Entusiasmi fuori posto. Sullo sciopero dell'auto negli USA

Un accordo che ha rotto il vincolo che schiacciava i salari sotto tutte le compatibilità d'impresa, nel nome della produttività e della redditività, è che ridà dignità autonoma alle retribuzioni.

Gli operai dell'auto e l'UAW piegano Ford, General Motors e Stellantis. Evviva!

Queste sono le dichiarazioni entusiastiche espresse dall'area del sindacalismo detto radicale(1), per altro condivise da quello confederale e da tanta parte della sinistra chiamata antagonista. Se tanto entusiasmo corrispondesse al vero, significherebbe che dovremmo tirare una riga sulle nostre analisi teorico-politiche della presente fase storica, in cui la crisi strutturale impone alla borghesia di prendere e non di dare, dei limiti molto ristretti concessi dal capitale all'azione economico-sindacale (per semplificare) della classe operaia – intesa come lavoro salariato tutto – e del sindacalismo in generale. Vorrebbe dire che il sindacato, basta che lo voglia, può ignorare “tutte le compatibilità” e tornare ad essere il difensore degli interessi del proletariato, non solo immediati, ma anche futuri e, per i più radicali, assolvere il ruolo di strumento privilegiato per la nascita e lo sviluppo della coscienza di classe. Noi, grigi “dottorini” in comunismo, saremmo stati clamorosamente smentiti, per cui non ci rimarrebbe altro che imborsare il violino e tornarcene a casa. Ma è davvero così?

Indietreggiare per saltare meglio, diceva ogni tanto uno che oggi sarebbe senz'altro qualificato come “superdottorino”, quindi anche noi, sia pure con molta modestia, facciamo un passo indietro e andiamo a buttare un occhio sullo sciopero indetto dalla UAW (United Auto Workers) nelle storiche “Tre Grandi - Big Three” (ma una volta molto più grandi) case automobilistiche statunitensi: Ford, GM, Stellantis (che comprende il marchio Chrisler, fallito ed acquisito per un tozzo di pane dalla Fiat di Marchionne)). Lo sciopero, cominciato a metà settembre e conclusosi alla fine di ottobre, approvato al 97% dagli operai/e, puntava, apparentemente, molto in alto. Le richieste principali, pur con qualche variazione tra le imprese e i siti produttivi, comprendevano: 1) aumento salariale del 40%, 2) reintroduzione del COLA(2), 3) eliminazione dei due livelli, imposti nel 2009, per cui quelli del primo livello, i neo-assunti, percepiscono un salario notevolmente inferiore a quello dei “vecchi”, dovendo aspettare poi otto anni prima di “godere” del salario pieno, 4) diminuzione dell'orario settimanale a 32 ore, 5) ripristino delle prestazioni pensionistiche e sanitarie a carico dell'azienda, in vigore prima degli accordi del 2009, patrocinati da Obama. Contemporaneamente a quegli accordi capestro (per la forza lavoro), il presidente USA concedeva generosi aiuti finanziari alle “Big Three”, per lo più sotto forma di prestiti, a condizioni particolarmente vantaggiose. Decorazione finale sulla torta cucinata dalle sapienti mani di padroni-governo- sindacato, la classe operaia (cioè la UAW...) si impegnava a non scioperare per un certo numero di anni, per dar modo alle imprese di risollevarsi e tornare a fare grande l'America. Era evidente che la grandezza dell'America si fondava e si fonda – come per qualsiasi altro stato, del resto – sulla compressione delle condizioni di lavoro, e quindi di esistenza, della classe lavoratrice, “chiamata” a chinare ancora di più la testa, a tirare una carretta diventata ancor più pesante di quanto già non lo fosse.

Ma i sacrifici dei lavoratori, benché non risolutivi, un qualche risultato l'hanno dato, se dal 2013 al 2022 i profitti aziendali sono cresciuti del 92%, quantificati da alcuni in 250 miliardi di dollari. Sull'onda di questi risultati, i dirigenti si sono aumentati i compensi del 40%, assicurandosi “benefit” aziendali di vario tipo e distribuendo lauti dividendi agli azionisti. Dunque i soldi ci sono, dicono i riformisti, compresi quelli travestiti da rivoluzionari; certo che ci sono, ma a loro sfugge che quei soldi devono essere indirizzati ad altri fini, oggi più che mai inconciliabili con una ridistribuzione verso il basso. In parte, solo in parte, vengono reinvestiti nella produzione – l'economia reale, per semplificare – il resto va a incrementare le forme parassitarie, per così dire, dell'appropriazione di plusvalore: l'incremento abnorme del reddito dei dirigenti/proprietari e la speculazione finanziaria. Il motivo è sempre quello, anche se può apparire paradossale: nonostante l'estorsione del plusvalore, cioè lo sfruttamento, sia stata intensificata in ogni maniera, non basta a rendere sufficientemente convenienti, in termini di saggio di profitto, sistematici investimenti produttivi. Questo vale, ovviamente, per il capitale nel suo complesso, perché ci sono diverse eccezioni (che confermano la regola), sebbene anche le “eccezioni” usufruiscano in un modo o nell'altro dell'aiuto statale, stampella di cui il capitale, ad ogni latitudine, non può fare a meno. Visto che si sta parlando del settore automobilistico, viene facile fare riferimento al piano IRA (Inflation Reduction Act) varato da Biden lo scorso anno, che, assieme ad altri programmi, fornisce incentivi e sostegni consistenti alla cosiddetta transizione verde dell'industria dell'auto made in USA.

Prima di proseguire il discorso, vale la pena di puntualizzare alcune cose sul salario, visto che di “favolosi” aumenti salariali si sta parlando.

Il salario è strettamente legato alle condizioni dell'economia capitalista, nelle quali, va da sé, viene condotta la contrattazione: sono quelle condizioni che stabiliscono i limiti della contrattazione salariale stessa. E' evidente però che se la classe non lotta o le sue lotte sono dirette dal sindacato, la cui prima preoccupazione è quella di non intralciare il processo di accumulazione, il capitale ha buon gioco nello spingere sempre più in basso il livello del salario, persino al di sotto del valore della forza lavoro, al di sotto di quelle che sono le condizioni “normali”, per così dire, dello sfruttamento. In pratica, è quello che sta accadendo in questi decenni è quello che è avvenuto, in particolare, per i facchini della logistica, dove un'intensa conflittualità sindacale – pagata con un'occhiuta repressione statale – ha ristabilito, in molte aziende, un tasso “medio” di sfruttamento, cioè, per esempio, il rispetto dei contratti nazionali di lavoro o persino un loro miglioramento, visto che si tratta di contratti sempre al ribasso. E' la caduta del saggio di profitto che impone il peggioramento delle condizioni generali della classe lavoratrice, quale via maestra per cercare di ristabilire un saggio di profitto adeguato.

Detto questo, quelle lotte sono da guardare con la puzza sotto il naso? No di certo, soprattutto per la generosa determinazione dei facchini; si tratta solo di vederle per quelle che sono, senza fuorvianti trionfalismi.

Ma torniamo alla montagna di denaro entrata nelle casse delle “Tre Grandi”: quello che rimane, dopo gli investimenti (deboli) e le “remunerazioni” dei padroni (azionisti, manager, AD: possessori e agenti del capitale), può essere ridistribuito – non senza lotta! - a chi quella ricchezza la produce, ma senza scalfire nemmeno lontanamente le compatibilità del capitale e dell'impresa in particolare.

Difatti, di fronte alle richieste sindacali, il padronato ha offerto un aumento del 21-23% e qualche altro “benefit”. Insomma, come da ordinaria prassi sindacale, compratore e venditore della merce forza-lavoro si sono confrontati e alla fine si sono accordati sul “giusto” prezzo. Il punto però è che il venditore, cioè il suo rappresentante (con un miliardo di virgolette) ha più a cuore gli interessi di chi compra che di chi dovrebbe rappresentare. Fuor di metafora, i risultati di sei settimane di mobilitazione operaia sono ben lontani da quel trionfo che i “sinistri” sunnominati credono di vedere. Niente riduzione dell'orario di lavoro, reintroduzione di un COLA depotenziato rispetto a quello antecedente il 2009, mantenimento dei due livelli, anche se il passaggio dall'uno all'altro è stato ridotto a tre anni, invece di otto, mantenimento del lavoro interinale e temporaneo, ed è ovvio che sia così, visto il carattere strutturale che rivestono nel mercato del lavoro. E' stato rifiutato, inoltre, il ripristino delle prestazioni pensionistiche e sanitarie a carico dell'azienda, il che significa accettare il furto del salario indiretto e differito: è anche grazie a questo scippo che è stato finanziato l'innalzamento dei salari. Infine, aumento salariale per la categoria più alta del secondo livello a 40 dollari all'ora, ma nell'ultima tranche del 2028, che corrisponde a un rialzo tra il 25 e il 30%; per gli interinali e quelli del primo livello, aumenti medi del 68%. Un ottimo risultato, in apparenza, ma il 25-30% non è poi così lontano dalla controfferta padronale e se i padroni hanno “sparato” quella proposta iniziale, in apparenza così alta, significa che i loro margini per una concessione erano più larghi, come infatti è avvenuto. Secondariamente, ma non per importanza, i salari dei neoassunti in vigore prima dell'accordo di ottobre – attorno ai 17 dollari -, solo con grande fatica permettono livelli minimi di esistenza (se si rimane sani e non ci sono imprevisti): non è un caso se qualche anno fa, prima della fiammata inflazionistica, le mobilitazioni operaie nel settore della ristorazione chiedevano il salario minimo a 15 dollari. Terzo, i 40 dollari orari sono, in termini reali, inferiori a quelli del 1976 e va già bene (si fa per dire) se recupereranno quanto il salario operaio ha perso in particolare negli ultimi vent'anni, cioè il 30% del proprio potere d'acquisto(3); il tutto, sperando che l'inflazione da qui al 2028 si sfiammi e rimanga bassa. In breve, le condizioni della classe operaia dell'auto americana – come del resto di tutto il lavoro salariato – sono scese così in basso, con il contributo fondamentale del sindacato, che i profitti aziendali sono schizzati verso l'alto, più della media, diciamo così, il che ha permesso la concessione di un parziale e ovviamente insufficiente recupero del terreno perso in questi decenni. Altro che vittoria operaia: è il solito “pacco” padronal-sindacale! Non è un caso che abbia suscitato l'incazzatura di una robusta minoranza di operai: se a Stellantis e alla Ford il contratto è stato approvato col 69% circa di , alla GM è passato con più fatica (quasi il 55%) e in sette stabilimenti su undici è stato respinto(4), là dove l'età media, come la qualificazione, è più alta e la pensione più vicina, una pensione impoverita anche da questo accordo “vittorioso”.

Per completezza di documentazione, aggiungiamo che un “Commettee Rank and File” (un comitato di lotta, di sciopero) della GM di Flint accusa la UAW di avere confezionato l'approvazione col solito sistema di inganni, frodi e minacce durante le votazioni. Non sappiamo se il comitato sia una reale espressione operaia o solo una proiezione politica del sito/gruppo trotskysta da cui abbiamo preso alcune informazioni, così come non possiamo esprimerci sulla denuncia della condotta fraudolenta del sindacato fatta dal comitato, anche se la cosa non ci stupirebbe. C'è però un altro aspetto che ci fa denunciare il modo in cui la UAW ha organizzato e diretto lo sciopero. Il sindacato ha praticato, infatti, lo “stand-up strike”, lo sciopero a scacchiera; questa modalità di lotta può essere in certi casi una tattica iniziale adeguata, ma come prologo alla entrata nella battaglia di tutto l'esercito operaio coinvolto, altrimenti rischia di essere una “furbata” negativa, in termini politici (e anche immediatamente pratici). Il valore dello sciopero, al di là dei risultati “materiali” conseguiti, sta soprattutto nella possibilità di far nascere – e sviluppare – l'unità e la coscienza di classe, cosa che la UAW, coerentemente con la propria natura, ha impedito in partenza. Ha limitato la lotta, permettendo a molti stabilimenti di continuare a produrre, cioè a estorcere plusvalore, rafforzando l'impresa, nel mentre ha indebolito la forza del proletariato. Non solo: com'è noto, ha addirittura permesso che Biden – ovviamente per mere ragioni elettoralistiche – si facesse vedere a un picchetto operaio; è quello stesso Biden che l'anno scorso, anticipando l'ineffabile Salvini, ricorse a una legge del 1926 per soffocare sul nascere lo sciopero dei ferrovieri. I politicanti borghesi ogni tanto amano travestirsi da operai, per fregarli meglio; da queste parti era stato il Berlusca a infilarsi la tuta da presidente-operaio nelle sue recite da guitto antioperaio. Ma questo rientra nella normalità del politicantismo borghese e dei falsi amici della classe operaia, non certo ultimo il sindacalismo più o meno “ufficiale”.

Non è o non dovrebbe invece essere normale che sindacalisti “alternativi” e internazionalisti a mezzo servizio esultino per una lotta che non solo è stata, nel complesso, perdente, ma non ha fatto avanzare di un centimetro la coscienza di classe. Anzi, per essere precisi, e prendendo in prestito una frase famosa, un passo in avanti e due o tre indietro. D'altra parte, non è certo dal sindacato - “tradizionale” o “combattivo” - che il proletariato può acquisire coscienza di classe e innervare una prospettiva coerentemente anticapitalista alle sue lotte, anzi: solo la presenza attiva dell'organizzazione rivoluzionaria, il partito, può fargli compiere questo salto politico qualitativo...

cb

Note:

foto: commons.wikimedia.org

PS A metà dicembre, la Stellantis ha annunciato il licenziamento “temporaneo”, a febbraio 2024, di quasi 4000 operai, per lo più temporanei, ma assunti da tre o quattro anni, negli stabilimenti di Toledo e di Detroit. Il contratto assicurava che nessun posto di lavoro sarebbe stato toccato...

(1) Rispettivamente, G. Cremaschi ne Il Fatto Quotidiano del 5 novembre 2023 e dal sito del SiCobas il 6 di novembre.

(2) Una specie di scala mobile – Cost of living adjustment - che, però, naturalmente, non copriva per intero l'aumento del costo della vita.

(3) Abbiamo preso questi dati da un sito trotskysta americano, www.wsws.org, e da Alex N. Press, Il senso della lotta della UAW, in Jacobin Italia, 16 settembre 2023.

(4) Sharon Smith, Etats-Unis. Après quatre décennies de défaites, le retour de luttes syndicales victorieuses [Stati Uniti. Dopo quattro decenni di sconfitte, il ritorno di lotte sindacali vittoriose] www.alencontre.org, 22 novembre 2023. Questo sito trotskysteggiante, a differenza di quello americano, sposa in pieno la teoria della “vittoria” operaia: misteri del trotskysmo...

Mercoledì, December 20, 2023