Il declino del razzismo

Immagine - Marinai - 1952 - Giovanni Philippone

Il pensiero di Lenin e della Luxemburg su alcuni aspetti dell'imperialismo

Il razzismo è un prodotto di un'epoca, più precisamente della seconda fase del colonialismo capitalista. La letteratura razzistica ha avuto inizio nel 1853-55 con la comparsa dell'opera "Saggio sulla ineguaglianza delle razze umane" del conte J.A. Gobineau, cioè appunto all'aprirsi della nuova fase del colonialismo capitalistico, iniziata dalla conquista francese dell'Algeria (1830) e dalla guerra dell'Oppio condotta dall'Inghilterra contro la Cina di Tsing (1840-1843). Il razzismo occupa un posto importante nella storia intellettuale e morale della civiltà capitalistica, anche se rappresenta un sintomo della decadenza senza rimedio della ideologia di classe della borghesia. Non sarà pertanto inopportuno tentare di fare un bilancio dell'esperienza razzistica, ma prima bisognerà cercare di ricostruire l'ambiente storico in cui l'ideologia razziale è sorta.

Nella storia della dominazione borghese non c'è praticamente un periodo che non sia illuminato dai cupi bagliori di qualche impresa coloniale condotta da qualche stato europeo contro i "popoli di colore". Ma il colonialismo dell'infanzia capitalistica fu cosa diversa da quello della sua età matura. Eguale fu nei due fenomeni storici la carica di crudeltà, di cinismo e di criminalità sanguinaria. Diversa fu senza dubbio la base economica, oltre che la condizione storica obbiettiva.

Il colonialismo dei "conquistadores", che occuparono il Messico (1519-1521), il Perù (1531-1533), portò felicemente a termine un'operazione di fondamentale importanza per le sorti della nascente forma capitalistica. L'abbattimento dell'Impero di Montezuma e dell'Impero Incaico segna davvero una svolta nella storia del capitalismo. Il capitale era sorto nella stessa società feudale, ma non poteva non rifletterne l'essenza ed i limiti. Il Medioevo aveva tramandato (1) due differenti forme di capitale-denaro, il capitale usuario ed il capitale commerciale. Ma questi erano insufficienti per i bisogni della manifattura capitalistica che andava distaccandosi, con la lotta dura e tenace, dall'artigianato medioevale per sua natura legato e subordinato all'agricoltura. Le scoperte geografiche che la favolosa impresa di Colombo aveva portato al livello dell'epopea, avevano dischiuso alla manifattura il mercato mondiale, ma le pastoie medioevali, costituite dalla tradizione contadina e dal settarismo della corporazione artigiana, impedivano che il processo dell'accumulazione primitiva marciasse di pari passi con l'allargamento del mercato, che invece procedeva a sbalzi.

Dopo l'impresa di Colombo, i viaggi e le scoperte di Vespucci, di Giovanni da Verrazzano, di Caboto, la circumnavigazione di Magellano che completò la scoperta delle vie acquee mondiali, iniziata dal periplo dell'Africa di Vasco de Gama, dilatarono enormemente, agli occhi stupiti della gente che aveva alle spalle il microcosmo medioevale, le dimensioni del mondo, fenomeno che per i borghesi padroni delle manifatture, significò allargamento esaltante del mercato mondiale. Bisognò dunque che il capitale-denaro, il capitale per così dire precapitalistico, subisse una radicale trasformazione, mutandosi in capitale capitalistico, cioè nel capitale industriale. E tale metamorfosi si compì a seguito della conquista e del saccheggio degli imperi precolombiani del Nuovo Mondo.

La scoperta delle contrade aurifere ed argentifere dell'America, la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l'incipiente conquista ed il saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell'Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni che contraddistinguono l'aurora dell'era della produzione capitalistica. Questi procedimenti idillici sono fondamentali dell'accumulazione primitiva. Alle loro calcagna viene la guerra commerciale delle nazioni europee, con l'orbe terracqueo come teatro. La guerra commerciale si apre con la secessione dei Paesi Bassi dalla Spagna, assume proporzioni gigantesche nella guerra antigiacobina dell'Inghilterra e continua ancora nelle guerre dell'oppio contro la Cina.
I vari momenti dell'accumulazione primitiva si distinguono ora, più o meno, in successione cronologica, specialmente fra Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra. Alla fine del secolo XVII quei vari momenti vengono combinati sistematicamente in Inghilterra in sistema coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico moderno. I metodi poggiano in parte sulla violenza più brutale, come per es. il sistema coloniale. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza concetrata e organizzata della società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. È essa stessa una potenza economica. (2)

Così nacque la civiltà capitalistica. Per giustificare sul piano morale lo sterminio e la schiavizzazione delle popolazioni "indios", i colonialisti europei inventarono la curiosa teoria che negava un'anima agli aborigeni e quindi equiparava l'assassinio di un indiano da parte di un bianco alla macellazione di un. capo di bestiame. Un razzismo così grossolano e ingenuo, fondato su una superstizione a sfondo religioso, bene si addiceva ad una conquista coloniale che si volgeva contro forme di civiltà decisamente inferiori alla civiltà europea, anche se notevoli in senso assoluto. Sia l'Impero degli Aztechi che quello, più evoluto, degli Incas rappresentavano un trapasso delicato dell'evoluzione storica dell'America pre-colombiana, evoluzione che fu brutalmente interrotta dalla conquista spagnola: civiltà ancora attardatasi per un verso nel comunismo primitivo, come dimostrano l'assenza della proprietà individuale, il carattere collettivo della produzione, l'assenza della moneta ecc, e per un verso già avviata verso forme di differenziazione in classi della società, come dimostrano la rigida struttura dello Stato teocratico degli Incas e la più dura monarchia militare degli Aztechi. Che questa forma sociale fosse già in declino lo dimostra il fatto che Cortez si giovò, per abbattere l'Impero di Montezuma, dello spirito di rivolta che la ferrea dominazione azteca suscitava nei popoli assoggettati. La stessa religione azteca fondata su un culto sanguinario, che veniva alimentato col sacrificio dei prigionieri di guerra, stava a rappresentare che le difficoltà obbiettive che si paravano davanti all'Impero obbligavano a servirsi di metodi disperati di repressione, che la religione del sole e della luna era incaricata di giustificare.

Avendo a che fare con una civiltà che denunciava apertamente la propria inferiorità, i fautori di parte intellettuale del paleo-colonialismo capitalista non furono certamente costretti ad uno sforzo critico notevole per trovare la giustificazione della conquista coloniale, che d'altra parte si svolgeva sotto il segno dell'evangelizzazione. Non bisogna dimenticare che l'era delle scoperte geografiche coincide con la cacciata dell'islamismo dall'Europa. Quando Ferdinando di Castiglia distrusse il Regno musulmano di Granata, l'ultimo lembo della dominazione araba sulla penisola iberica che durava da oltre sette secoli, correva l'anno 1492, lo stesso della scoperta dell'America. Cacciare la Mezzaluna dall'Europa e portare la Croce sul Nuovo Mondo, ancora soggetto allo influsso delle religioni barbariche, erano compiti che esaltavano la coscienza religiosa dei "conquistadores". Del resto, se nel Messico e nell'America Andina si schiacciavano gli indigeni, l'Europa cattolica già cominciava a rosseggiare dei roghi della Inquisizione. Il nascente capitalismo per giustificare le infamie della conquista coloniale non aveva certamente bisogno di inventare l'ideologia razzista. Bastava la superstizione religiosa. Il momento di sostituire a questa la pseudocoscienza verrà più tardi, quando il capitalismo avrà "ingentilito" i propri metodi di dominazione. Soprattutto quando sarà costretto a fare oggetto della sua pirateria colonialista nazioni di evoluta civiltà e di avanzata età storica.

Paleo-colonialismo e colonialismo imperialista

La seconda fase del colonialismo capitalista preannuncia e accompagna la trasformazione in senso imperialistico della civiltà capitalistica. La Rivoluzione americana (1776-1783) viene di solito presentata come la prima rivoluzione anticoloniale della storia moderna, dato che il grandioso movimento rappresentato da figure come Jefferson, Franklin, Washington, Paine pose fine alla dominazione coloniale dell'Inghilterra sui territori che, all'atto della proclamazione dell'Indipendenza, si organizzarono nei 13 Stati dell'Unione. Ma non sarebbe più esatto, dal punto di vista storico, dire che la Rivoluzione Americana chiuse la prima fase del colonialismo capitalista? Certamente il mondo che successe alla vittoria dei patrioti americani era cambiato. Cambiò ancora di più quando la Rivoluzione travolse, per ironia della storia, la stessa Monarchia francese che pure aveva validamente aiutato i rivoluzionari anti-britannici, inviando un corpo di volontari forte di 6.000 uomini e parte della flotta reale, in appoggio alle armate di Washington. Forse fu proprio la perdita delle più grosse colonie americane che costrinse le maggiori potenze colonialiste europee, prima l'Inghilterra, successivamente la Francia post-napoleonica, a mutare le direttrici di marcia della conquista coloniale. Ciò si comprende ancora meglio se si tiene presente che la rivolta delle tredici colonie nordamericane non costituì che la prima potente scossa del generale movimento anticolonialista degli imperi coloniali del Portogallo e della Spagna. Ma la rivoluzione anticoloniale dell'America Latina, se realizzò il sogno dell'indipendenza e della libertà politica, non riuscì purtroppo a realizzare quello dell'unità del continente, che capi di prestigio come Simone Bolivar e Josè de San Martin avevano ardentemente agognato. Ma più del fallimento dell'ideale federativo, ebbe conseguenze funeste la mancata rivoluzione democratica. L'indipendenza dalla Spagna e dal Portogallo non si accompagnò alla demolizione della dominazione dell'aristocrazia terriera creola, che possedeva le grandi haciendas. La rivoluzione anticoloniale vinse in quanto spezzò il vincolo politico che legava le colonie latino-americane alla Metropoli, ma non liquidò l'eredità della colonia feudale, che i conquistadores avevano importato nell'America Latina, sostituendo sulla terra la proprietà statale pre-colombiana con la encomienda spagnola, che instaurava la proprietà feudale e la piantagione lavorata dalla mano d'opera schiava. In definitiva, la rivoluzione anticoloniale dell'America Latina, che pure è densa di pagine di vera gloria, si risolse in una secessione dell'aristocrazia fondiaria dalla Corona della madrepatria, da cui aveva derivato il proprio potere e la ricchezza. Ciò accadde perchè mancarono nella storia dell'America Latina le condizioni obbiettive dello svilluppo di un movimento contadino, che in Europa ha invece dietro di sè una storia millenaria. Le conseguenze di questa mancata rivoluzione democratico-contadina pesano ancora oggi sulle diseredate popolazioni latino-americane, come dimostra il permanere di condizioni di semi-servaggio nelle affamate regioni settentrionali del Brasile, il miserabile livello di vita delle nazioni dell'Istmo, la generale arretratezza sociale, il pre-industrialismo, la sopravvivenza di tracce feudali.

Ciò che interessa qui è di far vedere come la rivoluzione anticoloniale che liberò le Americhe, nel periodo che comprende gli ultimi decenni del secolo XVIII e i primi del XIX, spostò il centro di gravità del colonialismo capitalista verso l'Asia. Ma un fatto salta subito agli occhi. Perchè nella storia delle conquiste coloniali della seconda fase l'assoggettamento dell'Asia acquista, per il capitalismo, un'importanza primaria? Sì, la conquista dell'Algeria, come si diceva, costituisce, nell'ordine cronologico, la prima delle spedizioni militari europee contro territori di conquista, dopo la chiusura del capitolo del colonialismo nelle Americhe. Ma, a parte il fatto che la conquista coloniale dell'Africa, fu completata con l'annessione francese del Marocco solo nel 1912 - se si trascura la conquista fascista dell'Abissinia che in fondo fu solo un lacrimevole aborto - lo sforzo maggiore degli Stati imperialistici europei fu compiuto in Asia. Lo studio della storia della dominazione europea in Asia, se si guarda bene, è indispensabile per chi voglia comprendere le cause profonde degli avvenimenti mondiali dell'ultimo secolo. In un certo senso la storia del capitalismo mondiale si confonde intimamente con la storia della colonizzazione e della resistenza anticoloniale dell'Asia. Non a caso il Pacifico e l'Asia sud-orientale è stato uno degli epicentri della seconda guerra mondiale. Perchè mai il colonialismo si è accanito, finendo per rompersi le ossa, sul corpo dell'Asia? Si risponde comunemente: perchè l'Asia è più ricca dell'Africa. Oppure: perchè è più popolosa. La risposta più esatta, secondo il marxismo, è invece la seguente: perchè l'Asia è socialmente più evoluta dell'Africa.

Omaggio a Rosa Luxemburg

La spoliazione delle popolazioni semicivili, il saccheggio di civiltà minori, la riduzione a schiavi dei popoli selvaggi dell'Africa e dell'America erano i metodi coloniali che servirono al capitalismo nascente per uscire, come forma di produzione ancora che prima di forma di dominazione di classe, dal grembo della società feudale. L'accumulazione primitiva rappresentò il forcipe che facilitò e accelerò il tempestoso parto. Chi più capace e distruttivo del colonialismo dei conquistadores? il nuovo colonialismo, che successe alle rivoluzioni anticoloniali delle due Americhe, tendeva ad una forma più raffinata, più economica, di saccheggio della forza-lavoro dei popoli soggetti, in quanto si prefiggeva di ridurre le colonie ad appendici della macchina industriale della madrepatria. In un certo senso, i colonialisti dovettero cominciare a preoccuparsi di ottenere il consenso dei colonizzati. Quindi, se la violenza non cessò di funzionare come "forza economica", non fu più sufficiente. Bisognò creare un intermediario politico tra la potenza colonizzatrice e la nazione colonizzata. Non serviva più il palo della forca o il rogo dell'Inquisizione. Infatti, la guerra dell'oppio inaugura un nuovo metodo di dominazione colonialista, che inizia con la collaborazione controrivoluzionaria tra il governo di S. Maestà britannica e l'Impero Celeste. Ancora oggi tale metodo non è stato messo da parte, come dimostra il pullulare di governi-marionetta che, in Asia, in Africa, nell'America Latina opprimono i sudditi, ad onta della conquistata indipendenza, per conto del padrone colonialista. Non fu più "producente" assassinare i Montezuma e distruggere i "teocalli", bisognò porsi dietro il paravento dell'imperatore, del maharaja, del sultano, perchè costoro dovevano servire a piegare i popoli coloniali alle esigenze economiche della produzione capitalistica d'oltremare.

Il capitalismo - scrive Rosa Luxemburg nell'"Accumulazione del capitale" - può senza dubbio strappare con la violenza alle popolazioni indigene i loro mezzi di produzione e costringerle a subire il suo sfruttamento, ma non può obbligarle a realizzare il suo plusvalore. Sembra quindi che questa seconda fase della colonizzazione debba essere caratterizzata dalla concorrenza "pacifica" dall'"influsso culturale", dalla "pace" dall'"uguaglianza degli interessi". Infatti l'introduzione dell'economia mercantile comincia con la costruzione di strade, ferrovie, porti ed altri mezzi di comunicazione e di civiltà. (3)

Giustamente Harry Truman, l'ex presidente degli USA, ha reagito alle notizie delle dimostrazioni dei nazionalisti panamensi nella "Zona del Canale", esclamando: "Cosa pretendono i panamensi? Panamà l'abbiamo inventata noi". E infatti la Repubblica di Panamà fu inventata dagli incrocia tori americani, che erano stufi di fare il periplo dell'America meridionale per raggiungere il Pacifico. Lo stesso avrebbe potuto dire il redivivo Ferdinand Lcsseps all'epoca dell'espropriazione del Canale di Suez. Ma nulla può smentire il fatto che le "opere di civiltà" del capitalismo tendono ad introdurre ó ad allargare l'economia mercantile in zone precapitalistiche. Il passaggio dal precapitalismo al capitalismo, dal punto di vista del capitalismo, è una condizione, anzi per la Luxembur la condizione indispensabile, dell'accumulazione del Capitale. Il capitalismo può avanzare, e fare allontanare la propria fine, solo alla condizione di distruggere l'area precapitalistica che lo circonda, ma nella misura in cui restringe l'area capitalistica, cioè nella misura in cui costringe con la violenza le popolazioni coloniali a staccarsi dall'economia naturale e comunque precapitalistica, si vengono a ridurre le condizioni dell'accumulazione capitalistica, cioè della stessa esistenza del capitalismo.

Alle sue origini, il capitalismo si sviluppa storicamente in un ambiente sociale non capitalistico. Nell'Europa occidentale, esso si trova prima nell'ambiente feudale dal quale è sorto, poi, abbattutto il feudalesimo, in un ambiente contadino-artigiano; in altre parole, esso si trova a tutta prima in un ambiente di produzione mercantile semplice. Fuori d'Europa vi sono vasti territori in cui si incontrano tutte le forme sociali, a tutti i gradi di evoluzione, dalle orde comuniste di cacciatori nomadi fino alla forma di produzione mercantile, contadina e artigiana. È in questo ambiente che continua il processo dell'accumulazione capitalistica. (4)

Secondo la Luxemburg il colonialismo non è altro che prosecuzione della lotta contro le forme non capitalistiche che la borghesia ha iniziato fin dal secolo XV. Il precapitalismo dialetticamente diventa il nemico e nello stesso tempo l'ambiente vitale del capitalismo. Finchè esiste precapitalismo, il capitàlismo ha possibilità di vivere. Ma, poichè è costretto, per impedire il bloccarsi del meccanismo della riproduzione allargata a erodere incessantemente le forme precapitalistiche, il capitalismo viene a distruggere il suo stesso ambiente vitale. Da questa concezione grandiosa emana chiaramente il senso della necessità storica, ma derivano anche i criteri per capire i differenti modi del colonialismo. Nella vita economica degli uomini ogni atto produttivo è in effetti un atto di riproduzione, in quanto tende a ricreare le condizioni obbiettive della produzione, senza di che non c'è continuità nella produzione. Esistono due casi di riproduzione: la riproduzione semplice e la riproduzione allargata. Ma la riproduzione semplice è solo un caso teorico. Infatti si ha solo se i produttori consumano interamente il prodotto. Ma se la riproduzione semplice non si fosse attuata solo in svolte eccezionali dell'esistenza della società umana, non si sarebbe avuto progresso nell'evoluzione sociale. Saremmo rimasti allo stadio selvaggio. Dunque, la riproduzione allargata è la molla del progresso economico. Come si effettua nel capitalismo? Ogni merce è la copertura materiale delle tre condizioni che consentono la riproduzione economica: capitale costante, capitale variabile, plusvalore. Ma questo, ripetiamo, è un caso ipotetico o solo eccezionalissimo. Nella realtà il plusvalore, in parte viene consumato dalla classe capitalistica e dai suoi mantenuti sociali (burocrazia, chiesa ecc.), in parte viene accumulato, cioè destinato alla produzione di nuovi mezzi di produzione (capitale costante addizionale) e di nuovi mezzi di sussistenza che dovranno essere scambiati col salario da parte delle nuove leve di operai (capitale variabile supplementare). Ma come si realizza il sovraprofitto? La classe capitalista per accumulare la parte di plusvalore destinata alla riproduzione allargata, deve trasformarlo in denaro. In al tre parole deve trovare nuovi acquirenti delle merci in soprannumero. Non può farlo che facendo uscire in parte la circolazione delle merci fuori del circuito capitalisti-salariati, cioè fuori della società capitalistica. Infatti, se il sovraprofìtto fosse realizzato, dilatando i consumi della classe capitalista e del salariato, ricadremmo nel caso dell'accumulazione semplice. Bisogna dunque trovare nuovi acquirenti delle merci e ciò non è possibile che fuori del quadro capitalisti-salariati.

Ed ecco spiegato in forma meravigliosamente semplice e geniale, un problema che lo stesso Marx, secondo la Luxemburg, avrebbe lasciato insoluto. Ma spiegando il meccanismo segreto dell'accumulazione allargata, la Luxemburg di un colpo svelava anche la natura e le cause profonde del colonialismo. In un certo senso la Luxemburg completa Marx, ma non lo fa come certi teorici nostrani che, non solo tentano di varare nuove teorie (come il capitalismo senza proprietà) senza avere il coraggio di confessare di stare "completando" le dottrine di Marx, e neppure alla maniera del revisionismo opportunista, che tende a riformare il marxismo per trovare una giustificazione teorica del tradimento. La Luxemburg, respingendo ogni lealismo dottrinario fondato sull'ipocrisia settaria, proclama apertamente di avere trovato la chiave della spiegazione dell'accumulazione allargata, impresa che non era riuscita a Marx, ma perviene alla formulazione di una concezione carica di esplosivo rivoluzionario. Infatti, il capitalismo è costretto a trovare nuovi acquirenti di quella aliquota sempre crescente di merci che non possono circolare nel quadro capitalisti-salariati, che fu usato da Marx solo come ipotesi di lavoro. Infatti la società mondiale, a parte il fatto che il plusvalore capitalista viene suddiviso tra capitalisti e proprietari fondiarii, non è formato di soli capitalisti e di soli salariati. Cioè è costretto a "colonizzare" l'area precapitalistica del pianeta, cioè l'atmosfera che consente al meccanismo della riproduzione allargata di respirare. E tale impresa viene condotta avanti, sin dal tardo medioevo, con ogni mezzo, senza arretrare davanti a nessun ostacolo materiale e a nessun divieto morale. Ma appunto perchè è costretto a demolire costantemente le strutture precapitalistiche del mondo e a predisporre le condizioni che consentano la realizzazione del plusvalore, il capitalismo suscita involontariamente la resistenza e la rivolta dei colonizzati. Ma c'è di più. Interesse vitale del capitalismo colonialista è di evitare che le colonie diventino esse stesse aree capitaliste, perchè in tal caso il problema della riproduzione allargata, si sposta, non si risolve. Cioè il capitalismo vuole l'impossibile. Infatti, una volta spezzata l'economia naturale sotto il tallone di ferro del colonialismo distruttivo, una volta deviata l'economia mercantile semplice dal suo tradizionale alveo, nessuna forza al mondo può impedire che sulle macerie delle economie precapitalistiche sorga l'economia capitalista. Ciò spiega perchè le rivoluzioni anticoloniali sono nello stesso tempo il figlio generato dall'accumulazione capitalistica e il suo nemico. Come Saturno generò Giove cioè il suo detronizzatore, così la riproduzione allargata capitalista genera la rivoluzione anticoloniale. Ma, intendiamoci bene, la Luxemburg considera sempre il proletariatò internazionale come l'agente della rivoluzione socialista. A detronizzare il capitalismo sarà il proletariato. Ma la rivoluzione anticoloniale forse che non genera proletariato, in quanto genera appunto capitalismo? Nella misura in cui il mondo si avvia a diventare completamente capitalista e la società mondiale a differenziarsi in senso borghese, cioè a raggrupparsi nella classe dei capitalisti (e proprietari fondiari) e dei salariati, il meccanismo dell'accumulazione capitalista si inceppa sempre di più. La Rivoluzione d'Ottobre mostra d'altra parte che non è necessario che la borghesizzazione del mondo sia totale, affinchè le contraddizioni capitalistiche si trasformino in esplosioni rivoluzionarie.

Certamente la posizione della Luxemburg nella storia del movimento marxista è davvero singolare. Essa si alza a denunciare una incompletezza della dottrina economica di Marx, ma non per questo esce dal campo della rivoluzione socialista. Anzi, completando da discepolo geniale la dottrina del Maestro, ne accresce la grandezza. Non la sminuisce, adattandola alle sporche bisogne degli opportunisti. La eleva su un piano più alto.

Io non sono un "teorico". D'altra parte, per ragioni indipendenti dalla mia volontà, sono costretto a leggere l'opera della Luxemburg in una versione ridotta, circostanza che moltiplica le probabilità di prendere abbagli. Ma perchè il movimento comunista internazionalista, che pure pullula, almeno dalla parte bordighista, di persone che posano a teorici, non affronta il problema della polemica Luxemburg-Marx e Luxemburg-bolscevismo? I bordighisti sconfessano e aggrediscono ferocemente, alla maniera di una setta giudaica pre-cristiana, chiunque, a parere loro, si ponga criticamente di fronte a certe posizioni fondamentali della dottrina marxista. Ma eccoli manifestare a volte profonda ammirazione per la Luxemburg. Io non dico che tale ammirazione sia infondata, ma chi ammira il genio della Luxemburg deve anche avere il coraggio di prenderne le difese. Ma, ed ecco il punto, prendere le difese del luxemburghismo, per quanto riguarda la spiegazione della riproduzion allargata e l'interazione capitalismo-precapitalismo, significa respingere il leninismo? Ebbene, io penso - proponendomi fin d'ora di accettare con quella umiltà scientifica che è la condizione di ogni apprendimento la confutazione da qualsiasi parte provenga - che leninismo e luxemburghismo non siano incompatibili. Forse che la dottrina leninista dell'imperialismo non mette capo alla teoria dell'esportazione del capitale finanziario, fenomeno economico che corona tutta l'evoluzione in senso monopolistico del capitalismo? E dove si situano i paesi destinatari del capitale finanziario esportato se non in quelli che la Luxemburg chiama i "territori dell'accumulazione" e cioè appunto i paesi a regime economico prevalentemente precapitalistico? Anche quando il trasferimento di capitali avviene da un paese capitalistico all'altro, come è il caso degli investimenti americani in Germania, la realizzazione del plusvalore non avviene mediante le esportazioni nell'area extra-capitalista del pianeta?

Due interpretazioni della genesi dell'imperialismo

È noto che la Luxemburg non attribuiva ai monopoli la stessa importanza che ad essi riconosceva Lenin. Anzi, nell'"Accumulazione" l'autrice se ne disinteressa completamente e una nota al secondo paragrafo del capitolo XII dà conto del suo atteggiamento.

Lo studio dei cartelli - scrive - dei trusts, fenomeni specifici della fase imperialistica sul terreno della concorrenza interna ai vari raggruppamenti capitalistici, la monopolizzazione dei territori d'accumulazione e la distribuzione del profitto, non rientra nel quadro di questa opera.

Dunque, i monopoli sarebbero "fenomeni specifici", non fenomeni essenziali della genesi imperialistica ; sarebbero una forma di organizzazione del quadro capitalistico di fronte all'ambiente precapitalistico? Vuol dire che i monopoli non sono la causa dell'imperialismo e dell'attacco dell'imperialismo alle aree precapitalistiche nella forma del colonialismo; ma, al contrario, l'effetto dell'ininterrotto processo di adattamento che il capitalismo deve subire in vista della incessante lotta per la ricerca di condizioni che permettano di far marciare la riproduzione allargata, condizioni che sono date dalla trasformazione secondo gli interessi del capitalismo delle forme economiche precapitalistiche? In altre parole, l'evoluzione del capitalismo verso la fase imperialistica avviene non per un meccanismo interno di sviluppo della medesima forma capitalistica e cioè per un salto "qualitativo" dalla concorrenza al monopolio, ma bensì per l'influenza dell'ambiente esterno precapitalistico, per l'interazione capitalismo-precapitalismo? Il capitalismo evolve per dinamica interna o per le sue reazioni dialettiche con l'ambiente extra-capitalistico e precapitalistico che lo circonda?

Certo è che per Lenin, non solo per la Luxemburg, l'ambiente precapitalistico ha un'importanza enorme nello sviluppo delle forme imperialistiche. In sostanza l'organizzazione del capitalismo nelle forme del monopolismo non ha avuto l'effetto di accrescerne il potenziale coloniale? Non ha permesso al capitalismo di svolgere la più grande operazione coloniale di tutta la storia? Non ha dimostrato che gli Stati che più hanno "reagito" col mondo precapitalistico hanno potuto portare la forma imperialistica al più alto grado di perfezione? Ma allora, senza nulla togliere all'edificio della dottrina leninista dell'imperialismo, non si potrebbe pensare che l'imperialismo è una conseguenza della lotta, in forme e condizioni storiche nuove, del capitalismo contro le forme economiche precapitaliste? Un capitalismo che sorge e che compie il suo ciclo vitale, svolgendo un ininterrotto compito storico, qual è la liquidazione del precapitalismo, mi pare, alla luce degli avvenimenti delle rivoluzioni anticoloniali che hanno portato virtualmente alla diffusione del capitalismo in tutto il mondo, una concezione aderente alla realtà. Non meno realistica però la concezione leninista del monopolismo imperialista e del suo modo di formarsi. Non accade di rado nel campo scientifico che due dottrine, apparentemente inconciliabili, si rivelino sul terreno critico convergenti o addirittura complementari. I fatti della vita reale dimostrano, da una parte, che l'accumulazione capitalistica si svolge grazie alla esportazione del "capitale eccedente" nelle aree sottosviluppate e arretrate, cioè precapitalistiche o basso-capitalistiche; ma, d'altra parte, provano che l'organizzazione monopolistica, che la Luxemburg trascurava, è la base economica del potere di classe della borghesia. Non sì potrebbero spiegare le cause profonde della genesi dell'imperialismo secondo la dottrina della Luxemburg e il processo di sviluppo dello stesso secondo la dottrina di Lenin?

Ripeto che io non mi sento "teorico". Però non faccio come i bordghisti, i quali mugugnano contro la teoria leninista dei monopoli, perchè temono di dire le stesse cose che dicono i togliattiani (i quali beninteso si servono della teoria leninista per il loro gioco riformista e opportunista), ma non osano sconfessare il leninismo. Per me la teoria leninista dei monopoli ha la forza ed il rigore di una legge matematica. Credo che il limite superiore del ciclo capitalista sia il capitalismo monopolista di Stato, che non supera, ma esalta ferocemente il diritto di proprietà borghese. Ma non mi sento di respingere la posizione della Luxemburg (a parte le sue vedute sulla dittatura) quando afferma che senza l'ambiente precapitalistico la riproduzione allargata capitalistica, cioè la vita stessa del capitalismo, non si spiega. Sarò accusato di eclettismo? Invano. Qui non si tratta di combinare il marxismo col non-marxismo, che è la vera essenza dell'eclettismo, ma di trovare il nesso tra due teorie marxiste. Tale nesso deve esistere. Se qualche compagno che ha più tempo e più talento di me riesce a trovarlo, non potrà venire da ciò che un grande vantaggio per il partito. Se poi dimostrerà che non c'è, non esiterò a dar prova di modestia, dichiarando di avere difeso una intuizione sbagliata.

Certo è che la polemica antiluxemburghiana degli epigoni cl: Lenin, primo tra i quali Bucharin, si poteva giustificare col timore che la dottrina luxemburghiana, facendo coincidere il crollo del capitalismo con l'esaurirsi dell'area precapitalistica, il che non era affatto il parere di Rosa Luxemburg, potesse indebolire la fiducia nell'imminente caduta del capitalismo nell'Europa occidentale. Oggi non si può dire ohe la dottrina di Rosa Luxemburg sia inattuale nè che sia superata. Anzi, la storia sta preparando il banco di prova del luxemburghismo, in quanto l'erosione delle forme precapitalistiche del mondo sta arrivando alla fase finale.

Ma vediamo se è vero che la dottrina leninista dell'imperialismo approda. secondo la mia ipotesi di lavoro, alle identiche conclusioni della Luxemburg. Dovrò citare i passaggi peculiari dell'"Imperialismo".

L'imperialismo è sorto come lo sviluppo e la continuazione diretta delle proprietà essenziali del capitalismo in generale. Ma il capitalismo è diventato imperialismo capitalistico solo a una certa fase, molto avanzata, del suo sviluppo, quando alcune delle sue qualità essenziali hanno cominciato a trasformarsi nei loro contrari, quando si sono pienamente rilevati i tratti della transizione a una struttura economica e sociale più alta del capitalismo.
Ciò che vi è di economicamente essenziale, in questo processo, è la sostituzione dei monopoli capitalistici alla libera concorrenza. La libera concorrenza è la qualità essenziale del capitalismo e, in modo generale, della produzione di merci; il monopolio è esattamente il contrario della libera concorrenza, ma abbiamo visto quest'ultima trasformarsi sotto i nostri occhi in monopolio, creando la grande industria, eliminando la piccola, sostituendo la grande con una più grande, portando la concentrazione della produzione del capitale ad un grado tale che ne risultava, e ne risulta, il monopolio (cartelli, sindacati, trusts) e fondendo in essa la potenza di una decina di banche che manipolano miliardi. Nello stesso tempo, il monopolio, nato dalla libera concorrenza, non la elimina, ma coesiste con essa, generando così varie contraddizioni molto profonde e molto grandi, provocando conflitti, contrasti. Il monopolio è la transizione dal capitalismo ad un capitalismo più elevato. (4)

Subito dopo Lenin, scartando la definizione troppo inadeguata dell'imperialismo come "fase monopolistica del capitalismo", elenca i cinque "caratteri essenziali" dell'imperialismo:

  1. La concentrazione della produzione del capitale che crea i monopoli, la cui funzione è decisiva nella vita economica.
  2. La fusione del capitale bancario col capitale industriale e la creazione, su questa base, del capitale finanziario, di una oligarchia finanziaria.
  3. L'esportazione del capitale, diventata particolarmente importante, in contrapposto all'esportazione delle merci.
  4. La formazione di monopoli capitalistici internazionali che si dividono il mondo.
  5. La divisione territoriale del pianeta portata a termine dalle maggiori potenze càpitalistiche. (5)

È chiaro che la chiave della questione è data dal punto 2) e dal punto 3), cioè dal formarsi del capitale finanziario, come stadio finale del processo di monopolizzazione, e dall'esportazione del capitale, come scopo di tutto il processo. Capitale finanziario ed esportazione del "capitale eccedente" non si trovano nella stessa relazione che passa tra l'organo e la funzione? I punti 4) e 5) sono evidentemente un corollario del punto 3). Ciò che contraddistingue la costruzione dottrinale di Lenin è che essa non ha bisogno, per reggersi in piedi, di appoggiarsi a condizioni esterne al quadro capitalistico. Per spiegare la biologia (e la patologia) del capitalismo Lenin non ha bisogno di studiare il capitalismo nei suoi rapporti con l'ambiente precapitalistico che lo circonda. Però il risultato finale del processo monopolistico è una rafforzata capacità del capitalismo di aggredire economicamente il mondo che gli è esterno, il precapitalismo. Non si può pensare, senza nulla togliere alla costruzione dottrinale leninista dell'imperialismo, che proprio la necessità inderogabile di farsi più idoneo, nelle nuove condizioni storiche, ad aggredire il precapitalismo, e quindi ad assicurare luxemburghianamente il perdurare delle condizioni necessarie della riproduzione allargata, abbia costretto il capitalismo, alla fine del secolo XIX, a subire la trasformazione imperialistica?

Per il capitalismo di marca antica - quello della libera concorrenza - l'esportazione delle merci era il fatto più tipico. Per il capitalismo di marca recente - quello dei monopoli - il fatto più tipico è l'esportazione del capitale. (6)

La necessità dell'esportazione dei capitali deriva dall'“eccessiva maturità” del capitalismo in certi paesi in cui cominciano a mancargli (dato che l'agricoltura è arretrata e le masse miserabili) gli “impieghi vantaggiosi”. (7)

In altre parole, ciò vuol dire appunto che l'esportazione di capitale è imposta dall'impossibilità di realizzare, cioè trasformare in denaro, nel quadro capitalistico, il plusvalore, operazione che invece il capitalismo può compiere introducendosi nei paesi precapitalistici. Questa è la posizione centrale che Rosa Luxemburg difende interpretando originalmente gli schemi della riproduzione allargata di Karl Marx. Perchè ci sarebbe inconciliabilità tra la concezione leninista e luxemburghista dell'imperialismo se esse approdano alla stessa conclusione?

L'esportazione del capitale - scrive Lenin - influisce sullo sviluppo del capitalismo nei paesi nei quali affluisce, accelerando vorticosamente tale sviluppo. Pertanto se tale esportazione, sino ad un certo punto, può determinare una stasi nello sviluppo dei paesi esportatori, tuttavia essa non può che dare origine a una più, elevata e intensa evoluzione del capitalismo in tutto il mondo. (8)

Ed ora confrontiamo tali posizioni con quelle di Rosa Luxemburg:

Il capitalismo è la prima forma economica dotata di una capacità espansiva: esso mira ad estendere su tutta la terra e a ricacciare senza tregua le altre formazioni economiche, che non può tollerare accanto a sè. Tuttavia non puo' esistere senza di esse. Data la sua tendenza a “divenire” una forma mondiale di produzione, il capitalismo si infrange di fronte alla impossibilità di "essere" questa forma mondiale [perchè nella misura in cui diventa forma "mondiale" si riducono le condizioni che permettono il perpetuarsi del processo dell'accumulazione - ndr]. Esso offre l'esempio di una contraddizione storica vivente: il suo moto di accumulazione è contemporaneamente l'espressione, la soluzione progressiva e l'intensificazione di questa contraddizione.
Ad un certo grado di sviluppo questa contraddizione può essere risolta solo dal socialismo, cioè dalla forma economica che è, per principio, una forma mondiale, un sistema armonico, basato non sull'accumulazione, ma sulla soddisfazione dei bisogni dell'umanità lavoratrice e, di conseguenza, sullo sviluppo di tutte le forze produttive della terra. (9)

Quale superbo esempio di applicazione della dialettica materialistica! Ma conviene riportare un altro passaggio non meno importante:

Non troveremo alcuna soluzione [al problema di chi realizza la parte di plusvalore che la classe capitalistica nel suo insieme destina all'accumulazione - ndr] finchè considereremo, come fa Marx nel libro II del “Capitale”, una società composta esclusivamente di capitalisti e di salariati. Ma tale società non esiste; sappiamo che la produzione capitalistica è lungi dall'essere la sola esistente al mondo. Sia all'interno dei paesi capitalistici, sia nei paesi arretrati, vi sono produttori indipendenti - artigiani e contadini - i quali non sono nè salariati nè capitalisti. Tutta la storia del capitalismo si condensa nella storia dei rapporti tra la produzione capitalistica e l'ambiente non capitalistico che lo circonda. Il capitalismo ha bisogno di questo ambiente per smerciarvi i suoi prodotti, per procurarsi in esso materie prime, per trasformare i lavoratori in salariati del capitale, in proletari, in carne da profitto.
Così il capitalismo cresce e si sviluppa grazie agli strati e ai paesi non capitalistici, continuando l'accumulazione alle loro spalle, succhiandoli e soffocandoli per insediarsi al loro posto. Ma man mano che il numero dei paesi capitalistici partecipanti alla caccia ai territori di accumulazione aumenta, e man mano che questi territori diminuiscono, le cupidigie che essi esercitano tra i capitalisti diventano sempre più accani te e provocano in tutto il mondo catastrofi su catastrofi: crisi economiche, crisi politiche, guerre e rivoluzioni. (10)

Insomma Lenin riprende il discorso dove la Luxemburg lo interrompe. La diminuzione dei "territori di accumulazione", che abbiamo visto restringersi dopo la Rivoluzione americana e le guerre di liberazione dell'America Latina tra il secolo XVIII e XIX, esaspera la libera concorrenza dei capitalisti colonialisti che si trasforma nel suo opposto: il monopolio. Ma Rosa Luxemburg ha il torto di non essersi preoccupata, forse sottovalutandole, di studiare l'anatomia e la fisiologia del capitalismo monopolistico, succeduto al capitalismo della libera concorrenza, impresa ciclopica che spetterà a Lenin di condurre a termine. Ma completiamo la citazione:

Tuttavia, attraverso il suo stesso progresso, il capitale prepara doppiamente il proprio crollo finale: da un lato, estendendosi a danno delle classi e delle società non capitalistiche, esso si avvicina al momento in Cui tutta l'umanità sarà effettivamente composta solo di capitalisti e di salariati e in cui l'ulteriore espansione, l'accumulazione diverranno impossibili; d'altro lato, il progresso del capitale esaspera nel mondo, man mano che ingigantisce, gli antagonismi di classe e l'anarchia economica e politica a un punto tale che provocherà, contro la sua dominazione, la ribellione del proletariato internazionale molto tempo prima che l'evoluzione economica abbia raggiunto la sua ultima conseguenza: il potere assoluto ed esclusivo della produzione capitalistica nel mondo.

Ma chi porta alle sue conseguenze logiche il ragionamento maestro di Lenin non arriva alla conclusione che un mondo diventato esclusivamente di capitalisti e salariati renderà impossibile l'esportazione dei "capitali eccedenti" e quindi il crollo della ferrea struttura monopolistica dell'imperialismo? Perciò io chiedo ai "teorici" di verificare la mia ipotesi, essere cioè, almeno sul terreno dell'interpretazione dell'imperialismo, la dottrina di Lenin e quella della Luxemburg non antagoniste ma convergenti, non elidentisi ma complementari.

Le forche caudine del razzismo

Qualcuno potrà chiedermi se i precedenti paragrafi non siano una inutile digressione dal tema. Dirà: "Si stava parlando del razzismo, ed ecco che ci siamo lanciati in una disputa sulla genesi dell'imperialismo". Ma io rispondo che non si possono capire il perchè del razzismo, le cause e gli scopi, se non si è capita l'essenza dell'imperialismo. Ma ora che, sulla scorta delle posizioni dottrinali di Lenin e della Luxemburg abbiamo capito cos'è l'imperialismo, possiamo ritenere di avere risolto in gran parte la questione che ci eravamo proposti. L'imperialismo è la base materiale del razzismo. Il razzismo marcia nella stessa strada insanguinata dell'accumulazione capitalistica. Il capitalismo, l'abbiamo visto, non può procedere senza demolire le economie non capitalistiche. È comprensibile che, anche sul piano intellettuale e morale, il capitalismo non possa procedere senza distruggere le culture dei popoli che non producono la loro vita sociale dentro la forma capitalistica. Se il capitalismo è costretto a estirpare continuamente l'economia naturale e l'economia mercantile semplice, esso non può non respingere le culture che sono espresse dalle società che si reggono su quella base economica e che - ecco il punto! - servono a infiammare la difesa dei popoli aggrediti. Il razzismo antropologico non è altro che il riflesso del "razzismo economico" che l'accumulazione capitalistica applica ai danni delle forme economiche non capitalistiche.

Per portare a termine il nostro lavoro, dobbiamo prima fornire al lettore un qualche ragguaglio sulla storia del razzismo, e per fare ciò ci serviremo di un passaggio tratto da un'opera di un antropologo italiano, il Biasutti; e infine vedere come si consumerà, sul terreno sociale, la disfatta definitiva del razzismo. Ma cerchiamo di mettere a fuoco l'epoca in cui è sorta l'ideologia razzista. Abbiamo visto che la "summa summarum" del razzismo, l'opera di Gobineau, uscì nel 1853-1855, cioè all'indomani della grande fiammata del Quarantotto. A chi si rivolgeva il conte Gobineau? Non certo ai popoli di razza inferiore, i quali, per definizione, non erano in grado di capire la grande scoperta intellettuale del razzismo. Egli si rivolgeva ai propri compatrioti e fratelli di razza, la cui coscienza era ancora turbata dai fumi dell'"ubbriacatura" rivoluzionaria. La conquista coloniale delle parti più civili del mondo extraeuropeo, come l'Africa "bianca" e l'Asia orientale e meridionale, iniziata con la spedizione francese in Algeria e la Guerra dell'Oppio contro la Cina, non poteva non incontrare forti resistenze da parte della stessa coscienza borghese, che si era imbevuta, fin dai tempi dell'Illuminismo, di ideali umanitari, libertari, internazionalistici. Il capitalismo si era servito abilmente di queste forze morali e intellettuali per portare a termine la demolizione dell'antico regime feudale e per impossessarsi delle leve statali. Ma, come aveva già dimostrato l'allinearsi della grande borghesia capitalistica, nelle sue varietà finanziaria e industriale, sulle posizioni dottrinarie e politiche dell'assolutismo, che andavano innestandosi alla nuova forma sociale borghese (Monarchia di Luglio, Colpo di Stato di Napoleone III, ecc.), siffatti ideali non erano più aderenti alla dinamica del capitalismo. Perciò passavano in eredità ai partiti radical-democratici della piccola borghesia urbana che però svolgevano un compito utile per la conservazione borghese, in quanto, se si consumavano nella vana impresa di costringere il capitalismo a marciare nel quadro delle utopie democratiche, predisponevano il materiale dottrinario di base, su cui si eserciterà per oltre un secolo il revisionismo antimarxista. Per le imprese colonialiste della seconda fase il capitalismo aveva bisogno di ben diverse ideologie. Innanzitutto aveva bisogno di creare nuove generazioni di moderni "conquistadores", capaci di far apparire la brutale conquista coloniale che si preparava contro popoli di antiche civiltà, non solo come un'operazione di colossale beneficenza mondiale in quanto strumento per diffondere la più alta civiltà "bianca", ma anche e soprattutto come la necessaria, ineluttabile trasposizione sul terreno storico di obiettive leggi naturali di ordine biologico. Se si fosse dimostrato che la Natura, e per essa l'Altissimo Iddio, regolano la riproduzione della specie umana in modo che nel seno stesso della medesima si determini una precisa e rigida gerarchizzazione naturale delle razze, donando alla razza bianca il privilegio della superiorità antropologica, non si sarebbe trovato con ciò la giustificazione intellettuale e morale per l'assoggettamento di nazioni civili? A ciò serviva appunto il razzismo, che tende a trasportare nell'interno della specie umana gli stessi limiti naturali che passano nell'interno dell'intero mondo animale, tra la specie umana stessa e le specie del mondo zoologico e botanico. I nazisti non consideravano "sottouomini" gli ebrei, gli zingari, gli slavi?

Ogni ideologia serve a soddisfare un bisogno sociale. Il razzismo è servito, durante gli ultimi cento anni, a soddisfare il bisogno del capitalismo di una giustificazione sul piano intellettuale e morale dell'erogazione della violenza, della brutalità, dell'ipocrisia colonialiste. Questo bisogno cominciò a manifestarsi al declinare della fase rivoluzionaria del ciclo capitalista, all'inizio della seconda metà del secolo scorso.

Le indagini sulla psicologia dei popoli e delle razze europee ebbero un notevole impulso anche da un movimento sorto nella seconda metà del secolo scorso, per opera del conte J. A. Gobineau, il quale in un'opera intitolata Essai sur l'inegalité des racer humaines (1853-55) affermò l'assoluta supremazia della "razza ariana", conservatasi, egli credeva, in tutta la sua originaria purezza nel popolo germanico. G. Valcher de Lapouge fu uno dei più entusiasti continuatori delle idee del Gobineau e in due opere non meno famose proclamò primo tra tutte le razze umane il suo Homo europaeus, il nordico dolicocefalo biondo, di alta statura, in altri termini la razza nordica della moderna sistematica antropologica. H. S. Chamberlain (1899), 0. Ammon (1899), L. Woltmann (1905-1907) svilupparono queste idee, che ebbero una notevolissima eco nel mondo teutonico e offrirono una base pseudo-scientifica al pangermanesimo, prima, al razzismo nazista, poi. Per giudicare il valore di un'idea basta conoscere le aberrazioni a cui essa può portare. Chamberlain e Woltmann assegnano i maggiori geni dell'umanità alla stirpe teutonica. I discendenti dei Longobardi, dei Goti e di altre stirpi germaniche sono i creatori del Rinascimento toscano. Giotto è un Jothe, Dante è un Aigler, il sommo Leonardo deriva dalla stirpe dei Wincke, Michelangelo appartenne a quella dei Bohurodt. E così tutti gli altri artisti, filosofi, letterati, statisti italiani e di altre nazionalità. L'ossessionante ricerca delle alte stature, dei crani lunghi, delle chiome bionde, degli occhi azzurri domina nelle opere di certi antropologi tedeschi. La civiltà nasce solo dove regna questa fatale razza nordica, a Creta, ad Atene, a Roma, in Palestina, in India, a Giava! Dove essa, per immistioni con razze inferiori, si inquina e perde i suoi caratteri, la civiltà decade (C. Kraitscheck). Non meno soggettivo è il Gunther, fra gli antropologi moderni, nei suoi giudizi sui caratteri psicologici degli Europei. L. F. Clauss, colpito forse dal fatto che non tutti i Tedeschi sono dolicocefali biondi, trova che non sono i caratteri somatici quelli che, dopo tutto, distinguono una razza, ma lo "stile psichico". Ed ecco quali sarebbero le caratteristiche "stilistiche" fondamentali delle razze di cui questo autore si occupa. La razza Nordica è caratterizzata dalla fattività, la Fàlica dalla tenacia, la Mediterranea dall'esibizionismo ; l'individuo di razza Alpina è l'uomo della liberazione; quello di razza Armenoide (gli Ebrei) l'uomo della redenzione; quello di razza Orientale l'uomo della rivelazione. Anche in questo caso, dunque, giudizi troppo categorici e non sempre sereni e giusti. (11)

Io non mi riconosco una competenza specifica per intromettermi nelle discussioni degli antropologi moderni, ma credo di non sbagliare sostenendo che la confutazione del razzismo, più che sul terreno scientifìco-antropologico, si può coglierla su quello storico-sociale. In ultima istanza, la pretesa superiorità di una razza si manifesta nelle sue opere, nel modo in cui affronta la lotta contro le forze della Natura e le piega ai bisogni di progresso della convivenza socale della specie, lotta che non si può scindere in settori distaccati e separati l'uno dall'altro, perchè comprende tutte le branche dell'attività umana: la fabbricazione dei beni economici, l'evoluzione sociale, lo sviluppo della cultura e dell'arte, il raffinamento del costume, ecc. Cioè, per confrontare due razze e stabilire in quali rapporti si trovino, credo che sia necessario studiare la loro storia sociale e politica più che le vicende della loro biologia, senza disconoscere, specialmente oggi che stiamo assistendo alla rivoluzione costituita dall'avvento della biologia molecolare, che il disvelarsi delle leggi che regolano il comportamento di geni e cromosomi ci aiuterà a capire il perchè del differenziarsi delle razze antropologiche.

Il fallimento del razzismo, con tutto il rispetto dovuto al Biasutti, non si manifesta nelle sue aberrazioni, neppure nel fatto che il razzismo nazista ha avuto le sue conclusioni logiche nei campi di sterminio. La gassifìcazione di milioni di persone ad opera del nazismo non prova di per sè l'erroneità del razzismo, ma solo la mostruosa patologia del colonialismo capitalista. Non a caso l'enorme misfatto dell'uccisione di milioni e milioni di persone ridotte in schiavitù e soppresse, dopo essere state svuotate di ogni energia lavorativa, è stato compiuto dalla borghesia tedesca, la stessa che portò alle conseguenze più assurde, come abbiamo visto, le idee dei fondatori del razzismo. Arrivando sul teatro coloniale quando lo stesso ciclo colonialista borghese stava chiudendosi, la borghesia capitalistica tedesca (come quella italiana) ha finito, dopo accaniti sforzi per conservare le scarse colonie faticosamente conquistate in Africa e in Asia, per applicare alla stessa razza bianca i metodi spaventosi del colonialismo. Con il nazismo il colonialismo ha divorato se stesso. Il nazismo ha tentato di colonizzare i colonizzatori, impresa assurda che sta a dimostrare l'estremo grado di decomposizione patologica cui era arrivato il colonialismo capitalista. Non a caso la fine della 'guerra mondiale coincideva con l'esplodere della rivoluzione anticoloniale.

Il fallimento senza speranza dell'ideologia razzista si sta avendo invece sul terreno storico, cioè nel complesso di fatti che stanno provando come le pretese razze inferiori siano capaci di costruire una civiltà dello stesso tipo di quella europea. Fino alla seconda guerra mondiale solo poche persone potevano prevedere ciò che oggi tutti vedono. Ma ciò che è ancora più importante è che le premesse obiettive, di ordine economico-sociale, della liquidazione di ogni residuo feudale e medioevale e quindi per il salto verso la moderna civiltà industriale, esistevano nel seno della società coloniale o semicoloniale già parecchi decenni prima della rivoluzione anticoloniale. Per un secolo il colonialismo imperialista ha tentato, come risulta dalla visione luxemburghiana dei rapporti tra capitalismo e precapitalismo, di soffocare la rivoluzione dei colonizzati nel tempo stesso che, per inderogabile necessità, provvedeva esso stesso a spargerne i germi, sopprimendo le antiche forme economiche, rappresentate dall'economia naturale e dall'economia mercantile semplice. Ma alla fine l'esplosione si è avuta. Da allora il razzismo ha perduto la partita per sempre. Il razzismo doveva facilitare il compito dell'imperialismo impegnato in un'impresa assurda, dato che non si poteva impedire alla lunga lo sviluppo dei germi capitalistici che la dissoluzione delle forme precapitalistiche nelle colonie e nelle semi-colonie introduceva nelle medesime. Il fallimento del colonialismo non poteva che rappresentare il fallimento anche della sua copertura ideologica razzista.

Certamente il fatto che la civiltà industriale, lo stesso che dire la civiltà capitalistica, abbia marciato nell'Europa più in fretta che nelle altre parti del mondo, merita una spiegazione. Perchè l'Europa e l'Asia, a cominciare dal secolo XV, differenziano il loro ritmo di sviluppo e l'Europa prende ad avanzare a sbalzi? Innanzitutto bisogna porre in chiaro, e ciò non si può farlo se non con una rigorosa ed estesa trattazione storica che non entrerebbe nei limiti di questo articolo, che una delle cause principali della immobilizzazione dell'Asia è stata appunto la capacità espansiva dell'Europa. La prodigiosa accelerazione subita dalla evoluzione storica dell'Europa non si può spiegare senza tenere sempre presente che l'Europa è avanzata, dopo le grandi scoperte geografiche che misero nelle mani degli Stati marinari europei il dominio dei mari, a spese degli altri continenti. Tuttavia, stati come l'India e la Cina non erano privi certamente di tradizioni marinare. Nel secolo XIV la Cina teneva dislocata nell'Oceano Indiano una flotta militare. Sin dall'antichità greco-romana, e forse anche prima, una continua corrente di scambi teneva collegati le coste orientali dell'Africa e il sub-continente indiano. I traffici dovevano incrementarsi in seguito ad opera della marineria araba. Ma con tutto ciò, quando le condizioni furono mature per la conquista delle vie oceaniche, fu l'Europa a muoversi. Perchè? Secondo l'ideologia razzista il fatto si spiega con la superiorità razziale dell'Occidente. La verità è invece che nella storia della civilizzazione l'Occidente si è giovato di condizioni geofisiche, certamente uniche, che hanno permesso, nello scorrere dei secoli, di accumulare le conquiste sociali e culturali di civiltà diverse che sono passate senza che andasse perduto il loro patrimonio. La cosiddetta civiltà occidentale in effetti è, almeno per quanto riguarda le origini, plurirazziale e plurinazionale.

Sappiamo tutti che in ogni branca della cultura occidentale c'è, alla base, un apporto di civiltà parziali: egizia, fenicia, assiro-babilonese, israeliana, persiana, indiana, greca, romana. In Europa la civilizzazione ha camminato più in fretta che negli altri continenti, perchè, e ciò è risaputo, nessuna civiltà parziale è rimasta isolata, ma ha invece potuto avere in ogni momento scambi attivi di prodotti materiali e intellettuali da altri centri civili. E ciò è accaduto perchè i popoli dell'Europa si sono giovati di una condizione geofisica di cui nessun altro popolo della terra ha potuto usufruire, e cioè del Mediterraneo, un mare che mette a contatto tre continenti. L'Europa ha potuto, nei secoli XV e XVI, slanciarsi sull'Oceano e conquistarlo, non solo perchè spintavi da situazioni di ordine contingente, quale la conquista musulmana dei territori per cui passavano le comunicazioni terrestri ed il commercio con l'Asia, ma soprattutto perchè è nel Mediterraneo che è nata l'arte nautica. Il più navigabile dei mari non poteva che produrre i più abili e intrepidi marinai del mondo. Il carattere di pseudoscienza del razzismo consiste appunto nel fatto che tende a spiegare l'evoluzione sociale di una razza o di una civiltà al di fuori dell'ambiente naturale in cui si svolge la sua attività. Se l'Egitto era, secondo Erodoto, un dono del Nilo, con facile parafrasi si potrebbe dire che la civiltà occidentale, che il razzismo tende a spiegare con statistiche antropologiche di dubbio rigore, è un dono del Mediterraneo. Con ciò non si vuole certamente trascurare la lotta di classe, che è la chiave per spiegare ogni problema storico. Se l'Occidente è andato più in fretta che gli altri continenti, ciò significa per i marxisti che ad andare più svelta è stata, in Occidente, la lotta delle classi. Ma è chiaro che chi voglia rendersi conto del perchè la lotta di classe si svolga a ritmi diversi in diverse parti del mondo, pur approdando agli identici risultati, deve occuparsi di studiare le influenze dell'ambiente naturale sulla evoluzione sociale. Infatti, come spiegare l'enorme ritardo portato dalla civiltà nell'America precolombiana se non col fatto che gli agglomerati umani del Messico, dell'America istmica e degli altipiani dell'America del Sud vivevano in un autentico ergastolo storico, essendo separati dal resto del mondo da due oceani invalicabili? Tenendo conto di ciò, se fossimo tentati di scendere sullo stesso terreno dei razzisti, dovremmo concludere che lo sforzo compiuto dagli Incas, dagli Aztechi, dai Maya per superare la preistoria sta a dimostrare, considerate le condizioni di pauroso isolamento in cui ebbero a muoversi, la loro superiorità razziale. Ma un marxista che si sforza di farsi un quadro veritiero dell'evoluzione storica si preoccuperà solo di studiare le influenze della lotta di classe nella società e dell'ambiente fisico sulla stessa lotta di classe.

Ciò che importa per il nostro assunto è di vedere come le razze "inferiori" appena venute in possesso delle premesse obiettive indispensabili allo sviluppo in senso moderno delle loro forme sociali, premesse che potevano porsi solo al momento in cui il capitalismo occidentale veniva a contatto antagonistico col precapitalismo locale, abbiamo saputo mettersi nella strada che le condurrà fino al livello di civiltà raggiunto dall'Occidente. Finchè le moltitudini di straccioni e affamati riempivano le città dei paesi coloniali e nazioni che pure avevano dietro di sè una splendida civiltà erano costrette a prostituirsi al dominatore bianco, il razzismo poteva cantare vittoria. Ma da quando l'ultimo forno crematorio nazista si è spento e la rivoluzione anticoloniale ha cominciato a scuotere i vecchi imperi, il razzismo ha cominciato a morire. Il fatto che la mala bestia possa ancora far del male, il fatto che ancora oggi, nel cuore della roccaforte della civiltà capitalistica si lincino i negri, non varrà certamente a salvarlo. Certamente il razzismo non morirà prima del capitalismo. Ci saranno Alabame, finchè esisterà lo sfruttamento e l'oppressione capitalista. Ma ciò che conta veramente per noi è che il declino del razzismo indica che sta riducendosi sempre più l'area del precapitalismo, che rappresenta, secondo la dottrina di R. Luxemburg, la condizione necessaria della sopravvivenza del capitalismo.

Cina e India

Esempi classici di paesi in cui il colonialismo ha demolito in parte le vecchie strutture precapitalistiche, rimanendo però travolto dalle macerie, sono forniti dalla India e dalla Cina, ma soprattutto da quest'ultima. L'ultimo secolo di storia della Cina mostra, non solo il tormento di una società in fase di trasformazione, ma - quel che conta di più - un quadro eloquentissimo delle contraddizioni fondamentali dell'imperialismo. Che di più contraddittorio della politica perseguita ostinatamente dalle potenze imperialistiche di Occidente (Inghilterra, Francia, Germania, Stati Uniti) alle quali doveva afffiancarsi quel figlio illegittimo dell'imperialismo bianco chè l'imperialismo nipponico? Per un intero secolo, l'imperialismo ha preteso di svegliare la Cina dal suo sonno feudale, ma ha nello stesso tempo tentato con ogni mezzo di impedire che la Cina si svegliasse del tutto. Fuori di metafora, l'imperialismo ha preteso che la Cina, si liberasse delle pastoie precapitalistiche, ma ogni volta che la Cina ha tentato di portare alle estreme conseguenze la rivoluzione antifeudale si è trovato contro la invincibile potenza militare degli imperialisti stranieri, accorsi a puntellare prima la Monarchia manciù, il regime di Ciang-Kai-Scek, poi, Portare alle estreme conseguenze la rivoluzione antifeudale in Cina significava ricacciare in mare lo straniero colonialista, siccome avevano fatto le 13 colonie americane nel 1776 nei confronti dell'Inghilterra, i Paesi Bassi nei confronti della Spagna ecc. Ma goni volta il tentativo è andato fallito. Fallì all'epoca della guerra dell'Oppio, fallì all'epoca della rivolta dei Taiping, della Rivolta dei Boxer, della Rivoluzione antimonarchica del 1911. L'ultimo secolo della vita della Cina è la storia di questo fallimento: 1840-1945. Ma quando l'ultima nave di Ciang-kai-scek abbandonò il continente cinese, nel 1949, non si chiudeva solo un capitolo di storia cinese. Si chiudeva tutta un'epoca, l'epoca del colonialismo capitalista. Gli storici futuri potranno dimostrare, credo, che la seconda fase del colonialismo capitalistica, apertasi con la conquista dell'Algeria e la Guerra dell'Oppio, si è conclusa proprio in Cina. Come tutti i rivoluzionari, io non credo che al capitalismo rimangono molti anni di vita. Credo che il periodo che ci separa dal momento in cui tutto il mondo sarà alfine liberato dal capitalismo, sarà occupato in gran parte dalla evoluzione storica della Cina e dalle conseguenze che essa avrà sul resto del mondo. Sento che se l'imperialismo è stato costretto per oltre un secolo a logorarsi nella fatica di Sisifo di tenere incatenato il gigante cinese, ciò è dipeso dal fatto che una eruzione di industrialismo nell'immenso spazio cinese non potrà non avere conseguenze apocalittiche sull'equilibrio vitale del capitalismo nel mondo intero. È chiaro che non sto riecheggiando il balordo slogan del "pericolo giallo", adattandolo ad esigenze antirazziste. Penso solo che l'industrializzazione cioè la liquidazione di ogni traccia di semicolonialismo e semifeudalismo, cioè di ogni traccia di precapitalismo, in Cina non potrà che significare l'infrangersi nel mondo intero della macchina dell'acumulazione capitalistica, luxemburghianamente intesa.

Com'era la Cina al momento della aggressione colonialista? Credo sia opportuno riprodurre all'uopo qualche passaggio dello scritto di Mao Tse-Tung La rivoluzione cinese ed il partito comunista cinese. (12)

Sebbene la Cina sia una grande nazione con un vasto territorio, una immensa popolazione, una lunga storia, una ricca tradizione rivoluzionaria e una splendida eredità storica, tuttavia, dopo il passaggio dal regime schiavistico al regime feudale, essa è rimasta arretrata nel suo sviluppo economico, politico, culturale. Il regime feudale, che ebbe inizio con le dinastie Ciu e Tsi, durò tremila anni.
Il regime economico e politico della Cina nel periodo feudale presentava queste caratteristiche:
1. Predominava un'economia naturale autosufficiente. I contadini producevano non sola prodotti agricoli, ma anche la maggior parte degli articoli dell'artigianato necessari ai loro bisogni. Anche quello che i proprietari fondiari e la nobiltà esigevano dai contadini come rendita fondiaria, era destinato principalmente al consumo, e non allo scambio. Sebbene lo scambio nascesse in quel periodo, tuttavia essa non ebbe una parte decisiva nell'insieme dei rapporti economici.
2. La classe feudale dominante, composta dai proprietari fondiari, dalla nobiltà e dall'imperatore, possedeva la maggior parte della terra, mentre i contadini non possedevano che pochissima terra o non ne possedevano affatto. I contadini coltivavano la terra dei proprietari fondiari, della nobiltà e della famiglia imperiale con strumenti agricoli di loro proprietà, e consegnavano ai padroni una quota del prodotto pari al 40, 50, 60, 70 o addirittura all'80 per cento e anche più. I contadini erano servi della gleba.
3. Non solo i proprietari fondiari, la nobiltà e la famiglia imperiale vivevano sulla rendita estorta ai contadini, ma anche lo Stato, che era lo Stato dei proprietari fondiari, esigeva dei tributi e tasse e imponeva loro corvèes per mantenere un'orda di funzionari governativi e un esercito che venivano usati principalmente per opprimere i contadini stessi.
4. Lo Stato feudale dei proprietari fondiari era l'organo del potere costituito per difendere questo sistema feudale di sfruttamento. Se nel periodo precedente alla dinastia Tsin vi era uno Stato feudale in cui ogni principe aveva singolarmente il governo dispotico del proprio regno, in seguito, dopo che la Cina venne unificata dal primo imperatore della dinastia Tsin, apparve uno Stato feudale nel quale il potere era accentrato nella persona del deposta autocratico, per quanto sopravvivessero ancora in qualche misura regimi feudali indipendenti. Nello Stato feudale l'imperatore regnava al di sopra di tutti: era l'imperatore che investiva i funzionari locali di cariche militari, giudiziarie, finanziarie e annuarie, e si fondava sulla nobiltà terriera come sulla base di tutto il suo governo feudale.
Sotto questo sistema feudale di sfruttamento economico e di oppressione politica, i contadini cinesi condussero, in tutto questo periodo, una vita da schiavi, fatta di miserabile povertà e di inaudite sofferenze... Nella società feudale la contraddizione fondamentale è quella tra i contadini e la classe dei proprietari fondiari. In questa società soltanto i contadini e gli artigiani costituivano le classi principali, produttrici di ricchezza e di cultura.

Segue poi un passaggio che richiama alla memoria una non meno nota posizione di Trotsky sulla rivoluzione cinese. Infatti nei "Tre concetti della rivoluzione russa", egli scrive:

Nella Cina le rivoluzioni portavano i contadini al potere, o piuttosto portavano al potere i capi militari delle insurrezioni contadine. Questo conduceva ogni volta a una nuova ripartizione della terra e alla creazione di una nuova dinastia "contadina", dopo la quale ricominciava da capo: nuove concentrazioni della terra, una nuova aristocrazia, nuova usura, nuovi sollevamenti. Fino a quando la rivoluzione manteneva il suo carattere puramente contadino, la società non si costruiva emergendo da queste rotazioni senza fine e speranza. Tale era la base della storia antica asiatica, inclusa la Russia antica. In Europa, a cominciare dall'inizio del Medio Evo ogni vittoriosa insurrezione contadina non creava un governo contadino ,padrone del potere, ma un Partito di "burger" di sinistra. Più precisamente un'insurrezione contadina si rivelava vittoriosa in quanto riusciva a stabilire la posizione del gruppo rivoluzionario cittadino... (13)

E Mao Tse-Tung:

Ogni sollevazione e ogni guerra contadina di maggiore entità inferse un colpo al regime feudale esistente e accelerò in maggiore o minore misura lo sviluppo delle forze produttive della società. Tuttavia, poichè non esistevano ancora nuove forze produttive, nuovi rapporti di produzione, una nuova forza di classe e un partito politico avanzato, le sollevazioni e le guerre contadine mancavano perciò di una direzione giusta come quella esercitata oggi dal proletariato e dal partito comunista, le rivoluzioni contadine erano adoperate dai proprietari fondiari e dalla nobiltà, durante e dopo ogni movimento rivoluzionario, come strumenti per effettuare cambiamenti dinastici. Perciò, sebbene dopo ogni grande lotta contadina si verificasse qualche progresso sociale, i rapporti economici e feudali e il regime politico feudale restavano fondamenta immutati. (14)

Ciò che importa annotare, in polemica col razzismo, è che la storia umana prosegue con leggi uniformi, al di sopra di ogni differenza di razza. Il Medioevo cinese è durato più a lungo per le condizioni di isolamento continentale della Cina, ma in sostanza ha avuto uno svolgimento identico a quello europeo. Non è questione di razza. Il feudalismo ed il medioevo cinesi sono finiti quando è sorto nelle città cinesi una nuova classe, il proletariato, che ha impedito, come del resto avvenne in Europa, che la rivoluzione antifeudale e anticoloniale dei contadini andasse perduta. Nel secolo XX il proletariato, secondo la classica posizione bolscevica, ha dovuto e deve assumersi, nelle società che il regime coloniale ha mantenuto forzosamente nell'immobilismo, la .guida della doppia rivoluzione antifeudale e antiborghese. Tale è stato il destino della Russia zarista, tale quello della Cina. Ma mentre la rivoluzione antifeudale è stata, ed è condotta, energicamente, la rivoluzione socialista ha segnato il passo. Ciò è accaduto perchè il proletariato russo e cinese si è mosso da solo, mentre nel resto del mondo il proletariato rimaneva invischiato nella rete dell'opportunismo. Del resto la Cina odierna, come dimostra il fatto che continua a chiamare se stessa "Republica popolare", riconosce di non essere nel socialismo.

Solo negli ultimi cento anni si ebbero reali trasformazioni - prosegue Mao Tse-Tung. Abbiamo già spiegato come per tremila anni la società cinese sia rimasta una società feudale. Ma l'odierna società cinese [lo scritto risale al 1939-40 - ndr] è tuttora una società completamente feudale? No, la Cina è cambiata. Dal tempo della guerra dell'oppio del 1840, la società cinese si è trasformata gradualmente in una società semicoloniale e semifeudale. Dopo gli incidenti del 18 settembre 1931, quando gli imperialisti giapponesi diedero inizio all'invasione armata della Cina, la società cinese si è ulteriormente trasformata in una società coloniale, semicoloniale e semifeudale. Vogliamo ora spiegare il processo di questa trasformazione... Poichè la società feudale cinese sviluppò un'economia mercantile e maturò in tal modo in se stessa l'embrione del capitalismo, la Cina avrebbe potuto evolversi lentamente in una società capitalistica, anche senza l'influenza del capitalismo straniero.
La penetrazione del capitalismo straniero accelerò questo sviluppo. Il capitalismo straniero ebbe una parte importante nel disgregare l'economia cinese [giustezza della posizione luxemburghiana!], perchè da un lato distrusse le basi dell'economia, naturale autarchica e mandò in frantumi le sue industrie artigiane, sia urbane che contadine, e dall'altro accelerò lo sviluppo dell'economia mercantile nelle città e nella campagna.
Tutto ciò, oltre a disgregare la base dell'economia feudale, generò anche determinate condizioni e possibilità oggettive per lo sviluppo della produzione capitalistica in Cina ; infatti la distribuzione dell'economia naturale creò uno sbocco per i prodotti del capitalismo, mentre la rovina di un gran numero di contadini e di artigiani creò per esso un mercato del lavoro.

La giustezza della posizione della Luxemburg viene documentata da quanto segue:

In realtà, già sessanta anni fa, nella seconda metà del secolo XIX, sotto la spinta del capitalismo straniero, e in seguito a certi cedimenti della struttura economica feudale, taluni mercanti proprietari fondiari e burocratici cominciarono a investire i loro capitali in imprese industraili di tipo moderno. Circa quaranta anni fa tra la fine del secolo XIX e l'inizio del secolo XX, si cominciò a sviluppare in forme ancora rudimentali un capitalismo nazionale cinese. Quindi venti anni fa, durante la prima guerra imperialista mondiale, l'industria nazionale cinese, specialmente tessile e molitoria, si sviluppò ulteriormente grazie alla circostanza che i paesi imperialisti d'Europa e d'America, impegnati nella guerra, avevano allentato la loro oppressione sulla Cina.

Tali passi sono sufficienti a dimostrare, per il nostro assunto antirazzista, che all'origine del progresso dell'Europa e della arretratezza e immobilità dell'Asia, nel periodo che va dalla fine del secolo XV alla rivoluzione anticoloniale del sec. XX, agirono cause obiettive di ordine economico, sociale e anche naturale, non di ordine biologico come pretende chi spiega la storia con i caratteri somatici e psichici delle razze. Che le leggi dello sviluppo economico e sociale siano indipendenti dalle leggi biologiche che regolano la dinamica delle razze, sta a dimostrarlo tutta la storia dei nuovi Stati dell'Asia, dell'Africa, dell'America Latina. In ognuno di essi la penetrazione del capitalismo straniero agì come i catalizzatori che accelerano le reazioni chimiche, in quanto impresse una velocità maggiore al processo di formazione del capitalismo locale, e quindi della moderna civiltà industriale, che i razzisti considerano una impresa esclusiva della razza bianca, non imitabile da altre razze. Poichè non è possibile ricostruire la storia di tutti i nuovi Stati sorti dalla rivoluzione anticoloniale, ci occuperemo, dopo la Cina, dell'India. Marx aveva individuato, l'abbiamo visto, nel capitale-danaro, differenziato nella forma usuraia e commerciale, la premessa del superamento del medioevo, che sul terreno economico si manifesta come trasformazione del capitale-denaro in capitale industriale. Abbiamo visto, che nella Cina, sottoposta al colonialismo straniero, si era operata tale trasformazione. Lo stesso accade in India.

Dal libro "Storia della dominazione europea in Asia" dell'indiano Kavalam M. Panikkar si ricavano interessanti notizie, circa gli effetti determinati dalla dominazione coloniale nelle strutture economiche precapitalistiche delle nazioni asiatiche. Per i nostri scopi, ci serviremo solo di quelle riguardanti l'India. (15)

Lo spostamento del potere economico e politico dalle zone interne alle coste. e lo sviluppo e l'ascesa di una classe commerciale alleata degli interessi commerciali stranieri sono, nella storia indiana, come in quella cinese, le conseguenze più notevoli del fatto che il commercio con gli Europei avesse acquistato un'importanza nazionale. Attraverso tutte queste trasformazioni, dal primo monopolio del commercio delle spezie all'esportazione di capitali compiuta su vasta scala nei tre decenni precedenti la prima guerra mondiale, il dominio dell'economia mercantile sulla vita della gente asiatica è ciò che da' a tutto il periodo la sua fisionomia.

pag. 20

Uno dei temi principali, se non il principale, trattati dall'autore è appunto:

l'imposizione di un'economia mercantile ai popoli asiatici e la conseguente, graduale rivoluzione di quasi tutti gli aspetti della loro vita.

La Luxemburg, fornendo un esempio superbo di storiografia marxista descrive nella sua opera le tappe di questa imposizione dall'esterno dell'economia mercantile, per quel che riguarda ad es. l'Algeria e l'Occidente degli Stati Uniti. Ciò che leggiamo nelle opere degli storici successivi della dominazione coloniale non è altro che una applicazione estensiva della metodologia marxista-luxemburghiana, naturalmente se si tratta di storici autentici, e non di volgari apologeti. La tentazione di riprodurre altri brani della interessante opera dello storico indiano è forte, ma il tempo e lo spazio a mia disposizione non sono illimitati. Mi riprometto di riprendere in altra occasione il discorso che ho abbozzato, forse con eccessiva fretta in questo articolo. Tuttavia riporto altri due brani del Panikkar, prima di concludere.

L'estendersi all'interno della Cina dell'attività economica degli stranieri ebbe l'inattesa conseguenza [per il Foreign Office - ndr] di generare una potente classe commerciale cinese [la classe dei "compradores" - ndr]. Una situazione analoga era venuta a crearsi in India fin dall'inizio, e, una volta consolidata l'autorità britannica, la distribuzione dei prodotti inglesi era passata nelle mani dei mercanti indiani. Il sorgere di questa potente classe commerciale, non solo nelle zone costiere [della Cina e dell'India - ndr] ma anche lungo tutta la valle dello Yang-Tse, provocò una rivoluzione sociale di notevole significato.

p. 194

A questo punto si potrebbero studiare le cause del diverso sviluppo che oggi si registra nella Cina e nell'India, che pure hanno subito, durante il regime coloniale e semicoloniale, trasformazioni sociali parallele. Oggi infatti mentre l'economia indiana boccheggia ed il Piano quinquennale denuncia un fallimento quasi totale, la Cina si è ripresa dalla crisi economica provocata dalle trasformazioni sociali determinate dalla introduzione delle Comuni popolari, che hanno praticamente liquidata la proprietà privata della terra, ed appare in netta ripresa. Dovremmo intrattenerci sul fatto che la maggiore velocità di sviluppo della Cina si può spiegare solo con la soppressione del potere economico delle classi dei compradores e dei proprietari fondiari, che attanagliavano il villaggio cinese, rivolgimento che ancora non si è avuto nell'India di Nerhu. Ma tale argomento ci porterebbe fuori dal nostro tema, che è la ricerca delle cause del declino della ideologia razzista. Ma molto aderente al tema è invece una questione cui acutamente K.M. Panikkar accenna nella introduzione della sua opera.

Il fallimento finale del tentativo europeo di conquistare e dominare l'Asia - egli scrive - dimostra i limiti dela potenza marittima ,ed è una lezione che nessuno può ignorare. Hilaire Belloc, discutendo sul fallimento delle Crociate in Palestina, sosteneva che quello era "un esempio di una cosa che nella storia militare si ripete, continuamente cioè, che illudersi di basare le operazioni belliche sulla potenza navale non può portare che alla disillusione finale. Nei grandi duelli decisivi della storia, chi all'inizio è fortissimo sul mare è poi vinto da chi è forte sulla terra; sia che la potenza si chiami Cartagine, o Atene, o la flotta fenicia del Gran Re, a lungo andare ha la peggio, e la potenza continentale vince.

Ecco un altro mito che ha alimentato per cento anni il fanatismo razzista e che oggi la rivoluzione anticoloniale fa crollare. Nella lotta tra la potenza navale e la potenza continentale vince alla lunga quest'ultima. Certamente i fatti dell'ultimo ventennio non sono tali da smentire la tesi che Panikkar prende a prestito da Hilaire Belloc, ad onta del fatto che costui è uno storico reazionario. Gli Stati Uniti sono riusciti facilmente a battere il Giappone, potenza navale come loro, ma contro la Cina, potenza continentale per eccellenza, hanno dovuto battere in ritirata. Ad uno ad uno tutti i miti di cui si pasceva l'ideologia razzista della borghesia imperialistica occidentale si sfasciano miseramente. E sul razzismo trionfa la storiografia marxista, che spiega i fatti sociali, secondo il materialismo storico.

Conclusione

Noi stiamo vivendo il periodo più interessante di tutta la storia umana. Mai come oggi la "ruota della storia" ha marciato più in fretta. Mai come oggi i continenti hanno partecipato tutti insieme al travaglio sociale. Fino a vent'anni fa, si poteva dire clic era la razza bianca a fare la storia. Infatti i "popoli" di colore rinserrati nelle maglie di ferro degli imperi coloniali e sottoposti alla feroce repressione dell'aggressore straniero erano oggetto, non soggetto della storia. E in tale situazione storica il razzismo poteva ritenersi al sicuro dalle smentite. Ma dopo il fallimento totale della dominazione coloniale della borghesia capitalistica occidentale, il razzismo ha mostrato di essere solo uno strumento transitorio della dominazione di classe della borghesia. Il suo carattere pseudoscientifico e ciarlatanesco è stato dimostrato, non nei gabinetti degli antropologi e dei genetisti, ma dalle trasformazioni sociali e dai mutamenti economici, politici e culturali che sono stati resi possibili dalla rivoluzione anticoloniale. L'Asia ha dimostrato, nella persona della Cina soprattutto, di "sapere fare" come l'Europa. L'America Latina e l'Africa non mancheranno di provare, nella misura che sapranno rintuzzare i ritorni controffensivi del neocolonialismo, di possedere, ad onta delle diversità somatiche razziali, la capacità di edificare la civiltà industriale.

Il fucilato - 1963 - Giovanni Paganin
Il fucilato - 1963 - Giovanni Paganin

Ma c'è di più. Il passaggio dal feudalesimo al capitalismo si accompagna in Europa ad una spaventosa erogazione di violenza contro i popoli colonizzati e ad un disgustoso sfruttamento economico che spoglia le colonie e ne trasferisce la ricchezza nella madrepatria. La rivoluzione antifeudale ed anticoloniale non può evidentemente imitare i metodi della accumulazione primitiva che formano la triste gloria del capitalismo europeo. Pertanto, la liquidazione del precapitalismo non può essere effettuata più secondo lo schema europeo, cioè non può basarsi sulla impresa privata, ma deve ricorrere alle forme più radicali del capitalismo di Stato, che supera ed elimina la proprietà privata dei mezzi di produzione. In tali condizioni, vengono a mancare i naturali intermediari sociali che assicuravano, come abbiamo visto, il controllo straniero dell'economia coloniale e semicoloniale, e cioè le classi dei "compradores" e dei proprietari fondiari. Ciò non potrà mancare di avere, a lungo andare, effetti gravissimi sul meccanismo della esportazione dei capitali dalle metropoli imperialistiche e quindi su quello della riproduzione allargata capitalistica. La fine della "guerra fredda" coincide con un incremento enorme degli scambi commerciali tra le metropoli imperialistiche e i paesi che in Europa e in Asia stanno liquidando i residui precapitalistici o stanno addirittura conducendo la rivoluzione antifeudale. Le politiche architettate dagli statisti americani e europei, ora per respingere indietro, ora per contenere il movimento generale anticoloniale - tentativo a cui si aggiungono oggi anche i kruscioviani passati alla inimicizia verso il regime cinese - sono fallite l'una dopo l'altra, proprio perche la politica borghese è dettata in ogni momento dalle esigenze dell'accumulazione. Perciò accade che gli stessi Stati imperialisti, mediante gli scambi commerciali e i prestiti, aiutano lo sforzo rivoluzionario dei regimi anticolonialisti. Non potrebbero fare altrimenti. Lo imporle con la stessa necessarietà di una legge naturale, la legge dell'accumulazione capitalistica che, come insegna la dottrina luxemburghiana, non vive se non alla condizione di avere un ambiente precapitalistico in cui realizzare plusvalore. Ma la rivoluzione anticoloniale per sua natura è destinata a eliminare ogni residuo precapitalistico. Non è detto che la borghesia capitalistica non arrivi a scorgere il baratro che le si para davanti. Per chi ha orecchio esercitato, il grido di angoscia della borghesia, a mala pena coperto dalle ostentazioni di fiducia, è percettibile in ogni momento. Da quando è saltato il sistema coloniale la borghesia vive alla giornata. Ha dovuto persino smettere di godersi il lusso della superbia, gettando via il razzismo e improvvisando nuove ideologie basate sulla "parità" delle razze e dei popoli che hanno nell'ONU una ipocrita tribuna. Ma la crisi finale è inevitabile. Il capitalismo ha giocato tutte le sue carte. Tocca al proletariato occidentale alzarsi in piedi e dare il colpo di grazia al suo nemico storico. Il declino del razzismo non può che significare declino del capitalismo.

Gennaro Fabbrocino

(1) Karl Marx, Il Capitale, Libro I, vol. 3, Cap. XXIV, par. 6" Genesi del capitalista industriale. Editori Riuniti.

(2) Ibidem.

(3) Rosa Luxemburg, L'Accumulazione del Capitale, Parte III, Cap. IX, par. 2 "Introduzione della economia mercantile". Ediz. Minuziano.

(4) Ibidem, par. 1.

(5) Lenin, Imperialismo, ultima fase del capitalismo - Cap VII - Ediz. Minuziano.

(6) Ibidem, Cap. IV.

(7) Id.

(8) Id.

(9) R. Luxemburg, op. cit. Parte III, cap. XII, par. 4 “Tendenza storica dell'accumulazione del capitale”.

(10) Op. cit. Libro II, Cap. I.

(11) R. Biasutti, Razze e popoli della Terra, Vol. I pag. 318-19 Ediz. UTET.

(12) Mao Tse-Tung - Scritti scelti, Vol. 3 - La rivoluzione cinese ed il partito comunista, pag. 90 e segg.

(13) L. Trotsky, Stalin, pag. 580 Ediz. Garzanti.

(14) Mao Tse-Tung, op. cit.

(15) Kavalam M. Panikkar - Storia della dominazione europea in Asia, Ed. Einaudi.

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Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.