Aggiornamento sulla “situazione della classe operaia”, nella crisi del capitale che non passa. E i nodi politici rimangono gli stessi

Da Prometeo n. 30, dicembre 2023

Impostazione della questione

«In realtà la questione salariale in Italia non può essere affrontata senza ammettere che essa è il frutto di decenne di scelte sindacali e politiche a favore dei padroni, i quali oggi, di fronte a una crisi epocale, dimostrano tutta la loro natura predatoria e ferocemente antiproletaria, e contro i quali occorre produrre quella mobilitazione sociale e di classe che in questi anni è mancata»1

La citazione di un passaggio del documento con cui gran parte del sindacalismo “di base” ha proclamato – in giugno – lo sciopero generale di ottobre, ci dà lo spunto per un aggiornamento sulla “situazione della classe operaia” in Italia, con l'ovvia avvertenza che le condizioni “italiane” sono sostanzialmente le stesse di quelle del proletariato dei paesi a capitalismo detto avanzato. Il motivo, per rimanere sul terreno delle banalità, è che quella è solo uno spezzone del proletariato mondiale, l'una e l'altro accomunati dalla stessa oppressione, dallo stesso sfruttamento imposto dal sistema del capitale, da molto tempo dominante su tutto il Pianeta. Le forme in cui viene esercitato lo sfruttamento della forza lavoro, cioè l'estorsione del plusvalore, possono variare – da quelle più brutali a quelle apparentemente più “morbide” - ma devono comunque garantire un saggio di profitto adeguato, senza il quale viene a mancare l'ossigeno del processo di accumulazione e allora subentra la crisi. Sono dunque i movimenti del capitale a costituire la base su cui agiscono, cioè si scontrano, le due classi fondamentali della società – borghesia e proletariato – e, da una cinquantina d'anni, è proprio la crisi, una crisi caratterizzante un'intera fase storica, a scrivere lo spartito dello scontro di classe, in Italia e nel mondo, nonché di quello tra imperialismi nemici. Questo non ha niente a che vedere con una concezione meccanicistica: dire che lo stato del processo di accumulazione è “l'ambiente” in cui la lotta di classe proletaria si muove, non significa che essa non possieda dialetticamente una sua autonomia, che sia chiuso ogni spazio di azione. Anzi, significa inquadrare correttamente il proprio nemico, per evitarne le trappole materiali e ideologiche, per non sfiancare inutilmente il proletariato in una guerra di classe persa in partenza per l'inadeguatezza delle armi politiche impugnate.

Non basta, dunque, parlare di crisi epocale, se non si specifica che cosa si intenda con questo aggettivo e quali siano le implicazioni politiche di tale definizione. Non, lo ripetiamo ad uso dei malpensanti, per suonare un “rompete le righe” all'esercito proletario, al contrario, per sottolineare come, soprattutto in fasi come questa, l'inconciliabilità di interessi tra “borghesi e proletari” emerga in maniera lampante (o noi o loro, insomma), che gli spazi per le grandi riforme a favore2 della classe operaia (intesa come lavoro salariato) sono chiusi, che il livello delle compatibilità capitalistiche si è drasticamente abbassato e che la borghesia, per non far seccare la fonte della propria esistenza – in abbassamento preoccupante – non può far altro che intensificare lo sfruttamento in ogni modo possibile. A cominciare dal salario, la cui compressione viene definita da Marx, nel Capitale (Libro III) il principale fattore antagonista alla caduta del saggio di profitto; il livello del salario è certamente anche espressione della lotta di classe, ma entro limiti dati appunto dallo stato generale del processo di accumulazione e quindi dal livello complesso della composizione organica del capitale, in particolare dei principali settori industriali.

Che “in Italia” esista, e non per sentire dire, una questione salariale è fuori discussione – ma non per tutti, come vedremo più avanti – così com'è evidente che tutto ciò che sta interessando, anzi, sta colpendo la classe salariata in questi decenni è sì “frutto di scelte sindacali e politiche”, ma queste scelte non sono il risultato di un improvviso incattivimento dei padroni a cui i sindacati si sono venduti: è la fase storica, cioè complessiva, di crisi del capitale che ha imposto agli uni e agli altri un cambio di passo nella gestione, secondo i rispettivi ruoli, della forza lavoro, cioè del suo sfruttamento.

E' dunque logico che il salario sia e sia stato fin dall'apertura della crisi di ciclo, il primo obiettivo – benché non certamente l'unico – dell'aggressione borghese alla classe lavoratrice, visto che i margini per intervenire sui costi della parte costante del capitale (macchinari, materie prime, energia ecc.) sono più ristretti, rispetto a quelli di intervento sulla parte variabile, sul salario, appunto.

In questo attacco ininterrotto da mezzo secolo, la borghesia è stata affiancata dal sindacalismo confederale3, che non ha certo interpretato un ruolo da comparsa. Basta ripercorrere a ritroso le tappe che hanno segnato “il sentiero delle lacrime” della classe operaia, per rendersi facilmente conto che senza l'affiancamento del sindacato, il capitale avrebbe avuto ben altre difficoltà a ridurre la nostra classe nelle condizioni in cui è ora e in cui sarà ulteriormente sprofondata, se non si sveglia dal sonno tossico in cui è precipitata.

Uno sguardo retrospettivo

Quest'anno, cade il trentesimo anniversario del “protocollo Ciampi”, da molti, anche nella cosiddetta sinistra antagonista, considerato l'atto di nascita della concertazione. Da un punto di vista nominale può essere vero, ma la connivenza sindacale con il padronato e il suo apparato statale è ben più antica. Per limitarci agli ultimi cinquant'anni, la famigerata intervista di Lama, segretario della CGIL, a Scalfari, direttore di Repubblica, del 24 gennaio 19784, può essere considerata la dichiarazione ufficiale di guerra alla nostra classe: raramente la borghesia ha stilato un programma di assoggettamento operaio con tanta lucidità, in cui sono tracciate, per così dire, le linee-guida dei decenni successivi. Lì c'è già tutto: il taglio dei salari, l'intensificazione dello sforzo produttivo, l'introduzione della flessibilità – ossia precarietà - la sottoccupazione, persino il “merito”, per combattere, si diceva, l'appiattimento salariale e valorizzare la professionalità. Una “politica dei sacrifici” a cui piegare un proletariato troppo indisciplinato per i gusti borghesi e per le nuove esigenze del capitale, a cui era inevitabilmente esplosa tra le mani la crisi del ciclo di accumulazione post-bellico5. Se citiamo quel documento e quei personaggi, sconosciuti a chi ha meno anni sulle spalle, non è per fare dell'Accademia, quanto per ribadire la coerenza del sindacalismo nel “farsi carico dei problemi del paese”, cioè dell'economia capitalista. Per ricordare anche le pesantissime ricadute politiche sulla classe, passata di delusione in delusione, di frustrazione in frustrazione, l'implosione della rabbia impotente che diventa depressione e passività, fino ad arrivare, in settori non trascurabili, al disorientamento più totale al punto di votare per i sovranismi, cioè il fascismo in versione XXI secolo. Il disciplinamento operaio – cioè sul posto di lavoro in generale – passava non solo attraverso la repressione aperta delle “avanguardie di fabbrica” e di ogni comportamento ritenuto ormai incompatibile con la “giusta” valorizzazione del capitale incalzato dalla crisi, ma contemporaneamente attraverso l'attacco alle condizioni materiali di lavoro, quindi di vita, della classe, proprio per imporre un'estorsione di plusvalore che permettesse di arrestare prima, e invertire poi, la caduta del saggio di profitto, non più solo tendenziale ma attuale. Legare o, meglio, subordinare ancor più rigidamente il salario alla produttività e dunque al profitto, significava cancellare gli “automatismi”, cioè gli aumenti salariali automatici agganciati all'inflazione, allora attorno al venti per cento, che, sebbene coprissero solo parzialmente e in ritardo l'aumento del costo della vita, costituivano comunque un costo da ridurre verticalmente o cancellare per la vita del capitale. La scala mobile, prodotto di un'altra epoca del rapporto capitale-lavoro, aveva i giorni contati. Difatti, dopo un primo congelamento biennale nel 1976, nel 1983 arrivò il “lodo Scotti”, che tagliò del venti per cento il calcolo della contingenza (l'aumento dei prezzi, appunto), fissò i limiti entro i quali sarebbero stati contenuti i futuri incrementi salariali e sganciò il calcolo dalla svalutazione della lira o rivalutazione del dollaro che dir si voglia. La svalutazione era uno dei mezzi in voga per aumentare la competitività delle merci italiane sui mercati esteri, per cui la borghesia impose questa misura scaricando sul proletariato gli oneri della “lotta per la vita” del capitale “italiano” sul mercato internazionale. Il rincaro delle merci d'importazione, provocato dalla svalutazione, trovava il proletariato ancor meno attrezzato di prima, sia per l'indebolimento della scala mobile che per la solita condotta sindacale tanto ringhiosa a parole nei confronti del padronato, quanto assai poco mordace nei fatti. Il picconamento degli “automatismi salariali” era cominciato e con esso del salario come “variabile indipendente”: slogan suggestivo, fatto proprio dai gruppi extraparlamentari (come si diceva allora) e dal sindacato in chiave di recupero e controllo della “turbolenza” operaia, ma che, se non si prospetta il superamento rivoluzionario del capitalismo, è solo una frase velleitaria.

L'anno dopo, febbraio 1984, arriva il famigerato “decreto di San Valentino” del governo Craxi, non sottoscritto da CGIL e PCI, ma solo perché dissentivano dal metodo, non dal merito, cioè dalla necessità di superare la scala mobile6. Con quel decreto, la scala mobile era, di fatto sospesa, per essere definitivamente sepolta nel luglio del 1992, quando anche la CGIL firmò – per la sua sepoltura – un altro accordo che scatenò la sacrosanta rabbia operaia con relativi bulloni all'indirizzo di Trentin, segretario generale della CGIL. Ovviamente, quattro pezzi di ferro non potevano cambiare la natura del sindacato, da molto tempo integrato, lo ripetiamo, nei meccanismi borghesi di gestione della forza lavoro, della sua compravendita nel rispetto delle compatibilità del capitale. Difatti, nel 1993 arrivò il cosiddetto “protocollo Ciampi”, che, tra le altre cose, stabiliva il concetto di inflazione programmata, a cui ogni aumento salariale si sarebbe dovuto attenere. In pratica, veniva fissato un tetto ai possibili movimenti verso l'alto del salario, i quali, con un altro giro di vite, venivano fatti dipendere ancora più strettamente alla produttività «ovvero sulla base di un elemento per intero comandato dal capitale»7. Questo vale, in particolare, per la contrattazione aziendale, l'ambito in cui agisce, per esempio, il SiCobas, visto che non può partecipare alla contrattazione nazionale - avendo rifiutato di firmare gli accordi del 2014 – dove gli aumenti ottenuti sito per sito, molto spesso sotto forma di premi di produttività, di risultato ecc., sono appunto condizionati da parametri stabiliti unicamente dall'azienda, non certo dalla forza lavoro in lotta.

Un'opinione diffusa nel mondo radical-riformista ritiene che gli accordi del 1993 aprono le porte alla discesa del reddito operaio, il che è solo parzialmente vero, perché in realtà hanno “solo” allargato il percorso giuridico-formale della sua accelerazione. Tale valutazione prende per buona la famosa statistica dell'OCSE secondo la quale, dagli anni 1990 in poi, solo in Italia i “redditi da lavoro” sarebbero diminuiti, contrariamente a quello che sarebbe successo negli altri paesi aderenti all'organismo borghese8, quando invece l'attacco al salario è una strategia mondiale, perché mondiale è il dominio del capitale e dunque la sua crisi.

A parte questa “svista” cronologica radical-riformista, a ennesima conferma che il sindacato ha fatto propria la visione del mondo della borghesia, Cofferati, ex segretario della CGIL, considerato addirittura un “sinistro” dal PD, qualche anno fa giudicava positivamente non solo gli accordi del 1993, ma anche quelli “imbullonati” del 1992:«Agli inizi degli anni Novanta, una crisi terribile viene superata grazie agli accordi del 1992 e 1993 con Carlo Azeglio Ciampi e la concertazione – la legge di bilancio veniva prima discussa con le parti sociali e solo dopo portata in parlamento – che consente al paese di superarla e ripartire...»9. Cofferati ha ragione nel dire che solo grazie a un altra stretta sulla classe lavoratrice, la borghesia italiana poté superare un momento particolarmente difficile, ma questo non è stato sufficiente a far ripartire davvero l'economia italiana, essendo essa – banalmente – parte del quadro capitalistico mondiale. Come abbiamo già detto, ogni borghesia aggredisce la “propria” classe operaia, spinta dallo stesso pungolo (la caduta del saggio di profitto) e a variare possono essere le forme e l'intensità dell'aggressione, non la sostanza.

Che la ripartenza fosse quanto mai dubbia e che il salario dovesse essere ulteriormente ridotto, lo dimostra un altro accordo del 2009, governo Berlusconi, non firmato dalla CGIL per questioni politiche, con cui l'indice di inflazione programmata, che ovviamente non aveva mai funzionato a favore dei salariati, vien sostituito dall'indice dell'inflazione attesa: l'indice dei prezzi al consumo armonizzato, depurato dall'aumento dei costi energetici, o IPCA10. In un periodo di bassa inflazione, le perdite salariali possono essere contenute (benché sempre perdite siano), ma con l'esplosione dell'inflazione di questi anni, cominciata con la fase post-covid e potenziata dalla guerra imperialista in Ucraina, la caduta dei salari (e delle pensioni) è verticale.

La rotta della classe operaia

Questi che abbiamo sinteticamente ricordato, sono solo alcuni dei passaggi della guerra al salario e, più in generale, alle condizioni di lavoro scatenata dalla borghesia da quasi cinquant'anni, una guerra che ha provocato un arretramento drammatico della nostra classe, da ogni punto di vista.

Più volte abbiamo cercato di dare conto di questa ritirata, che assomiglia più a una rotta, per cui qui ci limitiamo ad aggiornare, come si diceva all'inizio, il quadro della situazione, muovendoci tra dati di fonte borghese – è inevitabile – che, se pur spesso edulcorati, contraddittori e persino spudoratamente falsi, offrono però materiale sufficiente per delineare gli effetti della guerra di classe borghese.

In settembre, l'Inps, commissariata dal governo sovranista, ha fatto uscire il suo XXII rapporto, dove viene registrato un miracolo, di fronte al quale la moltiplicazione dei pani e dei pesci è un gioco da principianti. In poche parole, i “poveri al lavoro” (working poor), cioè quelli che pur lavorando fanno fatica ad arrivare alla quarta o terza settimana del mese (ma anche meno), sarebbero solo 871.800, mentre quelli che fanno la fame col loro stipendio sarebbero poco più di 20.00011. Naturalmente, nessuno, neanche tra i borghesi “seri”, crede a questi numeri da MinCulPop12, tanto sono pacchianamente falsi, a meno di non credere che la Ducetta e la sua degna compagnia, abolendo il Reddito di Cittadinanza, abbiano anche abolito la povertà. Questo era stato un proclama del fu (politicamente parlando) Di Maio, improbabile tanto quanto l'ultimo rapporto dell'istituto di previdenza. Infatti, analisi, documenti di singoli studiosi e di organismi istituzionali – borghesi gli uni e gli altri, inutile precisare – certificano, pur le contraddizioni e le discrepanze di cui si è detto, un progressivo allargamento del lavoro povero.

Per restare all'Inps, soltanto un anno prima, nel luglio 2022, il XXI rapporto13 elaborato sotto la presidenza di Pasquale Tridico, voluto ai tempi dai 5Stelle, mostrava una “working class” su cui evidentemente la Sorella d'Italia non aveva imposto le mani, perché il quadro offerto era incomparabilmente più drammatico, e vero. Per lasciare la parola a Tridico, «La distribuzione dei redditi all'interno del lavoro dipendente si è ulteriormente polarizzata, con una quota crescente di lavoratori che percepiscono un reddito da lavoro inferiore alla soglia di fruizione del reddito di cittadinanza. Per la precisione il 23% dei lavoratori guadagna meno di 780 euro/mese, considerando anche part-time». Prosegue dicendo ciò che anche altri hanno rilevato, cioè che l'occupazione è sì cresciuta, «ma molti dei nuovi lavoratori immessi sono impiegati per un numero ridotto di ore e percepiscono retribuzioni che non permettono ai singoli di vivere dignitosamente […] guardando alla generalità degli occupati, la metà più povera ha perso quote di reddito tra il 2005 e il 2020»14. E' anche vero, aggiunge, che tra i lavoratori “continuativamente” occupati, ben l'85% «ha sperimentato una crescita reddituale» negli ultimi quindici anni, anche se ci piacerebbe conoscere qualche dettaglio in più su quella crescita, per es., quale sia la sua consistenza, se il bonus-Renzi di 80 euro sia uno dei fattori che la spiegano. Oppure, se l'aumento dell'età media degli occupati, con sempre più ultrasessantenni, possa essere un altro fattore, visto che con l'avanzare dell'età di solito aumenta anche lo stipendio.

Lasciamo in sospeso la questione quanto meno ipotetica di un aumento “reddituale” per gran parte dei “continuativi” e diamo un occhio a quello che è diventato il cavallo di battaglia (più un pony che un “bretone”) del centro-sinistra e della CGIL un tempo contraria, e cioè il salario minimo a 9 euro l'ora, ritenuta (da chi?) la soglia minima per un salario dignitoso. Anche su questa questione i dati non sono concordi, benché si discostino di poco, per cui atteniamoci al suddetto rapporto Tridico: «La percentuale di lavoratori sotto la soglia di 9 euro lordi l'ora è 28%, ovvero oltre 4,3 milioni, e quasi un lavoratore su tre guadagna meno di mille euro/mese, considerando anche i part-time […] A ciò si aggiunge il problema dell'instabilità lavorativa, eccessiva instabilità che diventa spesso precarietà e insufficienza di ore lavorate per mese»15. Per inciso, la “instabilità lavorativa” interessa ormai più di tre milioni di persone (circa 3,2 milioni), in gran parte donne e giovani che, anche per questo, ma non solo, hanno salari inferiori del 25 e fino all'80% di una lavoratore maschio adulto a tempo indeterminato e continuo. Nonostante tutto, la “questione giovanile e femminile” continua a giocare un ruolo importante nell'indebolimento/frammentazione della classe lavoratrice, cosa che, tra parentesi, il femminismo borghese vede solo di sfuggita, più interessato a chiedersi, senza trovare una risposta, come mai una donna a capo del governo non faccia nulla, se non remare contro, per superare la discriminazione di genere (in generale, non tanto sul posto di lavoro salariato, aggiungiamo) dimenticando che uno dei peggiori nemici della classe operaia degli ultimi decenni è stata proprio una donna, la Thatcher, perché prima di tutto era una borghese - come la Lagarde, la von del Leyen ecc. - e il fatto che fosse una donna non faceva alcuna differenza rispetto a un collega di classe maschio.

Ci sono altre armi nelle mani della borghesia e dei suoi conniventi sindacali per comprimere il salario, tra essi il mancato rinnovo dei contratti di lavoro16 – con le conseguenti ricadute negative sulla pensione – i contratti detti pirata, firmati da micro-organizzazioni sindacali inventate ad hoc dai padroni, dove il salario, per non dire di altre “voci”, come minimo è inferiore del venti per cento. A questo si aggiungono i rinnovi contrattuali dei sindacati “maggiormente rappresentativi” che, se rispettano sempre le compatibilità del capitale, cioè subordinano gli interessi operai a quelli del profitto, alcuni vanno persino oltre, se così si può dire. E' il caso dei vigilanti non armati, firmato appunto dai confederali, che prima «prevedeva un salario orario di circa 5 euro […] Adesso, dopo il rinnovo, arriverà a sfiorare i 6 euro, ma non subito: un rialzo graduale che si completerà entro il 2026»17. Di fronte a contratti da miseria - in senso stretto, non figurato – un giudice, evidentemente mosso da indignazione di tipo democratico-umanitario, ha condannato un'impresa di servizi a risarcire un dipendente per ventitremila euro, con la motivazione che lo stipendio oltraggiava la Costituzione, in quanto non permetteva una vita dignitosa. La classica eccezione che conferma la regola, visto che le Costituzioni sono fatte per tutelare la borghesia, classe dominante, mascherandone il potere con frasi ad effetto per confondere e ingannare la classe dominata, il proletariato.

La tendenza in atto da decenni è dunque quella di una riduzione generale del salario, aggravata da due/tre anni dall'inflazione, come si diceva; l'inflazione, va da sé, solo apparentemente è democratica, perché chi ne soffre di più sono la classe operaia e i ceti contigui, visto che gli aumenti dei prezzi più forti riguardano il cosiddetto carrello della spesa (alimentari, “beni” di uso quotidiano) e le bollette. Il fenomeno, come hanno riconosciuto alcuni tra i massimi organismi della borghesia mondiale – tra cui il FMI – non ha niente a che vedere con una crescita dei salari, ma è dovuta alle strozzature nella catena mondiale del valore manifestatesi dopo la pandemia (mai passata del tutto, però) e con la guerra in Ucraina che, come tutti sanno, ha fatto schizzare in alto i prezzi dell'energia, del grano e di altre materie prime. Non solo, a queste difficoltà si è aggiunta, naturalmente, la speculazione, proprio per aumentare ulteriormente i guadagni approfittando della situazione. Non a caso, diversi economisti borghesi usano l'espressione “greed inflation”, inflazione da avidità, avidità di profitti, ovviamente, l'unica ragione di essere del capitale.

Una volta di più si conferma che le guerre imperialiste non spargono “solo” morte e distruzione ai proletari (principalmente) costretti a combattersi sui rispettivi fronti borghesi, e ai civili, vittime inermi della ferocia imperialista, ma peggiorano le condizioni di vita di tutto il proletariato, anche di quello lontano dai teatri di guerra.

A quanto ammonta la perdita del potere d'acquisto del lavoro dipendente negli ultimi tre anni? Anche su questo, le stime provenienti dal mondo sindacal-riformista non sono unanimi, si va dall'8,5% al 13% fino al 17%, secondo un calcolo della CGIL18, ma c'è chi, di parte dichiaratamente borghese, registra per il 2022 un crollo addirittura superiore. Mediobanca, a settembre, ha pubblicato l'analisi annuale su un campione di 2150 «società industriali e terziarie di grande e media dimensione […] che rappresentano il 48% del fatturato industriale»19. Secondo questo studio, mentre il fatturato reale delle aziende prese in esame, nel 2022 sale dello 0,6%, «La forza lavoro totale cresce (+1,7%), ma perde potere d'acquisto (-22%)». Appunto, l'occupazione aumenta, ma il monte salari precipita. Un'altra prova, se mai ce ne fosse bisogno, che i posti di lavoro disponibili sono spesso precari, per lo più lavori di m...., sicuramente con stipendi, in molti, per non dire moltissimi casi, al di sotto del valore della forza lavoro, cioè di quanto si deve spendere per mantenersi in vita e riprodursi... e difatti le nascite crollano.

Per aprire una parentesi, il fenomeno delle “grandi dimissioni”, cioè il licenziamento volontario, su cui qualche tempo fa si sono detti fiumi di parole (articoli, libri rapidamente esauriti e ristampati nel giro di pochissimo tempo), ammesso e non concesso che abbia davvero la consistenza di cui si è parlato, è da attribuire a condizioni di lavoro che non permettono neppure la sopravvivenza. Un esempio tra i mille possibili, pare che a Bologna l'azienda di trasporto pubblico locale cerchi decine di autisti e che una parte degli assunti non bolognesi si dimetta; il motivo è molto semplice: con lo stipendio da conduttore di autobus, a Bologna o in qualsiasi altra grande città, non si arriva alla fine del mese se si deve pagare l'affitto, oltre a dover affrontare, non di rado, l'aggressività gratuita e demente di certa utenza, manifestazione di un degrado sociale generalizzato. Le “grandi dimissioni”, contrariamente a quanto si crede in ambito radical-riformista, saranno anche espressione di una ricerca di valorizzazione personale, ma prima di tutto sono espressione di estrema debolezza della classe, il tentativo di trovare una via d'uscita individuale (fosse pure di massa) a problemi collettivi, di classe. Infatti, anche tenendo conto del cosiddetto welfare familiare (il sostegno della famiglia) – in molti casi è così – prima o poi bisogna tornare da un padrone e vendere la propria capacità lavorativa (qualunque essa sia) in cambio di un salario o di un finto rapporto di lavoro autonomo. Chi teorizza le “grandi dimissioni” come momento di autodeterminazione, riprende le teorizzazioni sull'assenteismo degli operaisti degli anni '70, che poteva essere considerato un atto di autodifesa individuale nei confronti di ritmi e carichi di lavoro insostenibili e nulla più, ma con l'aggravante che allora “l'assenteista” poteva giocare a rimpiattino col padrone grazie a rapporti di forza, e quindi a un quadro giuridico-sindacale, che oggi non ci sono più.

Chiudiamo la parentesi e torniamo al rapporto di Mediobanca, dove ci sono altri dati che spiegano – o confermano – l'accanimento, per così dire, della borghesia nei confronti del salario e perché il capitale operante in Italia sarebbe meglio attrezzato di fronte all'inflazione che nel 1980, quando l'inflazione superò il 21%: «Tra le diversità spicca l'incidenza dei _costi d'acquisto, che nel 1980 era pari all'83,1% e che è salita al 90,6% nel 2022. A cambiare è il peso del_ costo del lavoro, che valeva il 18,2% del giro d'affari nel 1980 e si è sostanzialmente dimezzato nel corso del tempo, fino a contare per l'8,4% nel 2022». Tra i fattori “tecnici” che hanno prodotto questo risultato, oltre a «_progresso tecnologico, automazione, ricomposizione settoriale e la spinta alla “servitizzazione”_20 [ci sono o, meglio, non ci sono] gli automatismi di recupero dell'inflazione [che nel 1980] avevano generato nel periodo una crescita del costo del lavoro pari a +16,9% (a fronte peraltro di una flessione dello 0,8% della pianta organica). Nel 2022 l'incremento della stessa voce è stato del +3,5%, sostenuto dall'aumento del numero dei dipendenti dell'1,7%». La soppressione della scala mobile è stato dunque un elemento importante nell'accorciare drasticamente la catena del lavoro salariato, che negli anni precedenti si era preso qualche piccola libertà ormai incompatibile con la crisi storica del capitale dovuta, in sintesi estrema, all'innalzamento della sua composizione organica. Con tale aumento, si restringe la parte variabile del capitale (forza lavoro), a favore di quella costante, ma è solo la prima che valorizza il capitale. Quindi, tenendo conto che quanto più è alto il saggio di plusvalore, cioè di sfruttamento, tanto più i margini per un suo ulteriore incremento si riducono e che la giornata di lavoro ha dei limiti fisici, il capitale ricorre a ogni misura che faccia crescere la parte della giornata lavorativa non pagata – il plusvalore, da cui si genera il profitto – e l'abbassamento del salario è, lo ricordiamo, una delle prime.

Nonostante il capitale, negli ultimi cinquant'anni, abbia fatto di tutto per ristabilire un saggio di profitto tale da rilanciare un nuovo ciclo di accumulazione, non riesce a ritrovare lo slancio necessario, appesantito da troppi capitali in esubero (la sovraccumulazione) in cerca di una valorizzazione che, per quanto sfrutti e opprima la classe lavoratrice, rimane inadeguata rispetto alle dimensioni dei capitali medesimi e alla loro composizione organica. Solo una svalorizzazione massiccia dei capitali in eccesso potrebbe farlo, com'è avvenuto con la seconda guerra mondiale: l'inasprimento sanguinario delle tensioni imperialistiche ci dice che questa è la strada su ci si sta incamminando la borghesia mondiale, una prospettiva catastrofica per l'umanità e il Pianeta.

Indissolubilità della lotta economica e della lotta politica

Che fare, allora? Solamente la classe operaia potrebbe fermare questo incubo sempre meno ipotetico e aprire le porte a un mondo completamente diverso, senza sfruttamento, senza oppressione, senza lo stato in quanto strumento di dominio di una classe sull'altra, nel rispetto dell'ecosistema, spinto al limite del collasso proprio dalla ricerca sfrenata del profitto, predando e stuprando l'ambiente naturale.

La lotta è l'unica concreta alternativa, che deve partire, e generalizzarsi, dai posti di lavoro, là dove il capitale estorce il lavoro non pagato, cioè la linfa vitale della propria esistenza. E' una lotta necessaria, anzi, indispensabile, ma di per sé insufficiente se non si inquadra in una prospettiva di superamento rivoluzionario dello stesso sistema del lavoro salariato, cioè del capitale. Tuttavia, questo inquadramento può darlo solamente l'organizzazione rivoluzionaria, il partito, ma – e qui sta il rompicapo/dramma – le forze che possono aspirare a tale ruolo sono estremamente deboli, infime minoranze sconosciute alla classe, da cui sono state estirpate dal processo controrivoluzionario che per comodità chiamiamo stalinismo, affiancato da fascismo e socialdemocrazia.

La scena di classe, oggi – anzi, di questi settori che esprimono una combattività superiore al grosso dell'esercito proletario – è in buon parte occupata da soggetti sindacal-politici che, pur dirigendo lotte operaie spesso aspramente contrastate dal padronato e dall'intervento repressivo del suo stato21, si muovono, appunto, principalmente sul piano sindacale, illudendosi e illudendo che la lotta “tradeunionistica” di per sé possa mettere la borghesia (nel suo insieme) alle corde e per di più indipendentemente dalle condizioni economiche in cui versa il capitale. E' vero che l'arretramento in cui la borghesia ha ridotto la classe operaia è tale per cui, in certi ambiti specifici, ci sono margini per recuperare (non senza lotte accanite) quel “sovrappiù” - rispetto a un tasso “medio”, per così dire, di sfruttamento e di compressione salariale - che l'inerzia e/o la complicità sindacali hanno concesso al padronato, ma sempre senza oltrepassare le famigerate compatibilità del capitale in generale e dei singoli capitali. Il miglioramento economico-normativo strappato in alcune realtà aziendali non è da guardare con sufficienza, ovvio, ma il punto rimane sempre quello, scolpito nell'ABC del movimento comunista: lo sciopero economico può essere una “scuola di guerra” solo se ha come prospettiva l'archiviazione del modo di produzione capitalistico. In caso contrario, è riformismo, magari radicale, indipendentemente dalle intenzioni dei soggetti che vi partecipano e dai sacrifici che tale prassi inevitabilmente comporta, e il riformismo colloca sempre il superamento della società borghese – ammesso che lo contempli – in un futuro quanto mai vago. E' dunque normale che le indicazioni e gli strumenti politici agitati, coerentemente con l'indeterminatezza dell'obiettivo, annebbino la coscienza degli strati proletari influenzati, istradandoli su binari che non li fanno mai avvicinare alla meta, anzi li allontanano.

Il sindacalismo, per natura, non può negare il capitale. Primo, perché, nato come organismo operaio di contrattazione della vendita della merce forza lavoro con il capitale stesso, lo presuppone e lo accetta: altrimenti, con chi contratta? Secondo, perché da molto tempo è stato inglobato nel sistema istituzionale borghese quale cogestore e quindi controllore, della classe lavoratrice. Il sindacalismo “combattivo” in fin dei conti non fa eccezione; è andato a riempire uno spazio lasciato libero dal sindacalismo “ufficiale” (per es., quello dei facchini della logistica) e conquista consensi tra settori “operai” delusi da un'arrendevolezza persino spudorata del sindacalismo maggioritario, mettendo in atto una conflittualità da sindacalismo di “altri tempi”, quando, pur inchinandosi agli interessi del Paese (del capitale), non sempre calava le braghe prima ancora che i padroni glielo chiedessero. Non solo, ma gli operai più combattivi, lottando sul posto di lavoro, pensavano di lottare per un'alternativa al sistema, anche se identificavano l'alternativa – tragico inganno! - nel fronte imperialista guidato dall'URSS, e la loro disponibilità alla lotta, fino al sacrifico più alto, veniva usata come strumento di pressione dalla “sinistra” contro lo schieramento imperialista occidentale e le sue articolazioni nazionali oltre che per allargare i propri spazi politici dentro quelle istituzioni borghesi in cui si riconosceva e che difendeva.

Quando il sindacalismo “alternativo” si muove sul terreno direttamente politico, le cose vanno anche peggio, per esempio nelle prese di posizione sulle guerre in corso, in Ucraina e, soprattutto, in Medio Oriente. Qui emerge in maniera evidente un internazionalismo a mezzo servizio, che internazionalismo non è, ma appoggio a questa o quella frazione della borghesia mondiale motivandolo con la causa della liberazione dei popoli oppressi. Il sindacalismo “di base” indice scioperi e chiama i lavoratori a bloccare l'invio di merci/armamenti a Israele per fermare la mattanza israeliana di Gaza: d'accordo, ma perché non rivolge lo stesso appello, mettiamo, ai lavoratori iraniani perché blocchino l'invio di armi da parte del sanguinario, oscurantista e antioperaio regime di Teheran a Hamas e Hezbollah? Certo, avrebbe più il valore di un appello puramente ideale, ma forse che il fondamentalismo islamista, che ha l'anticomunsimo nei suoi documenti statutari, è dalla parte della classe lavoratrice? Forse è reazionario solo in casa propria e progressista in Palestina? Forse i civili israeliani o i proletari immigrati ammazzati e rapiti nell'attacco del 7 ottobre sono solo l'effetto collaterale di una giusta causa? Andiamo...

I nodi sono sempre gli stessi

Di fronte a questo quadro drammatico, ci sono compagni (maschi e femmine), che pure sentono il problema dell'assenza dell'organizzazione rivoluzionaria, portati a cercare pietre filosofali, a esplorare improbabili percorsi “creativi” che portino alla costituzione di un polo rivoluzionario capace di calamitare la parte migliore della classe, quella che “pensa” e lotta. Purtroppo, non esistono scorciatoie né inedite tattiche “più intelligenti” per radicarsi nel proletariato, a meno di non scadere nell'opportunismo e nella manomissione del metodo rivoluzionario, la trappola in cui spesso cade, e di solito in buona fede, chi cerca volontaristicamente un varco nei reticolati stesi dalla controrivoluzione tra le avanguardie comuniste e la classe. La radice di questi sbandamenti, l'arrovellarsi inutilmente per cercare il bandolo della matassa sta, a livello teorico-politico, nella sottovalutazione della devastazione incalcolabile operata dalla controrivoluzione staliniana, che ha sfigurato e prostituito il metodo di analisi, e quindi l'agire, comunista, perpetuando la condizione di di chi è rimasto fedele a quella prospettiva a infima minoranza, ininfluente sulla vita e sullo scontro di classe.

Crediamo però che tale “terra desolata” non sia l'ultima parola, siamo convinti che le cose possono cambiare, purché chi decide di impegnarsi nella militanza comunista abbia coscienza dello stato in cui si trovano ad operare le più che sparute minoranze autenticamente comuniste.

cb

Appendice

L'articolo del 1948 che pubblichiamo di seguito dimostra che, dopo il rullo compressore dello stalinismo, le difficoltà di radicamento nella classe, per i rivoluzionari rimangono sostanzialmente le stesse, nonostante i cambiamenti avvenuti da ottant'anni in qua. Uno di questi è che oggi dobbiamo ripartire da un arretramento ancora più profondo della classe, con le forze internazionaliste ancora più deboli. Ma segnali di ripresa, a livello internazionale, ci sono e questo è senza dubbio incoraggiante.

Esiste una questione sindacale?

da Battaglia Comunista, n. 11 – 17-24, marzo 1948

I primi congressi provinciali hanno confermato ciò che era previsto e cioè che il punto sul quale si sarebbero scontrate le opinioni e sul quale con maggior fervore si sarebbero svolte le discussioni è quello su cui poggia la politica sindacale del Partito, quale risulta dalle relazioni presentate dal C.E. per il prossimo congresso nazionale. Ma, a nostro avviso, nelle discussioni suaccennate non si è dimostrata una sufficiente maturità; il problema posto, in generale, è stato mal compreso, e in alcuni casi semplicemente rigettato, sostituendolo con schemi di risoluzione che si richiamano alla prassi sindacale della Terza Internazionale e del Partito Comunista d’Italia al momento della sua costituzione. Ora è evidente che, malgrado si dichiari il contrario, non si tiene in nessun conto l’evoluzione compiuta dal capitalismo tra la fine della prima guerra mondiale e lo scoppio della seconda, e della parallela involuzione compiuta dai partiti comunisti praticamente legati a uno dei due blocchi imperialisti, e dell’inserimento dei sindacati nell’orbita di influenza dello Stato.

Comunque, quello che va messo subito in rilievo è che in nessun caso è stata formulata una opposizione concreta e di principio alla politica sindacale del partito, trattandosi in generale di stati d’animo che in ultima analisi si ricollegano al difficilissimo compito che la situazione ci impone.

Infatti, le questioni che vengono più frequentemente sollevate, sono le seguenti: come uscire dalla situazione di quasi isolamento in cui ci troviamo? Come farsi largo in seno alle masse per farci conoscere e sottrarle all’influenza dei partiti opportunisti? La risposta che a questi quesiti danno alcuni compagni di fabbrica, dimostra che essi rimangono alla superficie degli argomenti di discussione ponendosi problemi inattuali e così facendo sono inevitabilmente portati a commettere degli errori che potrebbero, se generalizzati, essere di gravissimo danno per lo sviluppo e il consolidamento ideologico del partito. Ad ogni modo, sarà bene ricordare che se per allargare la nostra influenza fra le masse bastasse essere conosciuti, a quest’ora, proprio nei centri proletari più importanti, dovremmo già aver ridotto a zero l’influenza che il nazionalcomunismo esercita ed eserciterà ancora sulle masse operaie.

Il fatto che il nostro partito sia sufficientemente conosciuto e frequentissimamente discusso, e che ad onta di ciò, gli operai rimangano attanagliati dalla politica nazionalcomunista, dimostra molto chiaramente che questa non è ancora la nostra ora, l’ora della rivoluzione, ma quella della controrivoluzione e della guerra. Ad ogni modo, la risposta che quei compagni danno alle domande di cui sopra, è invariabilmente la seguente: esser più giusta e più redditizia per il partito la partecipazione ai posti di responsabilità degli organismi sindacali e di fabbrica in quanto la nostra opposizione svolta dal di fuori, non dà la possibilità di mantenere i contatti e svolgere quell’attività fra gli operai che si potrebbe invece svolgere se noi fossimo minoranza operante dall’interno.

A prescindere dal fatto che qui siamo assolutamente fuori da tutta l’impostazione che del problema danno le relazioni presentate dal C.E. per la discussione, anche ponendosi da un punto di vista elementare e pratico non è affatto vero che per svolgere una qualsiasi attività nostra in seno alle masse operaie sia indispensabile esser membro di una C.I. o di un Consiglio sindacale, in quanto proletari continuamente a contatto con centinaia di altri proletari, i nostri militanti possono benissimo svolgere un’efficacissima attività di partito, come sta a dimostrare l’azione di diversi gruppi internazionalisti di fabbrica.

Nel modo di vedere dei compagni che così pensano, c’è, in fondo, una preoccupazione che vizia tutta la loro visione del problema: ed è l’insofferenza dell’isolamento che li preoccupa e talvolta li scoraggia, e vorrebbero che il nostro partito godesse di un largo seguito tra le masse proprio nel momento in cui esprime prima di ogni altra cosa, la sconfitta da esse subita. Rimontare la corrente! Questo sforzo infatti sta compiendo il partito e lo fa nel solo modo che gli è consentito, combattendo su tutti i fronti per suscitare fra i proletari la consapevolezza della necessità della lotta rivoluzionaria.

Di non diversa natura sono le preoccupazioni di coloro che dalla constatazione, sulla quale tutti indistintamente siamo d’accordo, per cui il sindacato attuale sia ormai passato al fronte della conservazione borghese, traggono la conclusione che sia necessario passare alla costituzione di nuovi sindacati di cui i quadri della frazione sindacale dovrebbero essere l’ossatura. Anche qui la preoccupazione centrale è quella di uscire dalla situazione di semi-isolamento e dare al partito artificiosamente un seguito abbastanza largo di operai. E qui entriamo nel vivo della questione. Dovrebbe essere chiaro per tutti che non gli accorgimenti tattici, che spesso portano allo snaturamento delle avanguardie rivoluzionarie, possono portare le masse sul piano politico del partito di classe, e che questa congiunzione sarà resa possibile solamente dal precipitare delle situazioni verso una nuova e più profonda crisi del regime capitalista. L’errore dei nostri compagni, sia di quelli – pochissimi del resto – che pensano alla costituzione di un nuovo sindacato, sia di coloro – più numerosi – che suggeriscono l’entrata nei comitati sindacali per i fini di cui sopra, è quello di credere che ai nostri giorni, che non sono più quelli della libera concorrenza e del pacifico sviluppo del capitalismo, ma quelli del monopolismo più sfrenato e della gestione totalitaria dell’economia da parte dello Stato, sia possibile un’azione sindacale nel senso tradizionale e per mezzo di essa conquistare al nostro partito larga messe di adesioni. Ora è più che chiaro che una questione sindacale intesa in quel modo non esiste e sarebbe gravissimo errore se nella loro quotidiana propaganda i nostri gruppi di fabbrica lasciassero intendere agli operai, che li ascoltano, che una o più commissioni o qualche sindacato diretto da comunisti internazionalisti possano sul piano strettamente sindacale, cioè salariale, fare qualche cosa di più o di diverso di quello che fanno gli attuali dirigenti sindacali. Se rimane sempre vero che il proletariato si muove alla lotta sotto il pungono del bisogno e per risultati immediati, compito delle nostre organizzazioni di partito, e soprattutto di quelle di fabbrica, è quello di non far credere che siano raggiungibili indipendentemente dalla battaglia rivoluzionaria per il potere. Per cui compito permanente dei nostri gruppi di fabbrica e della frazione sindacale è quello fissato nelle tesi in discussione: né partecipazione alla direzione degli organismi dirigenti sindacali esistenti, né farsi promotori di inutili scissioni. L’apparizione di nuovi sindacati, oltre che non contribuire a guarire nessuno dei mali di cui soffre la classe operaia, aggiungerebbe nuova confusione a quella esistente, con grave danno del faticoso processo di chiarificazione in corso.

Non per la risoluzione di una ormai superata questione sindacale si devono battere i gruppi internazionalisti di fabbrica e la frazione sindacale, ma presenti e operanti in tutte le agitazioni e battaglie della classe operaia si adopereranno per chiarire che la soluzione delle antitesi che le determinano non sarà ottenuta che per mezzo della lotta unitaria di tutto il proletariato per la conquista rivoluzionaria del potere.

M. C.

1sicobas.org

2Espressione non del tutto appropriata e quindi ambigua, che usiamo per comodità di sintesi.

3Usiamo il termine “confederale” per riferirci all'Italia, ma lo stesso vale anche per gli altri paesi.

4E' facilmente reperibile in rete; per esempio, la si può trovare nel sito di un falso amico o aperto avversario di lungo corso della classe operaia, P. Ichino: pietroichino.it Fu l'anticipazione della “svolta dell'EUR” ossia di un attacco frontale alla classe operaia con la cosiddetta politica redditi, consistente, in sostanza, nell'abbassare i salari.

5Le crisi, infatti, sono lo sbocco finale delle contraddizioni del rapporto di capitale: possono essere rallentate, possono essere differite, ma non eliminate e prima o poi esplodono.

6Vedi il nostro opuscolo Costo del lavoro e riforma del salario. Dall'Eur alle ultime proposte sindacali, di accordo in accordo per la riduzione dei salari, a cura dei Gruppi di fabbrica Comunisti Internazionalisti, 1985.

7Nostro opuscolo, cit.

8Per questa questione, vedi: leftcom.org Ancora recentemente, un alto funzionario della borghesia, in un'intervista affermava, a smentita della leggenda che i salari sarebbero diminuiti solo in Italia, che «E' vero, prima di questa fiammata [l'inflazione, ndr] i salari reali sono calati per un lungo periodo in diversi paesi...», in Riccardo Sorrentino, Borio (BRI): nessun compromesso, le banche centrali contrastino l'inflazione, Il Sole 24 ore+, 25 giugno 2023. BRI sta per Banca dei Regolamenti Internazionali, di cui l'intervistato è capo economista.

9Sergio Cofferati, Per la classe operaia iniziava la lunga marcia dei diritti, il manifesto, 25 maggio 2020. Il titolo si riferisce allo Statuto dei Lavoratori.

10Il nuovo indice non viene più determinato in maniera concertativa, ma da un organismo spacciato per essere puramente tecnico, al di sopra delle parti, cioè l'Istat.

11Ilaria Brusini, L'INPS di Meloni fa sparire il lavoro povero, Il Fatto Quotidiano, 14 settembre 2023.

12Era il Ministero della cultura popolare sotto il fascismo e in pratica curava la propaganda di regime; la sigla era popolarmente usata in termine spregiativo-canzonatorio, va da sé.

13Riferito al 2021: ogni rapporto fa riferimento all'anno precedente.

14Tridico, XXI rapporto INPS, luglio 2022, pag. 9.

15Tridico, ibidem.

16A luglio, il 55% dei lavoratori aveva il contratto scaduto da tre, quattro persino vent'anni.

17Rosaria Amato, Quei contratti collettivi che pagano meno del salario minimo, Repubblica on-line, 17 luglio 2023.

18«... abbiamo fatto un calcolo su cosa è successo al salario reale dal gennaio 2020 ad aprile 2023. Se fissiamo l'indice del salario reale a 100, dopo tre anni ad aprile 2023 […] è crollato a 87,18 […] Il grosso di questo calo si è concentrato tra il 2021 e i primi mesi del 2023», in Matteo Gaddi, Profitti alle stelle, crollano i salari, le imprese paghino, il manifesto, 28 giugno 2023. Patrizia Pallara, Siamo tutti più poveri: «A causa dell'inflazione le famiglie hanno perso il 17% di potere d'acquisto», Collettiva, 16 ottobre 2023.

19Area Studi di Mediobanca, Nel 2022 l'industria resiste all'inflazione, 21 settembre 2023.

20Nella sostanza e in sintesi, la pratica del noleggio dei macchinari e della fornitura di servizi.

21A ennesima conferma che i margini per miglioramenti economico-normativi sono molto ristretti, soprattutto là dove l'oppressione “straordinaria” della forza lavoro, da ogni punto di vista, è l'elemento chiave della “strategia” aziendale. Ma assicurarsi la sottomissione della classe operara e la riduzione ai minimi termini del conflitto economico è, soprattutto in epoca di crisi, una questione vitale per ogni sezione del capitale. Se, per ipotesi molto, ma molto improbabile, il sindacalismo confederale mettesse in atto una conflittualità da SiCobas, sicuramente gli interventi repressivi dello stato crescerebbero in maniera verticale.

Lunedì, January 15, 2024