Medio-oriente DINAMISMO MULTIPOLARE DEL CAPITALE

In questo articolo, prendiamo in particolare esame uno degli elementi all'origine del massacro senza fine in corso in Palestina. Nell'attacco a sorpresa di Hamas contro Israele gli obiettivi di carattere interno e internazionale sono strettamente intrecciati. Per il partito jihadista palestinese i punti fondamentali alla base delle tragiche vicende del 7 ottobre sono:

La rimozione dell'Autorità Nazionale Palestinese (ANP) di Abu Mazen, un organismo corrotto e incompetente, colluso con lo Stato israeliano e ormai fortemente screditato dalla popolazione palestinese, che ha dato ad Hamas la leadership esclusiva nella lotta contro lo Stato di Israele.

Mettere in crisi il percorso aperto dal Patto di Abramo del 2020, che vede (o vedeva) negoziati in corso tra Israele e l'Arabia Saudita, a cui partecipa anche l'ANP. Dopo il Patto di Abramo tra paesi sunniti e Israele, Hamas si è sentita isolata; la paura era quella di non ricevere più gli aiuti finanziari di Riad e del Qatar.

Più in generale, l'obiettivo di Hamas è quello di coinvolgere gli stati arabi in una sorta di santa alleanza contro Israele, contrapponendo un fronte arabo (Egitto, Siria e Libano) al Patto di Abramo tra Israele e alcuni paesi arabi (Emirati e Bahrein) e, appunto, in prospettiva l'Arabia Saudita.

In via subordinata, qualora il piano non funzionasse, la seconda opzione sarebbe quella di tentare una unione tra i vari jihadismi di stampo sciita e sunnita per una lotta definitiva contro il sionismo di Israele e contro tutti quegli stati arabi che jihadisti non sono e che, quindi, non hanno il diritto di esistere.

Non da ultimo impedire a Israele di continuare a tenere sotto embargo i giacimenti di gas a 30 chilometri dalle coste di Gaza, che Il governo israeliano ha messo in stato di non funzionamento dal 2007, anno in cui Hamas ha vinto le elezioni ed estromesso da Gaza l’ANP. Israele è autosufficiente da un un punto di vista energetico, gode dello sfruttamento di giacimenti offshore come quello di Leviathan, di Tamar e di Karish, ma quello di Gas Marin è pur sempre un bocconcino prelibato. Mentre il petrolio lo importa dall'Azerbaigian.

Fra le complicazioni che sovrastano la mappa energetica mondiale, i conflitti mediorientali si impongono con la minaccia di una ulteriore sospensione dei rifornimenti di gas e petrolio. Si sconvolgerebbero i già incerti equilibri geopolitici presenti in altre parti del Medio Oriente, con Tunisia, Algeria e Libia che si avvicinano ad Hamas assieme ad un ambiguo Qatar, che con il suo gas liquido attira già alcuni Stati europei che cercano di stabilire con lui rapporti più… cordiali.

Quello mediorientale si presenta sempre più come un garbuglio dove a questioni etnico religiose o territoriali, si sovrappongono colossali interessi economici coinvolgenti vari Stati e riguardanti diritti di esplorazione e sfruttamento delle risorse naturali nell’area, a cominciare dal gas. Basti ricordare il giacimento egiziano di Zohr, tra i più grandi del Mediterraneo, e quello israeliano di Leviathan, che ha fatto di Israele un paese esportatore di gas in Giordania e in Egitto.

Al momento, Israele si riterrebbe autosufficiente per ciò che riguarda il gas. Va pur detto che gli “accordi di Abramo” sono stati un tentativo per arrivare ad una normalizzazione delle relazioni israeliane con i grandi produttori arabi di energia, avvicinandoli al blocco economico occidentale. Quello medio-orientale è infatti un quadrante geo-politico importante per i rifornimenti energetici all’Europa e all’Asia. Molto redditizie sarebbero poi le concessioni trattabili sia con Tel Aviv che con le capitali arabe: sono in gioco forniture di gas per decine di miliardi di metri cubi, soprattutto a favore di una UE sempre più affamata di quella merce. E così Israele è diventata un importante partner strategico per la sicurezza energetica, fino alla firma recente di un accordo trilaterale (Ue, Egitto e Israele) che impegna Tel Aviv a vendere all’Ue il gas dei giacimenti offshore di Leviathan e Tamar, passando dai terminal Gol egiziani.

L’attattaco di Hamas del 7 ottobre ha però fatto cessare l’arrivo in Egitto di gas liquido dal giacimento di Tamar: gas che doveva poi essere esportato in Europa (dove già arrivano miliardi di metri cubi di gas medio orientale), ma per ragioni di sicurezza si è sospeso tutto. Si sono d’altra parte ridotte in Egitto le importazioni di gas fossile da Israele, sempre per le difficoltà del momento e proprio quando stava per iniziare la costruzione di un altro gasdotto Israele-Egitto, lungo quasi 70 km. Giungendo fino al terminal egiziano di Al-Arish. sarebbe stato il secondo gasdotto, dopo quello che già transita via mare davanti alla striscia di Gaza, e sempre verso l’Egitto, per una novantina di chilometri.

Cosa si contend - Tornando alla materia del contendere (cioè, una delle materie, benché importante), vi sono poi le forniture di petrolio che Teheran fa alla Cina non utilizzando dollari, e quindi anche Pechino ha interesse perché non venga minacciato uno sviluppo dei suoi traffici commerciali marittimi nel Mediterraneo (la via della seta). Buon ultima la Russia, interessata ad espandere il commercio di materie energetiche e con lo sguardo rivolto all’Asia.

Israele nel frattempo - costretta a bloccare le attività del giacimento di gas a Tamar nel Mar Mediterraneo vicino alla sua costa meridionale - teme per l’altro deposito di Leviathan, anche se al momento momento possiede riserve per oltre 1087 miliardi di metri cubi di gas. La Chevron americana gestisce sia il sito di Tamar che di Leviathan; attraverso l’Egitto poi esporta in Europa gas liquefatto (GNL), in cogestione con l’Eni. I collegamenti avvengono attraverso condotte sottomarine, tubature quali l’EMG (verso l’Egitto da Leviathan) e l’Arab Gas Pipeline.

Da parte sua, la Russia con Iran e Siria penserebbe ad un gasdotto verso il Mediterraneo partendo dal giacimento di South Pars, situato nel Golfo Persico. Un progetto inviso naturalmente all’Egitto, pure contrario ad altre vie di sbocco ricercate dalla Turchia.

Un altro progetto che circola, da parte israeliana, riguarda un canale di collegamento del golfo di Aqaba al Mediterraneo orientale, vicino al nord di Gaza.

L’attacco di Hamas ai villaggi israeliani ha complicato questo quadrante operativo, mentre Israele si preparerebbe ad un controllo anche sul giacimento Gaza Marine, a 30 chilometri dalla costa della Striscia di Gaza: stimato in 30 miliardi di metri cubi di gas, avrebbe un valore di centinaia di miliardi di dollari. Apparterrebbe all’area di sovranità dell’ipotetico stato palestinese, ma non si escluderebbero possibili accordi “sottobanco” come quelli tuttora in corso tra Egitto e Israele per lo sfruttamento di queste ingenti risorse, in un disegno che oltrepasserebbe completamente i diritti delle autorità palestinesi di Gaza. Insomma, lo sfruttamento dei pozzi è un ghiotto boccone sia per Hamas sia per Israele; ormai da molte parti si ritiene che le attuali operazioni militari riguardino dunque anche un controllo diretto delle estrazioni alle quali pure l’Autorità Palestinese guarda con profondo interesse. Ed anche per tutto questo, Hamas non molla la Striscia di Gaza in sue mani dal 2007.

Un allettante boccone

I giacimenti di gas (Gaza Marine) furono fatti esplorare da Arafat all'inglese British Gas, mentre gli israeliani avevano da tempo cominciato a pensare ad una operazione militare con la quale acquisire il controllo del giacimento. Nel dicembre 2008, l’operazione Piombo Fuso, tra le altre cose, tentò invano di risolvere la questione, ma con la successiva scoperta di un altro grande giacimento di gas al largo della costa israeliana (il Leviathan), Israele dovette pensare a proteggere nel Mediterraneo orientale questa nuova infrastruttura offshore del gas, dove gli Usa investirono subito valigie di dollari.

Il controllo dei giacimenti di Gaza restava comunque allettante, visti anche i bisogni energetici di Tel Aviv. E anche per questo nel 2014 Israele cominciò a predisporre un’invasione di Gaza. Altre migliaia di morti palestinesi, mentre si allargava la crisi economica minacciando il caos totale. Fino al 7 ottobre di quest’anno, quando Hamas fornì a Netanyahu il pretesto per la definitiva invasione di Gaza. Sul tutto, con decine di migliaia di morti e altrettanti feriti e mutilati, volteggia un progetto che mira a lanciare un corridoio energetico attraverso Israele. Come, per esempio, il Canale Ben Gurion, che dalla punta settentrionale di Gaza arriva al Golfo di Aqaba, collega Israele al Mar Rosso e farebbe concorrenza al Canale di Suez egiziano. Gli Accordi di Abraham normalizzavano le relazioni con Israele, con l’adesione degli Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco, con la benedizione di Allah e una pioggia di miliardi di dollari da intascare.

Hamas si è sempre opposto ad accordi con Israele, tanto più che anche Putin e Gazprom sarebbero interessati a una partecipazione nello sfruttamento del giacimento in mare. Le forniture energetiche del bacino orientale, fra cui quelle palestinesi, libanesi e siriane, sono molto importanti per tutti. Israele e Washington intendono però tenere lontana Mosca da quei preziosi giacimenti energetici.

Dunque, una confisca delle riserve marittime di gas naturale della Palestina – o comunque una diretta partecipazione allo sfruttamento e al controllo delle stesse da parte di Israele - non sarebbe da escludere. I giacimenti del gas di Gaza verrebbero integrati negli impianti offshore israeliani, vicini a quelli della Striscia. Si collegherebbero al corridoio di trasporto energetico israeliano, dal porto di Eilat dove già termina un oleodotto, sul Mar Rosso fino al porto marittimo-terminal dell’altro oleodotto di Ashkelon, e verso nord fino ad Haifa.

Ci sarebbe poi in prospettiva persino un gasdotto israelo-turco, in collegamento con il porto turco di Ceyhan, che interesserebbe la Turchia di Erdogan e i suoi progetti di un'espansione politica.

Insomma, tutti guardano con malcelato interesse alle importanti riserve energetiche medio-orientali, in particolare in Cisgiordania e al largo della Striscia di Gaza. In tutto il bacino del Levante (dal Sinai egiziano alla Siria) vi sono rilevanti giacimenti: sarebbero 650 miliardi di metri cubi di gas e 1,7 miliardi di barili di petrolio. Scoperti una decina di anni fa, sono in effetti già sotto il controllo di Israele, con la compagnia New Med Energy in un consorzio con la multinazionale Chevron (Usa) la quale gestisce quasi tutti i giacimenti di risorse energetiche di Tel Aviv.

Sono in ballo centinaia di mld di dollari qualora si costruissero impianti di estrazione, a cominciare dalle zone che il governo israeliano ha vietato ai palestinesi e alle quali alcune imprese multinazionali, con società finanziarie affamate di plusvalenze, guardano con estremo interesse.

Lo stretto di Hormuz - Un accenno va anche all’importanza rilevante che ha in questo momento lo stretto di Hormuz, situato tra l’Oman e l’Iran, e che collega il Golfo Persico con il Golfo di Oman. E’ una “porta d’accesso” per il Mar arabico e per l’Oceano Indiano. L’Iran lo controlla quale snodo marittimo per il commercio, in particolare delle materie prime, petrolio e gas. Vi passa circa un quinto del greggio e dei prodotti derivati dal petrolio consumati a livello mondiale.

L’Iran per questo ha concentrato, nella zona e sulle coste, sistemi missilistici antiaerei e antinave. Ha costruito pure un terminal sul Golfo di Oman per collegarvi una pipeline che porta il greggio da esportare senza passare dallo stretto di Hormuz.

Visti i rapporti tesissimi con Tel-Aviv, anche per una forte opposizione all’ideologia sionista, la minaccia di una chiusura dello stretto non lascia tranquilla né Washington nè il mercato petrolifero mondiale. Crescono le tensioni con Teheran che continua a sostenere quel “fronte unito” dove si organizzano e si armano i ribelli huthi yemeniti, Hamas, Hezbollah e gli sciiti iracheni (1). Un insieme di “pericoli” per gli interessi americani nel settore medio-orientale.

Una flotta navale scarsamente modernizzata è il punto debole iraniano, con invece un’Arabia Saudita che ha costruito alcune infrastrutture costiere e marittime; sta pure potenziando la Petroline della East-West Pipeline per collegare i giacimenti petroliferi della regione orientale con il terminal di Yanbu, sul Mar Rosso. Si tratterebbe di 5 milioni di barili di petrolio al giorno.

L’Iran utilizza lo stretto di Hormuz e le vie marittimo-commerciali limitrofe come arma geopolitica. Nel frattempo, missili balistici e droni compensano in parte la debole difesa aerea iraniana, che mal sopporta le potenze regionali (Israele, Arabia Saudita, Eau) presenti nel settore medio-orientale e appoggiate dalle forze americane sempre pronte ad un intervento.

Sta di fatto che la progressiva militarizzazione del Golfo da parte dell’Iran dovrebbe proteggere le esportazioni di merci iraniane anche se - per quanto riguarda greggio e gas condensato - Teheran ha pronto un terminal petrolifero con tre oleodotti a est dello stretto di Hormuz, nel Golfo dell’Oman.

Un aperto scontro con gli Usa sarebbe, riguardo allo stretto in questione, molto dannoso per le esportazioni delle merci iraniane; inoltre, Cina e Russia non sembrano intenzionate a spingere in avanti la instabilità della regione. Sta crescendo la domanda asiatica di petrolio e gas ai paesi del Golfo e da Hormuz transitano già circa 20 milioni di barili di greggio al giorno oltre a più 3,5 miliardi di piedi cubi al giorno di gas naturale liquefatto (GNL). Al momento, una sua interruzione sarebbe un grosso guaio, specie per i mercati asiatici. Anche da Bab el-Mandeb (lo stretto che congiunge il Mar Rosso al Golfo di Aden) è aumentato il passaggio di greggio in gran parte diretto ai paesi europei. I giacimenti petroliferi di Abu Dhabi (dove si trova il 90% circa del totale dei pozzi) si collegano all’Oceano Indiano con un oleodotto che può trasportare due milioni di barili di petrolio al giorno. Il Golfo dell’Oman è quindi diventato una zona centrale per i rifornimenti energetici; si tratterebbe di assicurargli una stabilità che appare oggi piuttosto incerta. Vi è poi, particolarmente diffuso in queste zone, il contrabbando di armi, specie di fabbricazione iraniana, diretto verso lo Yemen in guerra. Vi si aggiunge il traffico di droga.

Gli Usa naturalmente non sono indifferenti a questi rifornimenti di gas, con i conseguenti disegni politico-energetici e le necessarie protezioni degli asset gasiferi. Intanto e prudentemente – mentre piovono missili e si muovono colonne di carri armati - il cosiddetto mondo arabo-islamico non si spinge oltre le solite ipocrite richieste di cessate il fuoco: dietro i prudenti atteggiamenti si evidenziano grossi interessi in campo, non ultimi quelli petroliferi ed energetici, da salvaguardare assieme ad altre relazioni economiche e finanziarie con Israele. Meglio, per ora, non compromettere troppo un quadro già in precarie condizioni.

I capi di sciiti e sunniti protestano a parole; sembra esserci anche un avvicinamento tra il presidente iraniano Raisi e i vertici sauditi. Si mormora di una mediazione della Cina, e comunque un accordo tra Riad e Teheran compenserebbe quello che forse è stato interrotto tra Israele e monarchia wahabita. Va anche detto che in Arabia Saudita si stanno spostando in favore dello Stato saudita i rapporti con il clero Wahhabita. In tal senso Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, tra i principali finanziatori di Hamas, si muovono con molta attenzione. Il Qatar, paradossalmente, ospita anche il quartiere generale americano in Medio Oriente: nessuna meraviglia, dopo la restituzione – fatta dagli Usa - dell’Afghanistan ai Talebani…

Alcune conclusioni - Abbiamo velocemente analizzato alcuni dei motivi che hanno probabilmente favorito gli incendi e le esplosioni che stanno tragicamente devastando la striscia di Gaza, massacrando migliaia e migliaia di esseri umani di ogni etnia, sesso ed età. Di certo, e finché il capitale, la sua ideologia e le sue politiche saranno dominanti e passivamente accettate dalle masse, non vedremo il proletariato – non importa il colore della sua pelle – farsi classe rivoluzionaria e assolvere il compito storico che gli sta davanti: abbattere il capitalismo grondante miseria, sofferenze, distruzioni e sangue. E’ uno dei compiti principali nel quale siamo impegnati.

Dc

NOTE

1) - I conflitti del mondo arabo-islamico vedono sunniti e sciiti in schieramenti opposti che si fronteggiano nelle crisi del Medio Oriente. Queste due correnti maggiori dell'Islam provengono da uno scisma avvenuto a metà del 600, dopo la morte di Maometto, a seguito dei contrasti per la nomina dei califfi. Una divisione che vede l’Iran sciita ispiratore di un movimento islamico contro i governi filo-occidentali, mentre elabora strategie volte ad assicurarsi rapporti e sbocchi logistici nel Continente, rafforzando un suo ruolo egemone nel mondo musulmano e in generale contro il sunnismo che vanta (a suo parere) la giusta interpretazione del Corano. L’aiuto ai sunniti palestinesi farebbe solo parte di manovre politiche contro Turchia e Arabia saudita. Il mondo arabo di fede islamica comprende una parte del miliardo e mezzo di persone adoranti Allah e maggiore è la percentuale di sunniti. Il Califfato dell'Isis è in maggioranza salafita, un sunnismo formalmente molto rigido. Fra gli sciiti vi è il movimento di Hezbollah nel Libano; gli sciiti sono poi la maggioranza in Iran, Iraq, Bahrein e Azerbaigian, oltre ad avere una presenza minoritaria in Kuwait, Siria, Arabia Saudita, Pakistan, Afghanistan e Yemen. In Africa, invece, la quasi la totalità dei musulmani è sunnita; così nei Balcani e nelle repubbliche dell'Asia Centrale, nel sud-est asiatico, in Indonesia e in Oceania.

Mercoledì, January 17, 2024