LA BARBARIE INFINITA. LE CAUSE CHE HANNO PORTATO ALLA CRISI DEL MEDIO ORIENTE

Una delle domande che gli osservatori più accorti si sono posti dopo il tragico 7 ottobre e per tutto il periodo della devastante risposta bellica di Israele era ed è: “come è possibile che i servizi segreti di Tel Aviv non sapessero dell'attacco di Hamas?”. E’ immaginabile che il Mossad, lo Shin Bet ,che passano per essere i servizi segreti più efficienti al mondo, in grado di organizzare omicidi mirati ai capi militari di Hamas e degli esponenti politici degli Hezbollah, siano rimasti completamente all’oscuro di tutto? Come si spiega che questi Servizi siano persino riusciti ad uccidere il capo di Hamas a Teheran con una operazione chirurgica, sapendo in anticipo dove, quando e come fosse possibile portare a compimento una impresa che ha dell’impossibile? Per non parlare di un'efficienza meticolosa che è riuscita a manomettere, prima della consegna, una fornitura di cerca-persone acquistata da Hamas, per sfuggire alla individuazione dei suoi militanti. In particolare il Mossad ha da sempre monitorato, giorno e notte, gli spostamenti militari e politici dei suoi nemici nella Striscia di Gaza come nella Cisgiordania, pronto ad intervenire al minimo sospetto di un attentato suicida, figuriamoci di un attentato di quella portata che, verosimilmente, ha avuto mesi se non almeno un anno di gestazione.

La scioccante risposta è semplice: il Mossad e lo Shin Bet erano perfettamente a conoscenza di un sicuro attacco di Hamas ai danni di Israele. Supposizioni, dietrologia da strapazzo? No, ci sono le prove documentali che, una volta rese pubbliche, sono state minimizzate, ridotte a poco più di vaghe ipotesi infondate per poi metterle nel dimenticatoio, sottraendole alla stampa internazionale impedendone la circolazione.

Secondo una informativa di una trasmittente, la Channel 12 News, una fonte dello Shin Bet, operava da tempo nel territorio della Striscia di Gaza e, a tempo debito, stese un resoconto in base al quale denunciava che Hamas stava pianificando un attacco di notevole portata agli inizi di ottobre. Queste informazione arrivarono direttamente ad un agente superiore dello Shin Bet che, ovviamente, è rimasto nell’ombra. Ciò un paio di mesi prima dell’ottobre, in cui si specificava anche che l’attentato si sarebbe verificato nella settimana successiva allo Yom Kippur.

A novembre del 2023, l‘autorevole New York Times aveva lanciato la notizia che i responsabili del governo israeliano sapevano perfettamente che Hamas stava organizzando un poderoso attacco e che questa conoscenza risaliva quasi ad un anno prima del fatidico 7 ottobre. Con la stessa autorevolezza, il NYT cita un documento di 40 pagine che, pur non indicando il giorno preciso dell’attentato, specificava nel dettaglio come evitare le strutture difensive di Israele e quale doveva essere la tipologia dell’attacco . A posteriori, si è potuto verificare come in questa informativa si descriveva minuziosamente quello che poi è tragicamente avvenuto. Si parlava di un attacco dal mare con gommoni e barchini, dal cielo con deltaplani e con l’aiuto di droni, via terra con moto leggere e qualche pick up, con l'aggiunta di alcuni camion per portare nella Striscia più prigionieri possibile. Inconfutabile è la informativa del NYT che rivela l’esistenza di una circostanziata documentazione di 40 pagine chiamata “Jerico Wall” venuta in possesso dei Servizi israeliani.

Dieci giorni prima dell’evento, il capo dei Servizi egiziani Abbas Kamel, secondo più voci attendibili mai smentite dall’interessato, avrebbe avvisato i Servizi israeliani che, di lì a pochi giorni, ci sarebbe stato un attacco da parte di militanti di Hamas. Tenuto conto del contrasto tra il governo egiziano e tutte le forme di integralismo, dai “Fratelli musulmani” in giù , nemici per antonomasia di al Sisi, la notizia, che peraltro aveva fatto indisturbata il giro del mondo senza una qualsiasi reazione da parte dei Servizi israeliani, non poteva essere che veritiera. Non solo, ma lo stesso Netanyahu sarebbe stato personalmente informato.

Ovviamente sia lo Shin Bet che Netanyahu si sono ben guardati di prenderli in considerazione, perché disturbava i loro piani. Il primo ha ammesso di esserne al corrente ma di ritenere che il referente era poco affidabile e che un piano del genere non poteva essere nel bagaglio tecnico-militare di Hamas. per cui hanno lasciato perdere! Il secondo, dopo il 7 di ottobre, ha spudoratamente negato di saperne qualcosa e di non essere mai stato avvisato, per evitare di essere ritenuto responsabile dell’attentato stesso e della cattura di 220 ostaggi. Come dire che se lo Shin Bet avesse preso in giusta considerazione le informative, avrebbe informato Netanyahu e agito preventivamente e tutto quello che è successo dopo non ci sarebbe stato. Ma le cose sono andate volutamente molto diversamente.

E allora perché, pur essendo a conoscenza dell’attacco, Israele ha lasciato fare? Anche in questo caso la risposta è semplice quanto cinicamente tragica. Un simile proditorio attacco contro civili inermi, massacrati come animali da macello, avrebbe presentato su di un piatto d’argento la possibilità a Netanyahu di mettere in atto una azione militare di “legittima” ritorsione già programmata: quella di riorganizzare i rapporti di forza in Medio Oriente a proprio vantaggio, senza che l’opinione pubblica mondiale, Stati Uniti per primi, potessero ostacolarla. Sul piatto d’argento c’era da giocare la vincente carta della “legittima difesa” dei sacri confini nazionali contro la cieca barbarie di Hamas, contro i suoi alleati sciiti, gli Hezbollah libanesi, gli Houthi yemeniti, i gruppi jihadisti presenti in Siria e Iraq. Il tutto in chiave anti-iraniana, perché da sempre nemico numero uno di Israele. Nemico sia per la supremazia politico-economica dell’area, sia perché Teheran ha intensificato, da qualche decennio, i finanziamenti e l'approvvigionamento di armi a tutta la galassia sciita, più i sunniti di Hamas. Comunque le rappresaglie erano già cominciate nei mesi precedenti sia da una parte che dall’altra.

Ma la madre di tutte le cause dello spaventoso episodio bellico nella Striscia di Gaza e in Libano rimane l’evento del 7 ottobre.

LE VERE CAUSE DELLA CRISI MEDIO ORIENTALE

Se è vero che da sempre il mondo arabo ha rifiutato l’esistenza dello Stato di Israele e predicato la sua distruzione (rifiuto della risoluzione 181 dell'ONU sulla nascita dello Stato sionista e le 4 guerre arabo-israeliane), è altrettanto vero che in tempi recenti molti Stati arabi ne hanno accettato di fatto e giuridicamente l’esistenza e l’invalicabilità dei suoi confini, primo fra tutti l’Egitto. Il risultato è stato che l’obiettivo della cancellazione di Israele dalla cartina geografica del mondo arabo è rimasto bagaglio politico dei nazionalismi jihadisti, primo fra tutti quello di Hamas. Per correttezza va però detto che pochi anni fa (2018), nel nuovo Statuto, non si accenna più esplicitamente alla distruzione dello Stato di Israele, anche se, nei fatti, la si continua a perseguire. In compenso Netanyahu, alla televisione sui canali nazionali riuniti, dopo il 7 ottobre in piena guerra contro Hamas, cartina alla mano, ha ribadito che Israele (Eretz Israel) va dalla sponda destra del fiume Giordano al mar Mediterraneo, lasciando zero spazio all'ipotesi di due popoli e due Stati o di qualsiasi altro soluzione negoziale. In pratica, i due nazionalismi, quello sionista e quello jihadista, predicano la stessa cosa e si comportano di conseguenza.

Mentre la vigliacca azione contro inermi civili (valenza 10) aveva per Hamas gli scopi di mostrare di essere l’unica forza in grado di punire Israele, e non la corrotta ANP di Abu Mazen, di gratificare lo sponsor iraniano e di sollevare il mondo arabo contro il suo nemico mortale, la tremenda risposta di Israele (valenza 1000) aveva ben altri scopi che andavano oltre la punizione di Hamas. Infatti, ha colpito la popolazione civile, ha allargato il fronte della guerra al Libano e alla Siria. Ha bloccato gli aiuti umanitari ai palestinesi di Gaza, non ha concesso alla Mezza Luna Rossa di soccorrere le vittime. Ha persino colpito volontariamente e ripetutamente le postazioni Unifil, perché non intralcino la progressione del suo disegno e non ci siano testimoni internazionali scomodi. Questo per di arrivare all’obiettivo superiore di un riordino dei rapporti di forza nel Medio Oriente dopo il 7 0ttobre. Riordino sulla base dei punti elencati sotto, non dichiarati pubblicamente ma perseguiti con la più feroce determinazione. Al riguardo, val la pena citare una dichiarazione congiunta di medici volontari americani nella Striscia, secondo la quale i morti tra la popolazione civile supererebbero le 90 mila unità, di cui un terzo di bambini, oggetto, tra l'altro, dei cecchini dell’esercito israeliano (fonte ISPI). .

Ecco i punti in questione:

1) Il primo e più importante punto è quello di creare le condizioni di fatto affinché si arrivi all’esodo (fuga) dei palestinesi da Gaza e dalla Cisgiordania, se non totale, almeno quantitativamente rilevante, e lasciare solo una piccola “riserva indiana” di facile controllo in terra di Palestina. L’auspicato esodo prevederebbe la penisola del Sinai come terra di accoglimento, ma al momento il progetto sembra essere di difficile attuazione per le reticenze dell’Egitto, che teme la presenza dello jihadismo in generale e quello dei Fratelli musulmani in particolare. Al riguardo al Sisi ha rifiutato un congruo pacchetto di miliardi di dollari offerto dal governo israeliano, giudicando il rischio nettamente superiore al presunto vantaggio rappresentato dall’ammontare dell’offerta economica. Per gli abitanti della Cisgiordania continua giornalmente l’erosione di territori e la distruzione delle abitazioni e dei campi coltivati con la violenza omicida dei coloni spalleggiati da guarnigioni dell’esercito. Assieme al Sinai, ci sarebbero, come luogo di “trasferimento”, la Giordania e la Siria che accoglie già centinaia di migliaia di profughi. Come le cose andranno a finire è tutto da verificare, ma il tentativo c'è e il governo israeliano ci sta lavorando pesantemente. Va da sé che un simile disegno, al di là delle effettive possibilità di realizzazione, non viene sbandierato ma nascosto dietro il “diritto di Israele di difendersi”.

2) Il secondo obiettivo, corollario del primo, è quello di annientare completamente tutti gli alleati di Hamas presenti nell’area (hashtag: non facciamo prigionieri). Ovviamente nel mirino ci sono gli Hezbollah palestinesi, al Nusra in Siria e analoghe organizzazioni in Iraq che, per il momento, rimane fuori dalle mire di Israele. Ci sono poi tensioni con il Qatar, che finanzia Hamas e con la Turchia, il cui presidente, in più occasioni, si è espresso in modo pesantissimo nei confronti di Netanyahu, definendolo “il nuovo Hitler”. Questi due ultimi paesi, che pur intendono giocare un ruolo determinante nel Mediterraneo contro le ambizioni egemoniche di Tel Aviv, non fanno parte della lista nera di Israele per il solo motivo che il Qatar è geograficamente lontano e ampliare ulteriormente il ventaglio dei teatri di guerra sarebbe un errore madornale. Con la Turchia non se ne parla nemmeno: uno perché non finanzia Hamas, due perché militarmente è la più forte potenza militare presente nel Mediterraneo dopo gli Usa. Per cui Israele si “limita” a colpire, oltre Hamas, il Libano con intensi bombardamenti su Beirut e sulla valle della Bekaa, ovvero i due maggiori tentacoli della repubblica degli ayatollah che, come si diceva, è il nemico più importante di Israele. Per perseguire tutti questi obiettivi, Netanyahu non solo ha deciso di uccidere Nasrallah il giorno dopo che si era pronunciato a favore di un cessate fuoco per ragioni umanitarie, ma si è spinto fino colpire postazioni ONU posizionate lungo la linea blu che separa il Libano da Israele, con tanto di ferimento di una decina di militari.

3) Corollario del punto 2, colpire duramente l’Iran, distruggere le sue centrali nucleari, anche se l'arricchimento dell’uranio necessario a costruire ordigni atomici è solo al 60%, quando sarebbe necessario che fosse al 90%. Sarebbe una azione preventiva che nelle prospettive di Israele deve essere necessariamente fatta per la sua sicurezza e per mettere definitivamente in ginocchio il governo di Teheran. Il piano prevederebbe anche la distruzione delle strutture petrolifere (pozzi, pipeline ecc.), dei centri militari missilistici e dei depositi di armi. Al momento Tel Aviv ha ricevuto “l’indicazione” da Washington di limitarsi all’annientamento delle strutture militari, ma non di quelle relative all'arricchimento dell’uranio e, tanto meno, di quelle petrolifere. Secondo gli analisti del Pentagono, l'Iran deve essere messo in ginocchio economicamente e militarmente, ma con avvedutezza. Per la costruzione della bomba atomica c’è ancora molto tempo, mentre per il petrolio iraniano, la cui esportazione va per il 90% in Cina, è meglio soprassedere per non svegliare “il cane che dorme” o che fa finta di dormire. L’attuale Amministrazione americana, come quelle a venire, sanno che i conti con la Cina si dovranno fare e saranno conti pesanti, da mettere in crisi sia il mondo orientale che quello occidentale. Ma vogliono essere loro a stabilire tempi e modi, per cui, al momento, tutti fermi aspettano gli sviluppi della crisi medio-orientale e il preannunciato attacco israeliano all’Iran, tenendo in debita considerazione il fatto che, pur non intervenendo in prima persona nel conflitto tra Hamas-Libano e Israele, Russia, Cina e Turchia e, con una valenza più bassa, anche Qatar, India e Brasile si sono pronunciati a favore dei palestinesi. Le bocce sono ferme, ma la partita deve ancora cominciare.

4) Non da ultimo c'è l’annoso problema del gas-petrolio, emerso a partire dal 1990. Una questione vitale sia per i palestinesi che per Israele e consiste nel possesso, gestione e commercializzazione dei bacini gas-petroliferi offshore a 36 chilometri dalle coste della Striscia di Gaza. I due giacimenti che, per comodità di discorso, chiameremo Marin 1 e Marin 2, hanno riserve accertate per 35 miliardi di metri cubi di gas e con una capacità tecnica di estrazione di 1,5 miliardi di metri cubi l’anno ma, pur appartenendo ai territori palestinesi, Gaza non ne può usufruire per il veto di Israele. In pratica, i giacimenti sono rimasti parzialmente inutilizzati sino al 2016, quando la gestione è stata presa da una company terza, la Shell, che ha resistito sino al 2018 per poi ritirarsi per i contrasti con Israele. Stando alla ricostruzione della vertenza, secondo gli osservatori arabi, tra Hamas e Israele, prima del 7 ottobre, ci sarebbero stati contatti per tentare di addivenire ad una soluzione della questione. Anche in questo caso l’obiettivo non è stato raggiunto per le pretese e i veti israeliani. Tenuto conto dell’importanza economica e strategica dei due giacimenti, non è assolutamente escluso che la questione gas-petrolio abbia avuto un ruolo sia nell’attacco del 7 ottobre, sia nella violenta risposta di Israele. Due mesi prima dell’ottobre '23, Hamas aveva dichiarato che “il gas di Gaza appartiene a tutti i palestinesi di Gaza (notare l’esclusione della ANP di Abu Mazen) e solo loro hanno il diritto di investirvi….L’occupazione israeliana non può imporre le sue richieste e restrizioni alle nostre capacità e alla nostra ricchezza naturale” (fonte ISPI). Dello stesso tenore sono state le dichiarazioni di Hezbollah libanese (fonte il notiziario The Cradler), che ha “minacciato Israele di guerra se al Libano non fosse stato permesso di sfruttare la sua quota del giacimento di gas di Karish” posto ai confini con il territorio israeliano. Certamente, sono valsi altri problemi a scatenare la guerra in Medio oriente, problemi che abbiamo tentato di individuare, ma altrettanto certamente il tragico episodio del 7 ottobre e la violentissima reazione di Tel Aviv hanno avuto anche nella questione energetica una loro valida ragione d’essere. Entrare in possesso esclusivo di questi giacimenti è senza dubbio un vantaggio inestimabile.

Tutto questo in attesa dell’attacco all’Iran che arriverà sicuramente e che dovrebbe scattare entro in 5 novembre, ovvero prima delle elezioni americane. Data non simbolica ma strategica. Biden ha promesso di togliere gli aiuti militari a Tel Aviv se non consentirà alle autorità sanitarie e di soccorso alimentare, ferme dal primo ottobre, di entrare nella Striscia, se non cesserà di colpire le strutture ONU, se non la smetterà di perseguire la totale distruzione di Gaza e del Libano del sud. Anche se le minacce di Biden, fino a ieri, si sono rivelate fasulle e prive di deterrenza, dopo la lunga telefonata con Biden Netanyahu ha dovuto accettare che i bombardamenti sull’Iran devono riguardare solo le strutture militari e non quelle nucleari e petrolifere. Nelle speranze di Netanyahu c’è l’aspettativa che il prossimo presidente possa essere, qualunque esso sia, ancora più accondiscendente nei confronti dei progetti di Tel Aviv. Nel frattempo, l’esercito israeliano continua la sua opera di totale distruzione per creare uno “status quo” dal quale, poi, sarebbe difficile tornare indietro per tutti gli attori del Medio oriente, direttamente o indirettamente coinvolti, Usa compresi. Nemmeno la morte di Sinwar, dopo quelle di Haniyeh e Nasrallah, fermerà Israele perché l’obiettivo di fondo resta l’Iran. Per di più, e per la prima volta, un piccolo contingente di soldati israeliani (130) ha ufficialmente dichiarato di non voler più combattere per il loro governo perché ha ritenuto che “questa guerra non è più una guerra di difesa ma un massacro di civili”. Poca cosa, ma anche se non imboccherà mai la strada del disfattismo rivoluzionario, è un segnale importante contro la guerra e la sua infinita barbarie che dovrebbe essere imitato da tutti i soldati e proletari chiamati a combattere per cause e interessi che non sono i loro. Nella fattispecie l’esempio vale per i soldati di Israele ma anche per quelli palestinesi. Non spararsi gli uni contro gli altri, ma rivolgere le armi contro quelli che li mandano al massacro.

fd

17/10/24

Venerdì, October 18, 2024