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Home ›Alcune riflessioni sulla guerra di Palestina e dintorni
Prima ancora che si sapesse dell'informativa ufficiale dei Servizi egiziani a Netanyahu su di un possibile attacco da parte di Hamas e prima ancora che la dettagliata informativa del New York Times denunciasse il tutto, il giorno stesso del famigerato 7 ottobre, con i soli strumenti della logica formale, si poteva avanzare l'ipotesi che l'attacco di Hamas non poteva essere una sorpresa per Israele. Bravi? No, bastava solo essere attenti alla dinamica dei giochi dell'infamia imperialista da qualunque parte si manifesti. A giustificazione di tale menzogna lo stato israeliano “colto di sorpresa dall'attacco”, che doveva, come al solito, obnubilare l'opinione pubblica internazionale, si sono addotte tesi ridicole. La prima ci informava che i Servizi della più attrezzata "intelligence" del mondo non avessero elementi sufficienti per sospettare qualcosa e, quindi, nulla poteva disturbare i loro sonni. Poi, che l'esercito era stato messo a "difesa" dei coloni in Cisgiordania, scoprendo la parte sud che confina con Gaza, quindi non in grado di intervenire anche se lo avessero voluto. La menzogna ha una piccola parte di verità. I rappresentanti dei coloni presenti nel governo di Netanyahu (Ben Givir e Smodrich) avevano sì chiesto lo spostamento di reparti dell’esercito, non per difendere i coloni israeliani ma per scacciare i palestinesi dalle loro case e rafforzare i loro insediamenti con la distruzione di case, di piantagioni di ulivi, con morti e feriti tra la popolazione della Cisgiordania. Per compiere questo ennesimo crimine sarebbero stati sufficienti pochi reparti e non un intero esercito, tanto più che i palestinesi uccisi e scacciati dalle loro case non erano nemmeno armati. Infine, la menzogna è arrivata a dire che le notizie che arrivavano da più parti sul possibile attacco fossero inventate o poco credibili e, men che meno, da prendere in considerazione per una qualsiasi mobilitazione, come se i Servizi egiziani e di altri paesi arabi si divertissero a prendere in giro il Mossad e lo Shin Bet, in una specie in un goliardico gioco. Il tutto, così malamente confezionato, desta solo un sinistro sorriso di compatimento.
In realtà, niente di tutto questo. Netanyahu sapeva, era da tempo al corrente del piano di Hamas, almeno da un anno, come dicono le ben informate fonti del New York Times, ma non è intervenuto, ha lasciato fare per poi avere la scusa di mettere in pratica il suo già programmato piano.
1) Mettere di fronte al fatto compiuto il suo alleato storico, gli Usa, in modo da continuare a ricevere finanziamenti, armi e coperture politiche per perpetrare una rabbiosa risposta che andasse ben oltre la vendetta immediata. Gioco riuscito, perché i finanziamenti sono arrivati e copiosi (almeno qualche decina di miliardi di dollari), e in occasione di un tentativo da parte dell’ONU di fermare la mattanza nella Striscia di Gaza, la risoluzione di un secondo cessate il fuoco non è passata per il voto negativo degli Usa. Il che sta a significare che, al di là delle proteste formali dello stesso Biden verso “l’eccesso” di difesa di Israele, il legame che tiene insieme i destini di Israele e degli Usa in Medio oriente è forte e va ben oltre le contingenze tattiche ed elettorali di Netanyahu.
2) Distruggere Hamas in modo da eliminare definitivamente il suo più pericoloso avversario. Operazione le cui finalità non si riducono alla sola vendetta per i massacri di civili del 7 ottobre, ma deve suonare come monito a tutto il mondo jihadista che chi tocca Israele tocca gli Usa, e che insieme daranno la caccia a qualsiasi minaccia che provenga da quel mondo alimentato dal comune nemico Iran.
3) Radere completamente al suolo Gaza in modo tale da potere chiedere agli Organismi internazionali una prelazione sulla futura ricostruzione economica e amministrazione politica di quel territorio, che rappresenta per Israele un obiettivo strategicamente importante, in quanto contiguo ai territori egiziani, al passo di Rafah, unico passaggio verso la terra dei faraoni . In altri termini, rientrare in possesso di quel pezzo di Palestina che gli accordi di Oslo avevano attribuito alla Autorità Nazionale Palestinese e che rimase tale sino al 2007, anno in cui passò sotto l’amministrazione di Hamas, dopo una tornata elettorale che, più che favorire Hamas, punì la corruzione e l’inerzia, per non dire la collusione, della ANP con i governi israeliani.
4) Non da ultimo, Netanyahu pensava che con una simile operazione potesse anche evitare i suoi guai giudiziari, per riproporsi da una posizione di forza al suo elettorato che lo aveva in parte abbandonato. Ma il diavolo fa le pentole e non i coperchi. Probabilmente la guerra di Gaza, comunque vada a finire, costituirà il capolinea della sua carriera politica e potrebbe addirittura scatenare un conflitto d'area più vasto coinvolgendo gli Hezbollah libanesi, i vari spezzoni della jihad islamica, gli avanzi dell'ISIS iracheni, gli Huthi dello Yemen, mettendo in fibrillazione i fronti imperialistici di riferimento, primo fra tutti lo sponsor di Hamas, l'Iran degli Ayatollah. Ipotesi, certo, ma con riscontri obiettivi molto verosimili. Intanto i due nazionalismi, finita la tregua"umanitaria", hanno ripreso le ostilità: Hamas a gettare missili sulle città israeliane poco al di là del "confine"e Tel Aviv a proseguire il massacro di civili (20 mila al momento, 22-12 23) e a distruggere quel poco che è rimasto in piedi degli edifici di Gaza (ospedali compresi).
Intanto gli Houthi dello Yemen, altra filiazione dello jihadismo iraniano, hanno tentato di chiudere l’accesso al Mar rosso, minacciando qualsiasi nave che tenti di superare lo stretto di Bab el-Mandeb. Già due petroliere e tre navi cargo non hanno rischiato di forzare il blocco e hanno dovuto fare il periplo del continente africano (Capo di Buona Speranza) per arrivare in Europa con almeno due settimane di ritardo e qualche milione di dollari di spese in più. Immediatamente gli Usa hanno messo in campo tre cacciatorpediniere e dislocato una portaerei della V flotta già in zona.
Per chi pensasse che lo scontro tra Israele e Hamas sia un anello della solita catena di guerre tra i due nazionalismi si è sbagliato di grosso. Innanzitutto questi avvenimenti vanno collocati in uno scenario internazionale in cui lo stato economico del capitalismo mondiale è sull’orlo del collasso. Stati come Usa, Giappone e mezza Europa vivono sul debito (e non sono i soli...). Gli incrementi dei PIL sono al lumicino, i saggi di profitto calano e i problemi di valorizzazione dei capitali ad investimento produttivo aumentano. I Brics non stanno meglio. In compenso, la speculazione internazionale aumenta con dimensioni incontenibili, arrivando in volume a 13 volte il PIL mondiale, con l’effetto di creare bolle speculative che esplodono periodicamente, bruciando masse enormi di capitali e creando le condizioni di una miseria generalizzata, disoccupazione, impoverimento anche delle stratificazioni sociali medie e, quando necessario, l’esplosione di disumane guerre. Tutti sintomi che il capitalismo ha terminato la sua fase propulsiva, è in veloce decadenza e solo la “soluzione “ delle guerre può allungare questa lunga agonia subita soprattutto da un proletariato internazionale, super sfruttato in tempi di pace, massacrato in tempi di guerra.
La mossa degli Houthi, sostenuti dall’Iran con il beneplacito di Russia e Cina, di chiudere l’ingresso al Mar rosso e, quindi, l’accesso al canale di Suez, dove passa un 15% del petrolio mondiale e il 20% delle derrate alimentari e merci varie, è un segnale al fronte imperialista Usa. Non solo, una simile manovra rischia di mettere in crisi una lunga serie di accordi commerciali, strategici - primi fra tutti quelli legati alla commercializzazione di gas e petrolio - quindi di aggravare le tensioni dell’area e di mettere in fibrillazione le maggiori centrali imperialiste.
Hassan Nasrallah, capo degli Hezbollah libanesi, ha chiesto all’Alto Consiglio di stato della Libia di rompere i legami con tutti quei paesi che sostengono il sionismo di Netanyahu, chiudendo i rubinetti del petrolio. Non quello del gas, semplicemente perché gli Hezbollah, insediati nel governo libanese ormai da qualche anno, hanno firmato nel 2022 un accordo con Israele per lo sfruttamento dei giacimenti di gas offshore di Karish e Qana. Inoltre, Israele è autosufficiente, per quanto riguarda il gas, anche grazie ai giacimenti offshore di Leviathan, Karish e Tamar e, addirittura, è in grado di esportare in Egitto e Tunisia. Proprio a quei paesi arabi a cui gli Hezbollah chiedono di mettere al bando qualsiasi interscambio energetico. Sono le tipiche contraddizioni all’interno degli schieramenti imperialistici, dove il bianco rimane bianco fino a quando il nero non diventa economicamente più conveniente. E’ la solita logica dell’interesse che domina anche all’interno di quegli schieramenti imperialistici che sembrano ermeticamente blindati.
La crisi della guerra in Ucraina aveva già messo in crisi i rapporti petroliferi tra Russia ed Europa. Fatto saltare il Nord Stream 1, bloccato il Nord Stream 2, la maggioranza dei paesi europei ha dovuto orientarsi verso altri mercati. Il Nord Africa innanzitutto, poi il Centro Africa e infine l’Azerbaigian, Arabia Saudita ed Emirati colmano volentieri il vuoto lasciato dal petrolio russo che, nel frattempo, perso il cliente europeo, ha preso con un maggiore interesse di prima la strada verso la Cina e l’India. Persino Riad ha stabilito accordi energetici con la Cina, in barba ad una alleanza ormai stantia con gli Usa e rendendo incerto il suo stesso ingresso nel “Patto di Abramo”. Questi scenari bellici hanno già cambiato la geografia della filiera energetica su cui ancora si confligge, in attesa di altri teatri di scontro, ben più gravi per ripercussioni economiche e finanziarie, come nell’Indo-Pacifico, nella mai risolta questione di Taiwan, con la guerra telematica e la ricerca di materie prime funzionali alle nuove tecnologie, come le terre rare, con relative guerre di conquista.
Mentre le borghesie internazionali tessono le trame di un conflitto imperialistico sempre più generalizzato, milioni di proletari si uccidono a vicenda in nome di interessi che non sono i loro. E’ il momento di rovesciare i termini della questione. Se si deve morire per qualcosa tanto vale che questo qualcosa siano gli interessi del proletariato e non quelli del nemico di classe, dei nazionalismi e della propensione imperialista alle guerre. Il proletariato internazionale è un'unica classe, dagli interessi comuni, che non sono certo quelli di eliminarsi reciprocamente. L’unica cosa che deve essere eliminata è la società borghese, il capitalismo che ne è la struttura e le guerre che ne rappresentano il modo di sopravvivere alle proprie contraddizioni, facendole combattere agli eserciti di schiavi salariati.
Sta scattando l’ora di rompere le catene. NO ALLA GUERRA SI ALLA GUERRA DI CLASSE. No alla barbarie del capitalismo in crisi, sì all’alternativa sociale che distrugga l’anello primario, quello che lega il perfido, iniquo rapporto tra capitale e lavoro salariato.
fd
foto: commons.wikimedia.org
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