Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe - 5a parte

Il quadro dell'arduo problema della degenerazione del potere proletario ha questi grandi tratti. In un vasto paese la classe operaia ha conquistato il potere sulla linea storica della insurrezione armata, e dell'annientamento di ogni influenza delle classi sconfitte sotto il peso della dittatura di classe. Ma negli altri paesi del mondo la classe operaia o non ha avuto la forza di iniziare l'attacco rivoluzionario, o è stata schiacciata nel suo tentativo. In questi paesi il potere resta alla borghesia, la produzione e lo scambio procedono e seguiteranno a procedere nel quadro capitalistico, che domina tutti i rapporti del mercato mondiale.

Nel paese della rivoluzione la dittatura tiene ben fermo sul piano politico e militare contro ogni tentativo di contrattacco e liquida le guerre civili in pochi e vittoriosi anni, né il capitalismo estero impianta un'azione generale per andarla a debellare.

Si verifica però un processo di degenerazione interna del nuovo apparato politico e amministrativo, e si vede formarsi una cerchia privilegiata che monopolizza i benefici e le cariche della gerarchia burocratica, pur seguitando a conclamare di rappresentare e difendere gli interessi delle grandi masse lavoratrici.

Nei paesi esteri il movimento operaio rivoluzionario strettamente collegato a quella stessa gerarchia politica, non solo non realizza altri vittoriosi abbattimenti degli stati borghesi, ma va falsando e spegnendo in altri obiettivi non rivoluzionari il senso della propria azione.

Sorge dinanzi a questo tremendo problema della storia della lotta di classe il grave interrogativo: come si poteva o si potrebbe impedire questa doppia rovina? Il quesito è in verità mal posto; secondo il sano metodo deterministico si tratta invece di individuare i veri caratteri e le leggi proprie di questo processo degenerativo, per stabilire quando e in che cosa si potranno riconoscere le condizioni che permettano di attendere e di seguire un processo rivoluzionario preservato da quella patologica reversione.

Non stiamo qui ribattendo la posizione di coloro che contestano la esistenza del fatto degenerativo e che sostengono esservi in Russia il vero e pieno potere rivoluzionario operaio, la evoluzione reale delle forme economiche verso il comunismo, ed un coordinamento con i partiti esteri del proletariato efficiente per condurre all'abbattimento del capitalismo mondiale.

Neppure svolgiamo qui lo studio del lato economico-sociale del problema, che va impostato su una attenta analisi del meccanismo russo di produzione e distribuzione e dei suoi rapporti reali con le esteriori economie capitalistiche.

Qui, al termine dell'esposizione storica sui problemi della violenza e del potere, rispondiamo a quelle obiezioni critiche secondo le quali la degenerazione in. senso burocratico oppressivo è una conseguenza diretta dell'avere trasgredito e violato i canoni e i criteri della democrazia elettiva.

La obiezione ha due aspetti, ma il meno radicale è il più insidioso. Il primo aspetto è quello prettamente borghese che si collega direttamente a tutta la campagna mondiale di diffamazione della rivoluzione russa, condotta fino dagli anni della lotta da tutti i liberali, i democratici e i social-democratici del mondo, terrorizzati tanto dall'impiego, che dalla magnifica, coraggiosa proclamazione teorica del metodo della dittatura rivoluzionaria.

Dopo quanto abbiamo ricordato in questi scritti consideriamo superato tale aspetto della lamentazione democratica generica, sebbene la lotta contro di esso resti sempre di primaria importanza, oggi che appunto la rivendicazione conformista di quella che Lenin chiamò “la democrazia in generale” - e che nei testi fondamentali comunisti rappresenta l'opposto dialettico, la negazione antipolare della posizione rivoluzionaria - viene sbandierata sconciamente proprio da quei partiti che si proclamano collegati al regime vigente in Russia. Questo regime tuttavia, pur facendo all'interno pericolose colpevoli concessioni nel diritto formale al meccanismo democratico borghese, non solo resta ma diviene sempre più un regime strettamente totalitario e di polizia.

Non si insisterà quindi mai abbastanza sulla critica della democrazia in tutte le forme storiche finora note; essa è sempre stata un modo interno di organizzarsi di una vecchia o nuova classe di oppressori, una vecchia o nuova tecnica contingente dei rapporti interni tra elementi e gruppi sfruttatori; e, nelle specifiche rivoluzioni borghesi, la vera atmosfera vitale necessaria al prorompere rigoglioso del capitalismo.

Le vecchie democrazie basate su principi elettivi, assemblee, parlamenti concili, sotto la menzognera proclamazione di voler attuare il bene di tutti e la universalità di conquiste spirituali o materiali, servivano in effetti ad imporre e conservare lo sfruttamento sulle folle di fanatici, di schiavi, di ilioti, di popoli soggiogati perchè meno progrediti o bellicosi, di tutta una massa assente dal tempio, dal senato, dalla polis, dai comizi.

Nelle molteplici banali teorie a sfondo egualitario noi leggiamo la verità obiettiva del compromesso, dell'accordo e della congiura tra i componenti della minoranza privilegiata ai danni delle classi inferiori. Non affatto diversa è la nostra valutazione della moderna forma democratica basata sulle sacre carte delle rivoluzioni britannica, americana e francese. Essa è una tecnica delle migliori condizioni politiche perchè il capitalismo possa opprimere e sfruttare i lavoratori, sostituendo la vecchia rete degli oppressori feudali da cui esso stesso era soffocato, ma sempre allo scopo di sfruttare, in modo nuovo e diverso, ma non minore né attenuato.

È poi fondamentale a tal riguardo la interpretazione della presente fase totalitaria dell'epoca borghese, in cui le forme parlamentari, assolto quel loro compito, tendono a sparire, e l'atmosfera del moderno capitalismo diviene antiliberale e antidemocratica. Da questa corretta valutazione nasce la conseguenza tattica che ogni rivendicazione per i ritorni alla iniziale democrazia borghese è anticlassista e reazionaria, e perfino “antiprogressista”.


Preme ritornare al secondo aspetto della obiezione a sfondo democratico la quale non si ispira più ai dogmi di una democrazia interclassista e superclassista, ma in sostanza dice questo: sta bene attuare la dittatura e superare ogni scrupolo nel reprimere i diritti della vinta minoranza borghese; ma una volta messi i borghesi fuori legge si è avuta la degenerazione dello Stato perchè “entro” la vincitrice classe proletaria si è violata la regola rappresentativa. Se si fosse attuato e rispettato un pieno sistema elettivo maggioritario degli organi proletari di base - consigli, sindacati, partito politico - lasciando ogni decisione all'esito numerico delle consultazioni “veramente libere”, si sarebbe automaticamente tenuta la vera via rivoluzionaria e si sarebbero scongiurati ogni degenerazione ed ogni pericolo di abusivi predominii sopraffattori della diffamatissima “cricca staliniana”.

Alla base di questo modo di vedere così diffuso sta l'opinione che ciascun individuo, per il solo fatto di appartenere ad una classe economica, ossia di trovarsi in determinati rapporti comuni a tanti altri agli effetti della produzione, sia parimenti predisposto ad acquistare una chiara “coscienza” di classe, ossia acquisti un insieme di opinioni e di intendimenti che riflettono gli interessi, la via storica e l'avvenire della sua classe. Questa è maniera errata d'intendere il determinismo marxista, perchè la formazione della coscienza è fatto bensì collegato alle situazioni economiche di base, ma che le segue a grande distanza di tempo ed ha un campo d'azione enormemente più ristretto di quelle. Ad esempio, i borghesi, commercianti, banchieri o piccoli fabbricanti esistettero per molti secoli ed ebbero funzioni economiche fondamentali prima che si sviluppasse la coscienza storica della classe borghese, ma ebbero psicologia di servitori e complici dei signori feudali, mentre lentamente nel loro seno si formava una tendenza ed una ideologia rivoluzionarie e minoranze audaci si andavano organizzando per tentare la conquista del potere.

Avvenuta questa nelle grandi rivoluzioni democratiche, se anche alcuni aristocratici avevano lottato per la rivoluzione, molti borghesi conservarono non solo un modo di pensare ma anche una linea di azione contraria agli interessi generali del loro ceto e militarono e lottarono coi partiti controrivoluzionari.

Similmente, l'opinione e la coscienza dell'operaio si formano bensì sotto l'influenza delle sue condizioni di lavoro e di vita materiale, ma anche nell'ambiente di tutta la tradizionale ideologia conservatrice di cui lo circonda il mondo capitalistico.

Le influenze in questo senso vanno diventando, nella fase attuale, sempre più potenti e non v'è bisogno di ricordare di quali risorse disponga non solo la pianificazione della propaganda con le tecniche moderne, ma lo stesso intervento centralizzato nella vita economica con l'adozione delle infinite misure riformistiche e di economia controllata, che tentano di solleticare la soddisfazione di interessi secondari dei lavoratori e molte volte realizzano veramente influenze concrete sul loro trattamento.

I vecchi regimi aristocratici e feudali, mentre si appagavano, per la massa bruta e incolta, dell'organizzazione chiesastica come pianificatrice di ideologie servili, agirono soprattutto mediante il monopolio della scuola e della cultura sulla nascente borghesia, e questa dovette sostenere una grande lotta ideologica con complicate alternative, che la letteratura presenta come lotta per la libertà del pensiero, mentre si trattava della soprastruttura ad un aspro conflitto tra due forze organizzate per sopraffarsi a vicenda.

Oggi il capitalismo mondiale, oltre la chiesa e la scuola, dispone di mille altre forme di manipolazione ideologica e di formazione della cosiddetta coscienza, e ha qualitativamente e quantitativamente superato i vecchi regimi nella fabbricazione degli inganni non solo nel senso di diffondere le dottrine e le mistiche più assurde, ma anche in quello pregiudiziale di informare la massa degli uomini in maniera totalmente falsificata sugli innumerevoli accadimenti della complicata vita moderna.

Se malgrado questo formidabile armamentario della classe a noi nemica abbiamo sempre ritenuto che si sarebbe formata nel seno della classe oppressa una ideologia e una dottrina antagonistiche, acquistanti sempre maggior chiarezza e diffusione man mano che lo stesso svolgimento economico acutizzava il conflitto delle forze produttive, e parallelamente al diffondersi delle aspre lotte fra gli interessi di classe, tale prospettiva non si fondava sull'argomento che, essendo i proletari più numerosi dei borghesi, il cumulo delle loro opinioni e concezioni individuali avrebbe prevalso col suo peso su quelle degli avversari.

Quella chiarezza e quella coscienza noi l'abbiamo sempre veduta realizzarsi non in un aggregato amorfo di persone isolate, ma in organizzazioni sorgenti dal seno della massa indifferenziata, in inquadramenti e schieramenti di minoranze decise che, collegate tra loro da paese a paese e nella continuità storica generale del movimento, assumevano la funzione direttiva della lotta delle masse, mentre queste nella loro maggioranza vi partecipavano per la determinazione delle spinte e dei moventi economici assai prima di aver raggiunta la medesima forza e chiarezza di opinioni cristallizzate nel partito dirigente.

Ecco perchè ogni consultazione, anche quando fosse possibile, della generalità della massa operaia, fatta col bruto criterio numerico, non è da escludersi che possa dare un risultato controrivoluzionario anche in situazioni utili per una avanzata e una lotta guidate dalla minoranza di avanguardia. Né una lotta generale politica che si chiuda con la vittoriosa conquista del potere è sufficiente in modo immediato per eliminare tutte quelle complicate influenze tradizionali delle ideologie borghesi. Queste non solo sopravvivono in tutta la struttura sociale dello stesso paese della vittoria rivoluzionaria, ma seguitano ad agire da oltre frontiere con l'imponente spiegamento di tutti i moderni mezzi cui abbiamo accennato.

Lo stesso grande vantaggio di spezzare con la macchina statale tutte le impalcature di pianificazione ideologica del passato, come la chiesa la scuola e innumeri associazioni, e di prendere il controllo centrale di tutti i grandi mezzi di diffusione delle opinioni: stampa, radio, teatro ecc. non basta, se non si completa con la condizione economico-sociale di poter procedere rapidamente e con successi positivi nello sradicamento delle forme borghesi di produzione. Lenin sapeva benissimo che la necessità di dover lasciar prolungare e in certo senso divenir più rigogliosa la gestione familiare della piccola azienda contadina significava lasciare un campo di successo alle influenze della psicologia egoistica e mercantile di tipo borghese ed alla propaganda disfattista del pope, al gioco insomma di infinite superstizioni controrivoluzionarie, ma lo stato dei rapporti delle forze non lasciava altra scelta, e solo conservando forza e saldezza al potere armato del proletariato industriale si poteva conciliare l'utilizzazione dello slancio rivoluzionario degli alleati contadini contro i vincoli del regime terriero feudale, con la difesa dai pericoli di una possibile jacquerie di contadiname semiarricchito, come avvenne nelle guerre civili con Denikin e Kolciak.

La falsa posizione di quelli che vogliono applicare la democrazia aritmetica nel seno della massa lavoratrice o di suoi dati organismi risale quindi ad una falsa impostazione dei termini del determinismo marxista.

Già distinguemmo in altro di questi scritti fra la tesi errata che in ciascuna epoca storica contrappone a classi con opposti interessi gruppi che confessano opposte teorie, e la tesi esatta che in ciascuna epoca il sistema dottrinale costruito sugli interessi della classe dominante tende vantaggiosamente ad essere professato dalla classe dominata. Chi è servo nel corpo è servo nello spirito, ed il vecchio inganno borghese è appunto di voler cominciare dalla liberazione degli spiriti, che non conduce a nulla e non costa nulla ai beneficati dal privilegio sociale, mentre è dalla liberazione dei corpi che bisogna cominciare.

Così è posizione errata, a proposito dell'abusato problema della coscienza, quella che stabilisce questa seriazione del determinismo: cause economiche influenti; coscienza di classe; azione di classe. La seriazione è invece l'altra: cause economiche determinanti, azione di classe, coscienza di classe. La coscienza viene alla fine e, in maniera generale, dopo la vittoria decisiva. La necessità economica affascia la pressione e lo sforzo di tutti quelli che sono oppressi e soffocati dalle forme cristallizzate di un dato sistema produttivo; essi reagiscono, si dibattono, si avventano contro quei limiti, nel corso di questo scontro e di questa battaglia ne vanno sempre più comprendendo le condizioni generali le leggi e i principii, e si forma una chiara visione del programma della classe lottante.

Da decenni e decenni ci si risponde che vogliamo una rivoluzione di incoscienti.

Potremmo rispondere che, purché la rivoluzione travolga l'ammasso di infamie costituito dal regime borghese e purché si spezzi il cerchio formidabile delle sue istituzioni, che premono e strozzano la vita delle masse produttive, a noi non dispiace affatto che i colpi siano vibrati a fondo anche da chi non è ancora cosciente dello sbocco della lotta.

Ma invece noi marxisti di sinistra abbiamo sempre nettamente e vigorosamente rivendicato l'importanza della parte dottrinale del movimento ed anzi abbiamo costantemente denunciato l'assenza di principii e il tradimento di essi da parte degli opportunisti della destra. Abbiamo sempre ricordato la validità della impostazione marxista che considera il proletariato addirittura come l'erede della classica filosofia moderna. Questa enunciazione voleva dire che, parallelamente alla lotta di borghesi usurai colonizzatori o mercanti, si erano avuti nella storia l'assalto del metodo critico alle ideologie dell'autorità per diritto divino e del dogma, ed una rivoluzione compiuta nella filosofia naturale in apparenza prima che nella società. Ciò avveniva perchè tra le forme da infrangere affinché le forze produttive capitalistiche si affermassero nel prepotere del loro svolgimento non ultima era la impalcatura delle confessioni scolastiche e teocratiche del medioevo. Ma divenuta conservatrice dopo la sua vittoria politica e sociale, la borghesia non aveva alcun interesse a che l'arma della critica si affondasse, come aveva fatto nelle menzogne dei sistemi cosmogonici cristiani, anche nel problema ben altrimenti pressante ed umano della struttura sociale. Tale secondo compito nel procedere della coscienza teoretica della società veniva assunto da una nuova classe, spinta dal suo interesse a denudare le menzogne del sistema della civiltà borghese, e tale nuova classe, nella potenza della visione dialettica di Marx, era quella dei “vili meccanici” tenuti dal pregiudizio medioevale fuori dalla cultura, di quelli che la rivoluzione liberale aveva finto di elevare ad una uguaglianza giuridica, era la classe dei lavoratori manuali della grande industria, incolti e quasi ignoranti.

La chiave del nostro sistema sta appunto nel fatto che la sede di tale chiarificazione non la collochiamo nel cerchio angusto della persona individua, e che sappiamo benissimo che nel caso generale gli elementi della massa lanciata in lotta non potranno possedere nel loro cervello i dati della visione teorica generale. Tale condizione sarebbe puramente illusoria e controrivoluzionaria. Quel compito è affidato invece, non a schiere o gruppi di individui superiori scesi a beneficare l'umanità, ma ad un organismo, ad un macchinismo differenziatosi nel seno della massa utilizzando gli elementi individuali come cellule che compongono i tessuti, ed elevandoli ad una funzione che è resa possibile solo da questo complesso di relazioni; questo organismo, questo sistema, questo complesso di elementi ciascuno con funzioni proprie, analogamente all'organismo animale cui concorrono sistemi complicatissimi di tessuti, di reti, di vasi e così via, è l'organismo di classe, il partito, che in certo modo determina la classe di fronte a se stessa e la rende capace di svolgere la sua storia.

Tutto questo processo si riflette in modo diversissimo nei vari individui che appartengono statisticamente alla classe, sicché, per dirla in modo più concreto, non ci stupiremo - in una data congiuntura - di trovare l'operaio rivoluzionario e cosciente, quello ancora vittima totale dell'influenza politica conservatrice e magari schierato nelle file avversarie, quello seguace delle versioni opportunistiche del movimento ecc.

E non avremmo alcuna conclusione da trarre in modo automatico da una consultazione statistica se fosse seriamente possibile - che ci dicesse come si dividono numericamente tra queste svariate posizioni i membri della classe operaia.


Ne consegue che, pur essendo un fatto purtroppo bene assodato che il partito di classe, prima e dopo la conquista del potere, è suscettibile di degenerazione dalla sua funzione di strumento rivoluzionario, nella ricerca delle cause di questo gravissimo fenomeno di patologia sociale e dei rimedi che possono essere atti a combatterlo noi non prestiamo alcun credito alla risorsa di cercare, per le determinazioni e gli indirizzi del partito, una garanzia od un controllo che si fondi sostanzialmente su consultazioni di tipo elettivo svolte o nell'insieme dei militanti del partito stesso o nella più larga cerchia degli operai appartenenti a sindacati economici, ad organismi di fabbrica od anche a organi di tipo politico rappresentativo di classe, quali i soviet o consigli operai.

Praticamente, la storia del movimento dimostra che una simile risorsa non ha mai condotto a nulla di buono ne scongiurate le rovinose vittorie dell'opportunismo. In tutti i conflitti di tendenza di cui furono teatro prima della guerra 1914 i partiti socialisti tradizionali, contro i gruppi dei marxisti radicali di sinistra i revisionisti della destra adoperarono sempre l'argomento ch'essi pretendevano di essere in relazione con larghi strati della classe lavoratrice più che non lo fossero i ristretti circoli di dirigenza del partito politico.

L'opportunismo faceva infatti soprattutto leva sui capi parlamentari, i quali trasgredivano la direttiva politica di partito e rivendicavano una autonomia da impiegare per la collaborazione coi partiti borghesi allegando di essere stati designati da tutti gli elettori proletari, molte volte più numerosi degli operai inscritti al partito che ne eleggevano la direzione politica. Parallelamente, anche i capi dei sindacati, sviluppando sul piano economico la stessa prassi di collaborazione che i parlamentari seguivano sul piano politico, recalcitravano alla disciplina del partito di classe sostenendo di rappresentare tutti i lavoratori economicamente organizzati, assai più numerosi di quelli militanti nel partito. Gli uni e gli altri, parlamentari possibilisti e bonzi sindacali, nel correre all'alleanza col capitalismo, che culminò nella loro adesione alla prima guerra imperialista, non esitarono a deridere, in nome del loro ostentato operaismo o laburismo, i gruppi che svolgevano la sana politica di classe nei quadri del partito e a tacciarli di intellettuali e perfino, talvolta, di non proletari.

Che il ricorso ad una rappresentanza diretta del lavoratore puro e semplice non conduca a soluzioni di sinistra e ad una sana preservazione dell'indirizzo rivoluzionario lo dimostrò anche la vicenda della scuola del sindacalismo soreliano, che in un certo momento parve a taluni costituire il vero contraltare alla degenerazione dei partiti socialdemocratici lanciati sulla via della rinuncia all'azione diretta e alla violenza di classe. I gruppi marxisti che vennero poi a confluire nella ricostituzione leninista della III Internazionale giustamente criticarono e condannarono questo indirizzo apparentemente estremista, accusandone l'abbandono di un criterio unitario di classe capace di superare la ristrettezza delle singole categorie e dei contingenti conflitti limitati a richieste economiche, che, pur nell'impiego di mezzi fisicamente violenti di lotta, conducevano a rinnegare la posizione rivoluzionaria marxista per cui ogni lotta di classe è lotta politica, e l'organo indispensabile ne è il partito

E la giustezza della polemica teorica fu confermata dal fatto che anche il sindacalismo rivoluzionario naufragò nella crisi di guerra e passò nelle file del socialpatriottismo dei vari paesi.

Quanto alla esperienza che sulla questione di cui ci occupiamo può invece trarsi dall'azione di partito all'indomani della vittoria rivoluzionaria, sono i fatti più salienti della rivoluzione russa che apportano la maggior luce.

Noi contestiamo la posizione secondo cui la rovinosa degenerazione della politica rivoluzionaria leninista fino all'attuale indirizzo staliniano sia derivata all'inizio dall'eccessiva preminenza del partito e del suo comitato centrale sulle altre associazioni operaie di classe; contestiamo l'illusoria opinione che tutto il processo degenerativo avrebbe potuto essere contenuto qualora si fosse ricorso, per la designazione di gerarchie o per la decisione di importanti svolti della politica del regime proletario, a consultazioni elettorali delle varie “basi”. Tale problema non può essere affrontato senza connetterlo alla funzione economico-sociale dei vari organismi nel processo di distruzione dell'economia tradizionale e di costruzione della nuova.

I sindacati costituiscono indubbiamente ed hanno costituito per un lungo periodo un terreno fondamentale di lotta per lo sviluppo delle energie rivoluzionarie del proletariato. Ma ciò è stato possibile con successo solo quando il partito di classe ha seriamente lavorato in mezzo ad essi per trasportare il punto di applicazione dello sforzo dai piccoli obiettivi contingenti alla finalità generale di classe. Il sindacato di categoria, anche evolventesi in sindacato d'industria, trova dei limiti nella sua dinamica in quanto possono esistere differenze d'interessi tra le varie professioni o raggruppamenti di lavoratori. E limiti anche maggiori trova alla propria azione, man mano che l'atteggiamento della società e dello stato capitalistico percorre le tre successive fasi del divieto dell'associazione professionale e dello sciopero, della tolleranza delle associazioni sindacali autonome, della conquista e dell'imprigionamento di esse nel sistema borghese.

Ma neppure al sindacato in regime di affermata dittatura proletaria può pensarsi come ad un organismo che rappresenti in modo primordiale e stabilizzato gli interessi dei lavoratori. Possono anche in questa fase sociale sopravvivere conflitti di interessi tra professioni della classe lavoratrice; ma il fatto fondamentale è che i lavoratori non hanno ragione di servirsi del sindacato che fino a quando, in determinati gruppi della produzione, il potere operaio sia costretto a tollerare a titolo temporaneo la presenza dei datori di lavoro, mentre, man mano che col procedere dello svolgimento socialista costoro scompaiono, il sindacato perde il contenuto della propria azione. Il nostro concetto del socialismo non è la sostituzione del padrone Stato al padrone privato, e se in fase di transizione il rapporto fosse questo, nel supremo interesse della politica rivoluzionaria non si potrebbe ammettere per principio che i lavoratori sindacati abbiano sempre ragione nel premere economicamente a carico dello Stato datore di lavoro. Senza proseguire in questa importante analisi, resta spiegato perchè noi comunisti di sinistra non ammettiamo che la massa sindacata, con una sua consultazione maggioritaria, possa essere condotta ad influire sulla politica rivoluzionaria.

Passando ai consigli di fabbrica o di azienda, ricordiamo che questa forma di organizzazione economica, affacciata in primo tempo come molto più radicale di quella del sindacato, va perdendo sempre più le sue pretese di dinamismo rivoluzionario, essendo ormai un'accezione comune a tutte le correnti politiche, comprese quelle fasciste. La concezione che vedeva nel consiglio di azienda un organo partecipante prima al controllo, poi alla gestione della produzione, e perfino capace di conquistare questa in toto, azienda per azienda, si è svelata come prettamente collaborazionista, e come un'altra via, non meno atta del vecchio sindacalismo a impedire l'incanalamento delle masse nella direzione della grande lotta unitaria e centrale per il potere. La polemica relativa ebbe un grande riflesso nei giovani partiti comunisti quando i bolscevichi russi furono costretti a prendere misure essenziali e talvolta drastiche per lottare contro la tendenza degli operai a rendere autonoma la gestione tecnica ed economica della fabbrica in cui lavoravano, cosa che non solo impediva l'avvio di un vero piano socialista ma minacciò di danni gravissimi l'efficienza dell'apparato produttivo su cui i controrivoluzionari tentavano di speculare. Infatti, più ancora del sindacato, il consiglio di azienda può agire come esponente di interessi molto ristretti e suscettibili di venire in contrasto con quelli generali di classe.

Anche il consiglio d'azienda non è d'altra parte un organismo basilare e definitivo del regime operaio. Quando in dati settori della produzione e della circolazione si sarà attuata una vera economia comunista, quando cioè si sarà andati molto oltre la semplice espulsione del padrone dall'industria e l'amministrazione dell'azienda da parte dello Stato, sarà proprio il tipo di economia per azienda che dovrà sparire. Superato l'aspetto mercantilistico della produzione, l'impianto locale non sarà che un nodo tecnico della grande rete generale guidata razionalmente da soluzioni unitarie, l'azienda non avrà più bilanci di entrata e di uscita e quindi non sarà più tale, poiché al tempo stesso il produttore non sarà più un salariato. Il consiglio di azienda, come il sindacato, ha quindi dei limiti naturali di funzionamento che gli impediscono di essere fino alla fine il vero terreno di cultura della preparazione di classe che rende i proletari disposti e capaci a lottare fino al raggiungimento integrale dei loro massimi scopi, e per tal motivo non possono questi organismi economici essere un'istanza di appello per controllare se il partito che detiene il potere dello Stato abbia o meno deviato da quella fondamentale linea storica.

Rimane da trattare del nuovo organismo rivelato dalla rivoluzione di ottobre: i consigli degli operai e dei contadini e, in un primo tempo, anche dei soldati.

Si afferma che questa rete rappresenti un nuovo tipo di costituzionalità proletaria contrapposto a quello tradizionale dei poteri borghesi. La rete dei consigli, partendo dal più piccolo villaggio per giungere a strati orizzontali successivi fino al vertice della dirigenza dello Stato, oltre ad avere per caratteristica la esclusione di ogni componente delle vecchie classi abbienti, formando quindi la manifestazione organizzata della dittatura proletaria, ha l'altra caratteristica di far coincidere nei suoi gangli tutti i poteri, rappresentativo, esecutivo ed anche, in teoria, giudiziario. Si tratterebbe quindi di un perfetto ingranaggio di democrazia infra classista, la cui scoperta verrebbe ad offuscare i tradizionali parlamenti del liberalismo borghese.

Ma da quando il socialismo è uscito dalla fase utopistica, ogni marxista sa che non è l'invenzione di una formula costituzionale che basta a distinguere i grandi tipi sociali e le grandi epoche storiche. Le strutture costituzionali sono transitori riflessi dei rapporti delle forze, e non derivano da principii universali cui possa farsi risalire il modo immanente di organizzare lo Stato.

L'importanza dei Consigli - i quali alla loro base sono effettivamente organi di classe e non, come si credette, combinazioni di rappresentanze corporative o professionali, e quindi non sono affetti dalle ristrettezze delle associazioni a sfondo prettamente economico - sta per noi soprattutto nell’essere organismi di combattimento, e la loro interpretazione non la cerchiamo in modelli fissi di struttura ma nella storia reale del reale loro procedere.

Fu quindi stadio fondamentale della rivoluzione quello in cui, dopo la elezione dell'Assemblea costituente a tipo democratico, i Consigli si levarono contro di essa come il suo contrapposto dialettico, e il potere bolscevico determinò la dispersione con la forza dell'Assemblea parlamentare realizzando la geniale parola d’ordine storica: “Tutto il potere ai Soviet”. Ma tutto questo non basta a farci accettare l'opinione che, costituita una simile rappresentanza di classe, a parte il fluttuare in tutti i sensi della sua composizione rappresentativa - di cui non possiamo qui seguire le vicende - sia lecito affermare che in qualunque momento e svolto della difficile lotta condotta dalla rivoluzione all'interno e all'esterno si disponga del comodo e facile mezzo, atto a risolvere ogni questione e perfino ad evitare la degenerazione controrivoluzionaria, costituito da una consultazione od elezione maggioritaria dei Consigli.

Per la stessa complessità del ciclo che anche questo organismo descrive (ciclo che, anche nella ipotesi più ottimistica, deve concludersi con la sua sparizione insieme al dissolvimento dello Stato), bisogna ammettere che l'ingranaggio dei Soviet, come è suscettibile di essere poderoso strumento rivoluzionario, così può cadere sotto influenze controrivoluzionarie, ed in conclusione non crediamo a nessuna immunizzazione costituzionale contro tale pericolo, che appunto sta soltanto in relazione con lo svolgimento dei rapporti interni e mondiali delle forze sociali.

Potrebbe qui venirci l'obiezione che noi, volendo stabilire la preminenza del partito politico rivoluzionario, comprendente solo una minoranza della classe, su tutte le altre forme organizzative, sembriamo pensare che il partito sia eterno, ossia debba sopravvivere allo stesso sgonfiamento engelsiano dello Stato.

Non vogliamo affrontare qui la discussione sulla trasformazione del partito in un semplice organo futuro di indagine e di studio sociale, che coincida coi grandi organismi di ricerca scientifica della società nuova, analogamente al fatto che nella definizione marxista lo Stato, nello sparire, si trasforma in effetti in una grande amministrazione tecnica sempre più razionale e sempre meno integrata da forme coatte.

Il carattere distintivo che noi vediamo nel partito deriva proprio dalla sua natura organica: non vi si accede per una posizione “costituzionale” nel quadro dell'economia o della società; non si è automaticamente militanti di partito in quanto si sia proletari o elettori o cittadini o altro.

Si aderisce al partito, direbbero i giuristi, per libera iniziativa individuale. Vi si aderisce, diciamo noi marxisti, sempre per un fatto di determinazione nascente nei rapporti dell'ambiente sociale, ma per un fatto che si può collegare nel modo più generale ai caratteri più universali del partito di classe, alla sua presenza in tutte le parti del mondo abitato, alla sua composizione di elementi di tutte le categorie e aziende in cui siano lavoratori e perfino in principio di non lavoratori, alla continuità di un suo compito attraverso stadi successivi di propaganda di organizzazione, di combattimento, di conquista, di costruzione di un nuovo assetto È quindi, tra gli organi proletari, il partito politico quello meno legato a quei limiti di struttura e di funzione nei cui interstizi meglio possono farsi strada le influenze anticlassiste, i germi che determinano la malattia dell'opportunismo. E poichè, come più volte abbiamo premesso, tale pericolo esiste anche per il partito, la conclusione è che noi non ne cerchiamo la difesa nella subordinazione del partito stesso ad altri organismi della classe ch'esso rappresenta, subordinazione invocata molto spesso in malafede, talvolta per l'ingenua suggestione esercitata dal fatto del maggior numero di lavoratori che appartengono a tali organismi.


Il nostro modo d'interpretare la questione si estende anche alla famosa esigenza della democrazia interna del partito, secondo la quale gli errori delle direzioni centrali del partito (di cui ammettiamo di aver avuto purtroppo numerosissimi e disastrosi esempi) si evitano o si rimediano ricorrendo, al solito, alla conta numerica dei pareri dei militanti di base.

Non imputiamo cioè le degenerazioni che si sono verificate nel partito comunista all'aver lasciato scarsa voce in capitolo alle assemblee e ai congressi dei militanti rispetto alle iniziative del centro.

Una sopraffazione da parte del centro sulla base in senso controrivoluzionario vi è stata in molti svolti storici; la si è raggiunta perfino con l'impiego dei mezzi che offriva la macchina statale, fino ai più feroci; ma tutto ciò, più che l'origine, é stata l'inevitabile manifestazione del corrompersi del partito, del suo cedere alla forza delle influenze controrivoluzionarie.

La posizione della sinistra comunista italiana su questa che potremmo chiamare la “questione delle guarentigie rivoluzionarie” è anzitutto che garanzie costituzionali o contrattuali non ve ne possono essere, sebbene nella natura del partito, a differenza degli altri organismi studiati, vi sia la caratteristica d'essere un organismo contrattuale, usando il termine non nel senso dei legulei e nemmeno in quello di J.J. Rousseau. Alla base del rapporto fra militante e partito vi è un impegno; di tale impegno noi abbiamo una concezione che, per liberarci dell'antipatico termine di contrattuale, possiamo definire semplicemente dialettica. Il rapporto è duplice, costituisce un doppio flusso a sensi inversi, dal centro alla base e dalla base al centro; rispondendo alla buona funzionalità di questo rapporto dialettico l'azione indirizzata dal centro, vi risponderanno le sane reazioni della base.

Il problema quindi della famosa disciplina consiste nel porre ai militanti di base un sistema di limiti che sia l'intelligente riflesso dei limiti posti all'azione dei capi. Abbiamo perciò sempre sostenuto che questi non debbono avere la facoltà in importanti svolti della congiuntura politica di scoprire, inventare e propinare pretesi nuovi principii, nuove formule, nuove norme per l'azione del partito. È nella storia di questi colpi a sorpresa che si compendia la storia vergognosa dei tradimenti dell'opportunismo. Quando questa crisi scoppia, appunto perchè il partito non è un organismo immediato e automatico avvengono le lotte interne, le divisioni in tendenze, le fratture, che sono in tal caso un processo utile come la febbre che libera l'organismo dalla malattia, ma che tuttavia “costituzionalmente” non possiamo ammettere, incoraggiare o tollerare.

Per evitare quindi che il partito cada nelle crisi di opportunismo o debba necessariamente reagirvi col frazionismo non esistono regolamenti o ricette. Vi è però l'esperienza della lotta proletaria di tanti decenni che ci permette di individuare talune condizioni, la cui ricerca, la cui difesa, la cui realizzazione devono essere instancabile compito del nostro movimento. Ne indicheremo a conclusione le principali:

  1. Il partito deve difendere ed affermare la massima chiarezza e continuità nella dottrina comunista quale si è venuta svolgendo nelle sue successive applicazioni agli sviluppi della storia, e non deve consentire proclamazioni di principio in contrasto anche parziale coi suoi cardini teoretici.
  2. Il partito deve in ogni situazione storica proclamare apertamente l'integrale contenuto del suo programma quanto alle attuazioni economiche, sociali e politiche, e soprattutto in ordine alla questione del potere, della sua conquista con la forza armata, del suo esercizio con la dittatura.
    Le dittature che degenerano nel privilegio di una ristretta cerchia di burocrati e di pretoriani sono state sempre precedute da proclamazioni ideologiche ipocritamente mascherate sotto formule di natura popolaresca a sfondo ora democratico ora nazionale, e dalla pretesa di avere dietro di sé la totalità delle masse popolari, mentre il partito rivoluzionario non esita a dichiarare l'intenzione di aggredire lo Stato e le sue istituzioni e di tenere la classe vinta sotto il peso dispotico della dittatura anche quando ammette che solo una minoranza avanzata della classe oppressa è giunta al punto di comprendere queste esigenze di lotta.
    “I comunisti -- dice il Manifestò -- disdegnano di nascondere i loro scopi”. Coloro che vantano di raggiungerli tenendoli abilmente coperti sono soltanto i rinnegatori del comunismo.
  3. Il partito deve attuare uno stretto rigore di organizzazione nel senso che non accetta di ingrandirsi attraverso compromessi con gruppi o gruppetti o peggio ancora di fare mercati fra la conquista di adesioni alla base e concessioni a pretesi capi e dirigenti.
  4. Il partito deve lottare per una chiara comprensione storica del senso antagonista della lotta. I comunisti rivendicano l'iniziativa dell'assalto a tutto un mondo di ordinamenti e di tradizioni, sanno di costituire essi un pericolo per tutti i privilegiati, e chiamano le masse alla lotta per l'offensiva e non per la difensiva contro pretesi pericoli di perdere millantati vantaggi e progressi, conquistati nel mondo capitalistico. I comunisti non danno in affitto e prestito il loro partito per correre ai ripari nella difesa di cause non loro e di obbiettivi non proletari come la libertà, la patria, la democrazia ed altre simili menzogne.%%“I proletari sanno di non aver da perdere nella lotta altro che le loro catene”.
  5. I comunisti rinunciano a tutta quella rosa dì espedienti tattici che furono invocati con la pretesa di accelerare il cristallizzarsi dell'adesione di larghi strati delle masse intorno al programma rivoluzionario. Questi espedienti sono il compromesso politico, l'alleanza con altri partiti, il fronte unico, le varie formule circa lo Stato usate come surrogato della dittatura proletaria - governo operaio e contadino, governo popolare, democrazia progressiva.
    I comunisti ravvisano storicamente una delle principali condizioni del dissolversi del movimento proletario e del regime comunista sovietico proprio nell'impiego di questi mezzi tattici, e considerano coloro che deplorano la lue opportunista del movimento staliniano e nello stesso tempo propugnano quell'armamentario tattico come nemici più pericolosi degli stalinisti medesimi.
A. Orso

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Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.