Capitalismo di stato: ultimo baluardo della conservazione borghese

Economia

La crisi del profitto che da oltre due anni fa impazzire gli operatori economici e gli uomini politici di tutto il mondo, recentemente, con la crisi del petrolio, giunta al suo apice, ha brutalmente posto sul terreno la necessità di nuove e più avanzate forme di proprietà borghesi contro quelle attuali che vengono ritenute da molti un freno costante allo sviluppo dello stesso capitalismo. La trasformazione delle forme di proprietà borghesi in altre sempre più avanzate è un processo strettamente legato a quello della concentrazione del capitale ed ha la sua matrice nelle leggi che regolano l'economia di mercato, che impongono alle imprese un continuo adeguamento della loro combinazione produttiva allo sviluppo e all'affinamento della tecnica produttiva in genere.

La necessità di produrre a costi sempre più bassi per allargare la massa del profitto totale, pena l'espulsione del mercato, ha prodotto una selezione ed una concentrazione delle imprese di tale intensità che non è azzardato dire che non esiste ormai settore economico che non cada in un modo o nell'altro sotto il controllo delle grandi compagnie multinazionali e anche quelle aziende di piccole dimensioni che si distinguono per il carattere individuale della proprietà risultano essere in ultima istanza sezioni staccate della grande impresa. Una miriade di piccole imprese metalmeccaniche torinesi, pur essendo quasi tutte a carattere individuale, vivono esclusivamente in funzione delle commesse della Fiat, e infatti è bastato che quest'ultima riducesse la produzione perché, come birilli, centinaia di piccole imprese chiudessero i battenti.

Tutte le crisi fino ad oggi abbattutesi sul mondo borghese hanno, ogni volta, creato le condizioni per una sempre maggiore concentrazione fino alla costituzione dei mastodontici gruppi aziendali che oggi conosciamo appunto come società multinazionali, passando sulla rovina di quelle imprese di limitate dimensioni che non disponevano della forza economica e finanziaria per resistere alla tempesta o per rinnovare la loro tecnica produttiva. La nascita della società per azioni favorì enormemente la crescita del grande capitale monopolistico e rese sempre più evidente l'incapacità della forma privatistica originaria della proprietà borghese a contenere l'ingrandire del suo stesso sviluppo entro gli angusti limiti dei rapporti di produzione effettivi distinti quindi da quelli giuridici, che sono alla base del capitalismo. Aveva già modo di scrivere Marx a proposto della S.p.A. un secolo fa:

Il capitale che si fonda per se stesso su un modo di produzione sociale e presuppone una concentrazione sociale dei mezzi di produzione e della forza-lavoro acquista qui direttamente la forma di capitale sociale (capitale di individui direttamente associati) contrapposto al capitale privato e le sue imprese si presentano come imprese sociali, contrapposte alle imprese private. È la soppressione del capitale come proprietà privata nell'ambito del modo di produzione capitalistico. (1)

Lo svolgersi successivo degli eventi economici ha sempre visto rafforzate le grandi S.p.A. a danno della proprietà privata nella sua forma individuale senza comunque distruggerla completamente, esistendo attività economiche secondarie che non giustificano i grandi investimenti che sono tipici delle so cietà per azioni. Il fenomeno attrasse l'attenzione di molti studiosi e non pochi furono quelli che prefigurano un'economia mondiale dominata da pochi gruppi monopolistici che avrebbero avuto il dominio incontrastato su tutto e tutti fino alla formazione...

di una unica grande coalizione capitalistica direttamente contrapposta alla gran massa di coloro che sono privi di capitale. (2)

Questa ipotesi si è in gran parte realizzata, ma essa nasce da una concezione mecca nicistica della storia per cui la "grande coalizione capitalistica" diviene unica senza mutare ulteriormente nessuno dei suoi caratteri originali, né tiene conto che le forze produttive, il cui sviluppo è inarrestabile...

spingono con forza sempre crescente alla soppressione della contraddizione, alla propria emancipazione dal loro carattere di capitale, all'effettivo riconoscimento del loro carattere di forze produttive. (3)

Per cui arriva il momento che anche la grande concentrazione monopolistica, così come noi la conosciamo, risulta incapace di contenere e dirigere la produzione nell'ambito del modo capita listico di produzione.

La crisi, che periodicamente si abbatte sul mondo capitalista, abbiamo detto, produce sempre una maggiore concentrazione delle imprese e la società anonima, nata appunto per favorire la raccolta di quelle ingenti masse di capitale finanziario necessario per la realizzazione della moderna impresa capitalistica, risulta a sua volta incapace di spingere ancora oltre il processo di concentrazione, allora:

in un modo o in un altro, con trust o senza trust, una cosa è certa: che il rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo Stato, deve alla fine assumerne la direzione. (4)

In verità l'intervento dello Stato nell'economia, in barba a tutte le dottrine liberiste, non è solo di oggi avendo esso già dovuto soddisfare la produzione di servizi sociali come i trasporti pubblici ferroviari, le poste, ecc. necessari allo stesso capitalismo, pur con i bassi profitti che ne derivano, rispetto alla enorme massa di capitali investiti se non addirittura con le perdite, teneva tuttavia lontano da questi settori il capitale privato comunque organizzato.

Già la grande crisi del 1929 ebbe come conseguenza in alcuni paesi e fra questi l'Italia, la costituzione di holding pubbliche con il compito precipuo di rilevare quelle imprese che risultavano marginali e non avevano la capacità di procurarsi i mezzi finanziari necessari per la loro ristrutturazione su basi più avanzate; sarà poi l'affermarsi definitivo della grande impresa monopolistica, favorito da quel terribile massacro che fu la seconda guerra mondiale, a stimolare prima e a rendere poi sempre più necessario l'intervento dello Stato nell'economia.

Infatti se la grande, moderna impresa industriale ha da un lato acquisito una grande capacità di programmazione interna, dall'altro ha un bisogno quasi vitale che accanto ai suoi piani economici ve ne siano altri più ampi che riguardano tutta la società nel suo insieme si da garantire alla loro attività ampi margini di sicurezza. Questi ultimi 15-20 anni hanno visto gli Stati di tutto il mondo, in misura più o meno ampia, impegnati in vari tentativi di formazione di piani economici e se questi piani hanno mancato l'obiettivo ufficiale di promuovere benessere e occupazione, non hanno fallito quello vero che mirava ad assicurare enormi profitti al grande capitale monopolistico.

In Italia, ad esempio, non sono stati costruiti ospedali e case per i lavoratori, ma è stata costruita la più grande rete stradale d'Europa. Da una prima fase in cui lo Stato si muoveva in condizioni di evidente subordinazione agli interessi economici e finanziari delle grandi aziende nazionali ed internazionali, nella misura in cui le stesse leggi dell'economia di mercato spingevano ad una sempre maggiore concentrazione, si è passati ad un intervento più ampio ed autonomo e spesso contro gli stessi gruppi privati.

Favorito dalla maggiore possibilità, in quanto Stato, eli accogliere grandi masse di capitale finanziario, tramite gli appositi istituti bancari all'uopo creati, e dalla possibilità di effettuare investimenti a lungo termine, quali sono oggi quelli necessari per realizzare combinazioni produttive in qualche modo competitive, lo Stato è di fatto divenuto il capitalista più importante.

La statizzazione delle aziende elettriche, di quelle telefoniche, il controllo totale della produzione siderurgica e dell'industria chimica, della ricerca scientifica, dell'aeronautica civile, delle ferrovie e delle poste ci dicono chiaramente che non vi è ormai settore produttivo in cui lo Stato non abbia il suo interesse. L'attuale crisi esplosa in tutta la sua drammaticità con la restrizione delle forniture del petrolio, ha messo in evidenza come ormai lo Stato è chiamato a svolgere un ruolo sempre più determinante ai fini della conserva zione del sistema.

Nel giro degli ultimi due anni, in Italia, a causa dei bassi profitti si è avuta una vera e propria fuga cli capitali dalla produzione verso la speculazione; eli contro si sono avuti investimenti di enti pubblici (IRI) per ben 8.000 miliardi, esclusi gli investimenti effettuati sotto forma di prestiti, che se, formalmente, non mutano la forma giuridica di proprietà delle aziende interessate, di fatto le pongono sotto il controllo dello Stato.

Più recentemente tutte le raffinerie della Shell italiana sono passate nelle mani dell'ENI e qualche mese fa anche la B.P. stava per cedere tutte le sue attività italiane all'ENI; l'inserimento nelle trattative del petroliere Monti ha mandato in fumo l'affare, ma sembra che ora l'ENI stia trattando con lo stesso Monti. E ancora, è stato contratto all'estero un prestito di ben 12 mila miliardi che verosimilmente dovrà servire a potenziare i fondi dell'ENI per consentirgli di trattare direttamente con i paesi produttori di greggio. Di certo è che se questa importante fonte energetica fino ad oggi sfuggiva al controllo dello Stato (l'ENI importava direttamente solo il 2% del petrolio greggio raffinato in Italia), la recente crisi avrà come conseguenza un impegno di più vaste proporzioni con lo scopo cli realizzare un controllo ben più consistente di quello attuale, in questo settore così importante per tutto il sistema economico.

Inoltre si parla con sempre maggiore insistenza di ripresa della agricoltura. Questo settore, è bene ricordarlo, è stato fino ad oggi completamente abbandonato poiché richiedeva molti capitali con prospettive di realizzare bassi profitti, per cui si è preferito importare più che potenziare l'agricoltura nazionale. L'eccezionale rialzo dei prezzi sul mercato internazionale di molti prodotti agricoli ha spinto il governo a rivedere la politica agraria fin qui attuata ed è quasi certo che una consistente fetta eli capitale finanziario si trasformerà in macchine agricole e concimi; si tratta ormai solo di definire i modi e i tempi dell'intervento.

La crisi del profitto ha agito da catalizzatore in questo processo di allargamento dell'intervento pubblico nell'economia che risponde a precise esigenze di conservazione del sistema che, altrimenti, risulterebbe incapace cli gestire interi settori produttivi e particolarmente quelli ad alto tasso di capitale costante dove più intensamente si fa sentire il fenomeno della caduta tendenziale del saggio del profitto. (5)

Mancando l'intervento dello Stato ne deriverebbero, per l'intero sistema scompensi tali da rendere inevitabile il suo immediato crollo. Lo Stato, invece, facendo leva sulla sua maggiore capacità di raccolta dei mezzi finanziari, valendosi degli strumenti che gli sono propri come quello fiscale, il debito pubblico e la banca centrale, riesce, anche se solo in parte, a far fronte all'esigenza costante di ristrutturazione dei mezzi di produzione a livelli tecnici e quindi economici sempre più elevati, soddisfacendo così le precise quanto ferree leggi dell'economia di mercato che impongono un costante adeguamento della combinazione produttiva alle tecniche più avanzate, pena l'espulsione.

Se ad esempio, l'attuale crisi energetica dovesse perdurare, la domanda di autovetture inevitabilmente si fisserebbe su valori tali che gran parte della attuale capacità produttiva potenziale delle imprese automobilistiche rimarrebbe inutilizzata, per cui l'incidenza dei costi fissi sulla produzione potrebbe divenire insostenibile e far risultare antieconomica questa attività produttiva. Ma se prendiamo in considerazione ad esempio la Fiat, che è il più grande complesso automobilistico italiano, la sua chiusura provocherebbe fratture nel sistemo economico con conseguenze incalcolabili per cui lo Stato necessariamente dovrebbe intervenire. Soltanto lo Stato infatti potrebbe realizzare, date le nuove condizioni del mercato, un piano di ristrutturazione di un gruppo così grande come quello Fiat in funzione di esigenze produttive di carattere diverso (autobus, trattori, materiale ferroviario ecc.); obiettivi questi che risulterebbero in contrasto con gli interessi particolari, di profitto, di Agnelli o di qualunque altro imprenditore privato.

Il processo, certo, non si svolge con questa linearità. Spesso il passaggio di una azienda privata nell'ambito di uno dei gruppi pubblici è frutto di lotta accanita fra Stato ed imprenditori privati poiché il primo può avere tutto l'interesse, in quanto anch'esso capitalista, ad assorbire questa o quell'impresa per ragioni di economie interne o di mercato. In altri casi si stabiliscono rapporti di collaborazione fra imprese pubbliche e private in virtù di interessi comuni di carattere non soltanto economico ma politico. È quanto sta accadendo proprio con la Fiat che chiede allo Stato precise garanzie per eventuali investimenti da farsi al Sud. La Fiat, come si sa, non si rifiuta di investire nel mezzogiorno, giusta la richiesta dei sindacati, per produrre autobus o treni, ma esige la garanzia che lo Stato e le reg ioni acquistino quanto da lei prodotto.

In un modo o in un altro, dunque, è lo Stato che ad un certo stadio di sviluppo diviene lo strumento più idoneo per la conservazione del sistema. Capitalismo di stato, infatti, non è come sostiene la socialdemocrazia, un momento di transizione dal capitalismo al socialismo, ma al contrario è l'ultima difesa del capitalismo, anzi è l'involucro migliore per contenere le spinte che vengono dal mondo della struttura nel senso di una sempre maggiore socializzazione, reale, delle forze della produzione.

Né la trasformazione in società anonima, né la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive. Nella società anonima questo carattere è evidente. E a sua volta lo Stato moderno è l'organizzazione che la società capitalistica si dà per mantenere il modo di produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia degli operai che dei sing oli capitalisti. (6)

Sono le esigenze di conservazione del sistema, che per sua natura tende sempre ad una maggiore concentrazione dei mezzi di produzione e quindi ad una maggiore centralizzazione, che determinano e producono forme organizzative altrettanto centralizzate, che al più alto grado coinvolgono lo Stato e non solo lo Stato, ma tutta la sovrastruttura.

Se la sovrastruttura in genere è il riflesso della struttura economica e di questa esprime le caratteristiche fondamentali, in un'epoca in cui l'economia di tutto il mondo per leggi, come abbiamo visto, intrinseche allo sviluppo capitalistico, tende a raggiungere il massimo sul piano della concentrazione, inevitabilmente tutto ciò che riguarda il mondo subiettivo rifletterà questa ten denza. Ne consegue che ogni attività degli uomini da quella economica e politica a quella culturale e le stesse istituzioni che servono per l'espletamento di questa attività, della vita sociale insomma, mutino costantemente nel senso di una maggiore dipendenza degli interessi della collettività dalle mani di pochi.

... è caratteristica fondamentale del nostro tempo la tendenza a com misurare la politica delle riforme e della democrazia in genere alla polarizzazione delle forze, degli istituti economico-amministrativi, degli apparati sindacali e partitici e quindi degli interessi più vitali dei singoli nelle mani di pochi. In una parola sembra che i rapporti sociali, il ruolo degli individui, delle categorie e delle classi e i loro interessi particolari servano (e di fatto, servono) da supporto alla dinamica del concentrazionismo e delle sue ferree leggi. Se è quindi vero (e noi diciamo che è vero) che la democrazia si riduce in tal modo ad una finzione ideologica, ad un momento convenzionale utile, se vuoi, e necessario nei rapporti umani, l'antidemocrazia, l'esercizio cioè della gerarchia dell'autorità e della forza-violenza è connaturato ad ogni processo di concentrazione nei rapporti economici come in quelli sociali e politici. (7)

Viviamo, dunque quella fase della storia in cui la contraddizione tra forze produttive che reclamano il riconoscimento del loro carattere sociale e rapporti di produzione borghesi che di questo carattere sono la negazione ha raggiunto il suo apice e genera una sovrastruttura politico-amministrativa sempre più centralizzata.

In questo contesto ci sembra si precisi anche la nostra tesi che vuole la Russia, in questo paese capitalista, come il più avanzato sul piano della sovrastruttura, avendo questo potuto, mediante la rivoluzione, realizzare forme di gestione altamente centralizzate; e l'altra che vuole il capitalismo di stato una esperienza che rientra tutta nel mondo capitalistico.

[Lo Stato] quanto più si appropria le forze produttive, tanto maggiore è il numero dei cittadini che esso sfrutta. Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari. Il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice. (8)

Giorgio

(1) Il Capitale - Libro terzo, cap. 27 - ed. Editori Riuniti.

(2) Hilferding -
Il Capitale Finanziario_ - ed. Feltrinelli, pag. 309.

(3) Antiduring - pag. 295 - ed. Editori Riuniti.

(4) Antiduring - pag. 296.

(5) Caduta tendenziale del saggio del profitto - Marx,
Il Capitale_ - Libro III, cap. XIII.

(6) Antiduring - pag. 297.

(7) Battaglia Comunista - n. IS - 1973.

(8) Antiduring - pag. 297.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.