yalta, con gli equilibri che la guerra imperialista aveva espresso in risposta ad una crisi generata dalla chiusura di un ciclo di accumulazione.

Tali equilibri, per loro natura fluidi, hanno subito e subiscono modificazioni per motivi “interni” (“contrattualità” variabile tra Usa e Urss in ragione della loro capacità di influenza e di penetrazione) ed “esterni” (l'irrompere, come terzo contendente sulla scena del mercato internazionale, della Cina, già “paladina dei popoli oppressi” e oggi dichiaratamente disposta alla collaborazione coi più lerci governi fascisti di tutto il mondo).

Come può porsi oggi la questione delle cosiddette guerre di liberazione nazionale? In un mondo dominato dalle forze dell'imperialismo, le lotte di liberazione nazionale hanno esaurito totalmente la loro funzione storica, appunto “liberatoria”, perdono quelle caratteristiche progressive che hanno accompagnato invece i medesimi conflitti durante il periodo capitalistico del cosiddetto libero scambio.

Tali lotte non vanno considerate a se stanti ma come parte di una situazione obiettiva nella quale gli interessi della dominazione imperialista sono prevalenti e determinanti anche e soprattutto nelle zone del sottosviluppo e in quei paesi in via di industrializzazione; sono pertanto destinate inevitabilmente a subire l'attrazione verso i poli dell'imperialismo perdendo così ogni capacità di autonomia e di autodeterminazione. Siamo nell'epoca storica della decadenza del capitalismo la quale trova i suoi momenti di particolare gravitasse la riferiamo alla crisi strutturale e irreversibile che si è sviluppata a livello internazionale e nel cuore delle maggiori cittadelle del capitale. Siamo pertanto di fronte alla prospettiva della III guerra imperialista, la sola soluzione possibile per la borghesia monopolistica e di cui si stanno intravedendo i primi segni in relazione alla sua effettiva preparazione (scontri interimperrialistici in Africa e in Asia in particolare).

Compito dei rivoluzionari non è quello di aiutare la borghesie nazionali a consolidare le basi del loro capitalismo ma far chiarezza sul proletariato chiamato dalle stesse a costruire con le proprie mani le impalcature politiche del suo sfruttamento.

Il compito primario di un Partito di classe è impedire che l'apporto delle masse operaie indigene alla “lotta per l'indipendenza” sia di fatto un apporto alla vittoria del nazionalismo; bisogna approfondire il solco che divide gli interessi delle masse operaie da quelli della borghesia nazionalista in combutta con la borghesia monopolistica dei blocchi dominanti e indicare le linee prospettiche della rivoluzione proletaria come opposizione totale allo sfruttamento e alla guerra imperialistica. Nell'era dell'imperialismo non esistono guerre giuste o ingiuste, di aggrediti e di aggressori ma soltanto guerre di rapina. Unica risposta non potrà essere che la rivoluzione antimperialistica condotta dal proletariato internazionale che ne è l'unico vero motore storico.

Sono da rigettare come controrivoluzionarie le tesi secondo cui le guerre di liberazione nazionale sarebbero un mo mento di disturbo per l'imperialismo in quanto allargamento e approfondimento delle proprie contraddizioni (ad esempio il ruolo della Cina in funzione di intralcio alle mire degli opposti blocchi); non meno controrivoluzionaria è l'altra secondo la quale dette lotte, condotte in zone precapitalistiche o semplicemente arretrate, creerebbero le premesse della rivoluzione socialista poiché avrebbero come risultato la creazione di un moderno proletariato (ciò è oltremodo riduttivo del ruolo dello stesso proletariato internazionale) in grado successivamente di porre in primo piano la questione del potere, Questi “flirts” possiedono una pericolosità che potrebbe sconfinare nel vero e proprio collaborazionismo di classe con le borghesie indigene e pertanto potrebbero dare all'imperialismo più armi di quanto già non ne abbia per perpetuare lo “status quo” dello sfruttamento mondiale della classe operaia.

L'imperialismo, pure nell'intreccio della sua complessità, è realtà unitaria di uno stesso modo di produzione. Le teorizzazioni di un imperialismo n. 1, 2, 3 (e così via) in relazione al grado di pericolosità, di aggressività o di potenzialità bellica detenuto, aprirebbero la via al disorientamento e alla confusione delle masse operaie qualora la III guerra imperialistica deflagrasse ancor prima che la classe operaia avesse potuto esprimere i motivi del suo intervento rivoluzionario (dal collaborazionismo all'interventismo, poi, il passo sarebbe assai breve).

Tali tesi, oggi, oltre che controrivoluzionarie si presentano anche come anacronistiche. Simpatizzare per qualsivoglia moto di liberazione nazionale significa simpatizzare per l'imperialismo sotto il cui controllo tale movimento s'è venuto a trovare. Una duplice ragione sorregge tale affermazione:

  1. Una ragione puramente economica che deriva dal fatto che il capitalismo della fase imperialista,esportando il suo capitale finanziario esporta anche il proprio modo di produzione, che si verrà ad impian¬tare, a mo' di succursale, nel paese che tale moto di “rivolta” aveva espresso. Esportazione del proprio modello di produzione significa, altresì, esportazione di tutti i motivi che esprimono oggi la decadenza dell'imperialismo nelle sue più avanzate cittadelle. Avremo pertanto paesi con zone di arretratezza e sottosviluppo massimi che si contrappongono a zone caratterizzate da un forte sviluppo industriale sulla base di impianti ad altissimo contenuto tecnologico non potendosi ripercorrere la lenta e faticosa strada seguita dal capitalismo nella fase della sua “prima maniera”.
  2. Una ragione politica che dipende da motivi subordina ti alle regole dialettiche del rapporto che necessariamente deve intercorrere tra struttura e sovrastruttura: esportazione del modo di produzione capitalistico significa, nel periodo di decadenza, esportazione di tutte le principali contraddizioni politiche presenti nel sistema politico del blocco imperialista dominante. La prospettiva guerra o rivoluzione si porrà al proletariato indigeno, senza tappe intermedie, senza tattiche diversificate, allo stesso modo di come si pone oggi nei centri avanzati del sistema dei blocchi imperialisti.

E arriviamo al problema che maggiormente deve essere motivo di serio impegno per tutti i rivoluzionari, il problema dell'urgenza della costruzione del Partito di classe per realizzare le premesse sin qui esposte in relazione alle guerre di liberazione nazionale. Non c'è crisi borghese che non possa avere una soluzione borghese; la guerra imperialista è, appunto, la soluzione borghese della crisi capitalistica, se non interviene il proletariato rivoluzionario a mettere fine al circolo vizioso che, all'interno di ogni ciclo di accumulazione, ripropone la dialettica ricostruzione-crisi-guerra imperialista.

Solo la rivoluzione proletaria è in grado di spezzare tale dinamica del divenire storico del capitalismo. Ma il proletariato, da solo, è in grado di maturare tale coscienza rivoluzionaria? La storia presente e passata dei moti di rivoluzione nazionale di dice chiaramente di no.

Anche quando fossero maturate le più aspre contraddizioni che apriranno di fatto al III macello mondiale e all'insorgere di forme spontanee di lotta, anche generalizzate, se non esiste l'organizzazione dei rivoluzionari, il Partito di classe, qualunque prospettiva di soluzione andrebbe a schiantarsi contro il muro della più feroce reazione borghese o contro l'ingabbiamento della disponibilità alla lotta di classe operaia entro i limiti imposti dallo sciovinismo della borghesia tinteggiato variamente coi colori illusori della “lotta per il socialismo” (leggi capitalismo di Stato); il ruolo delle forze della neo-socialdemocrazia sarà senz'altro determinato nel condurre la classe operaia verso gli obiettivi del “socialismo reale” di Mosca o di quello di Pechino. Si impone pertanto la necessità storica, per i rivoluzionari, di lavorare alla prospettiva della costruzione di un centro propulsore, la futura Internazionale Comunista, unica condizione per far trascrescere “i movimenti di liberazione nazionale” in rivoluzione proletaria. Il compito, dopo la disfatta della rivoluzione d'Ottobre e dopo oltre mezzo secolo di controrivoluzione stalinista, non è certamente tra i più facili, ma occorre operare il massimo sforzo da indirizzare verso la prospettiva, che certamente sarà caratterizzata da un lungo processo, dell'obiettivo suddetto.

La lotta contro l'imperialismo deve significare per i marxisti lotta contro tutto l'imperialismo, ma senza uno schieramento internazionale del Partito che sappia assicurare una guida classista e un punto di riferimento e di coordinazione per imporre la linea della causa dei lavoratori rivoluzionari, tutti gli episodici rivolta sono destinati a fare la fine che hanno sempre fatto, di essere cioè risucchiati dalle forze che amministrano le “nuove” Coree, i “nuovi” Vietnam o i futuri “nuovi” stati palestinesi del Medio Oriente. Senza uno schieramento internazionale del Partito rivoluzionario verranno meno, nella prospettiva più che realistica della III guerra mondiale, le condizioni soggettive del disfattismo rivoluzionario, per la trasformazione della guerra imperialista in guerra di classe per l'abbattimento violento del sistema sfruttatore e parassitario del capitalismo a livello planetario.

Opponendo alle istanze affamatrici della borghesia gli interessi storici della classe operaia internazionale - volta verso l'emancipazione di tutta l'umanità - cui, oggi più che mai, si impone l'urgenza delle uniche scelte storiche possibili: guerra imperialista o rivoluziona proletaria.