No alla destra fascistoide, no alla democrazia borghese

"Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per cosí dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa." Karl Marx ,Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, 1852.

Accanto al quotidiano martellamento delle notizie dei massacri perpetrati ai danni di proletari e della popolazione civile in nome del dio profitto da attori imperialisti contrapposti nell'ultimo sanguinoso episodio della guerra tra Hamas ed Israele e nella guerra tra Ucraina e Russia, l'evoluzione della politica borghese si incarica di dimostrare la verità delle nostre tesi sulla natura dello Stato borghese e sulle sue elezioni, con tutto il loro corollario di annesse "libertà".

Dalla composita accozzaglia della sinistra e del centro della borghesia salgono gli appelli allo stato di allerta contro l'autoritarismo del governo Meloni e il pericolo che quest'ultimo rappresenterebbe per la sacra Costituzione italiana.

Le grida di allarme della sinistra borghese non sono del tutto fake news: dall'occupazione dei media e delle participate alle mostre su Tolkien, organizzate a spese dello Stato, fino alla compressione del diritto di sciopero, al decreto Cutro e alle misure contro la registrazione dei figli delle coppie omosessuali, all'uso incessante dei decreti legge e all'annunciato disegno di legge di riforma costituzionale, si moltiplicano i segnali di un'ulteriore evoluzione autoritaria della democrazia borghese italiana.

L'ultimo disegno di legge costituzionale, annunciato ambiziosamente dall'aspirante ducessa di Fratelli d'Italia come "la madre di tutte le riforme", è esemplificativo dell'approccio assunto dai fascistelli nei confronti degli equilibri istituzionali dello Stato borghese italiano e della loro volontà di accaparrarsi fette sempre maggiori di potere politico-istituzionale, estromettendo da posizioni di governo la sinistra e il centro borghesi, che erano stati al governo, in un modo o nell'altro, quasi ininterrottamente dal 2011 al 2022. Il progetto di riforma costituzione prevede l'elezione diretta del Presidente del Consiglio, il cui incarico da parte del Presidente della Repubblica diventerebbe di conseguenza un atto giuridicamente obbligato, e muta, sempre per mezzo dell'elezione diretta del Presidente del Consiglio, i rapporti di forza tra esecutivo e Parlamento, che verrebbe eletto con un premio di maggioranza a liste bloccate - come del resto nella legge attuale1 - e che sarebbe chiamato di fatto a dare la fiducia al Presidente del Consiglio eletto direttamente, ridimensionando giocoforza al livello di una formalità l'istituto della fiducia parlamentare. Esaminando il disegno di legge di riforma costituzionale, è evidente l'intento di accentrare il potere nelle mani del Presidente del Consiglio e del suo partito anche in altre disposizioni che la completano, come l'obbligo che impone al Presidente della Repubblica, in caso di crisi di governo, di affidare l'incarico a un esponente della stessa coalizione di governo o al Presidente del Consiglio uscente e di sciogliere le Camere, se la formazione di un secondo governo non riuscisse ad andare in porto.

La risposta al progetto di riforma costituzionale è stata prevedibilmente di condanna da parte dei sedicenti partiti di opposizione in Parlamento e fuori e dal loro seguito di pennivendoli, tecnici e opinion-makers, che denunciano un rischio di vulnus alle tavole di Mosé della democrazia italiana, in favore di un modello plebiscitario di democrazia. Oppure scrivono di una restaurazione che la riforma costituzionale opererebbe contro la Costituzione italiana fondata sul lavoro (aggiungiamo noi: sul lavoro salariato) o ci informano che l'obiettivo della ex (?) fascista della Garbatella sarebbe quello di comandare e non di governare. Non mancano i commenti dei costituzionalisti sui profili di inconstituzionalità della riforma costituzionale e, all'estero, la rivista l'Economist ha etichettato la riforma come un "power grab" (presa di potere). Si potrebbe notare che, anche se la legge dovrà essere sottoposta ad un referendum costituzionale, in caso di mancata approvazione dai due terzi dei componenti delle due Camere in seconda votazione, potrà facilmente passare, vista l'assenza di un quorum e il consenso di cui gode il governo.

Tutto quanto abbiamo detto significa che ci dovremmo unire al coro della sinistra borghese sulle pseudo libertà calpestate e sull'autoritarismo strisciante e disperare delle sorti dell'Italia caduta in pasto dei post-neo-ex (?) fascisti? Si avvereranno le previsioni della sinistra riformista sul pericolo fascista e sulla necessità che il "popolo della sinistra" si unisca per fermarlo? I post (?) fascisti al potere provano a consolidare la loro permanenza al governo perché non avrebbero fatto i conti con il loro passato fascista? Niente di tutto questo. Il capitalismo, per mezzo dei suoi fedeli funzionari e servi, ha sempre cercato di mistificare le conseguenze della divisione della società capitalista nelle classi contrapposte della borghesia e del proletariato e ha propugnato nelle sue forme sovrastrutturali un'impossibile ricomposizione (se non ovviamente a favore del capitale) degli interessi delle due classi antagoniste attraverso lo Stato, che sarebbe costituito per mediare il conflitto tra le classi, sintetizzando un interesse nazionale che nell'ideologia borghese viene spacciato come appartenente a una comunità indistinta, in cui il proletariato si sarebbe fuso, accettando le regole di un gioco politico in realtà gestito dalla borghesia. La divisione della società in classi e l'esistenza del proletariato sono ammesse da molti pubblicisti, ma viene in ogni caso negato che la struttura sociale, composta dalle forze produttive e dai rapporti di produzione, determini la sovrastruttura politica-istituzionale. In tutti i casi, i pubblicisti al servizio del capitale vendono al proletariato e alle fasce sociali vicine ad esso l'illusione secondo cui il capitalismo possa essere fatto "funzionare" per tutti, grazie al rispetto delle regole del gioco.

La natura dello Stato come strumento di oppressione organizzata di una classe sull'altra e di conservazione della struttura sociale su cui questo si basa viene negata. Il capitalismo ha assunto nella sua storia diverse forme sovrastrutturali e si trovano stati capitalisti di tutti i tipi: dal capitalismo di stato in salsa cinese, agli stati in cui l'ideologia ufficiale è l'integralismo islamico, ma l'involucro che si è rivelato più adatto alle sue esigenze di conservazione è stato e continua ad essere quello democratico, finché le difficolà nel ricostituire un processo di accumulazione e la lotta di classe non minaccino concretamente il potere borghese. Nel regime parlamentare la borghesia camuffa la sua dittatura di classe in forme democratiche attraverso rappresentanti eletti dall'elettorato che, dopo essere stati delegati dalla " cittadinanza sovrana" in occasione delle elezioni, ne rappresenterebbero le esigenze, rispondendo in ultima istanza agli interessi della nazione. Nella democrazia capitalista sparirebbero così nei sogni degli ideologi borghesi le divisioni in classe e si formerebbe un mercato delle idee in cui qualsiasi "categoria sociale" (siccome il proletariato secondo lor signori non esiste) possa assumere la direzione della società "nel rispetto dei diritti delle minoranze e dell'interesse nazionale". Lo Stato, secondo lor signori, non è il comitato di affari della borghesia, ma un organismo neutro istituito per la convivenza civile e la preservazione dell'interesse comune. La "forza" sociale dei proletari, che sono costretti a vendere la propria forza lavoro per vivere e che non hanno nessun potere come singolo, viene equiparata a quella della borghesia che, in virtù del controllo dei mezzi di produzione/distribuzione detta le regole del gioco in tutti i modi possibili, dal lobbying alla corruzione alla proprietà dei media, fino al nodo a doppio filo che in generale lega lo Stato al capitalismo, di cui è espressione.

Non serve recarci negli Stati Uniti, dove il lobbying è regolamentato e l'influenza delle Pac (comitati elettorali presenti in paesi come gli Usa o il Canada che raccolgono fondi tra i loro aderenti allo scopo di indirizzare il risultato di votazioni in modo a loro gradito) è stata ritenuta ammissibile dalla Corte Suprema americana: basta rimanere in Italia per capire che cosa significano l'interesse nazionale, la democrazia capitalista e i diritti delle minoranze. In Italia il governo Meloni, in perfetta sintonia con i suoi predecessori di ogni colore politico, attacca il salario indiretto e differito abolendo anche il reddito di cittadinanza e riformando le pensioni (leggi: adeguando il tutto alle esigenze del capitale), mentre cavalca il malcontento di una classe lavoratrice atomizzata e priva di riferimenti di classe, criminalizzando i migranti allo scopo di dividere il proletariato e di mantenere il proletariato migrante sotto la spada di Damocle dell'espulsione. Proprio come i governi di ogni colore politico hanno approvato leggi che hanno reso sempre più precario e ricattabile il lavoro del proletariato "indigeno", lo stesso attacco è stato lanciato di nuovo contro il proletariato migrante, costretto in buona parte dei suoi componenti ad una condizione fuori dalla legalità borghese. Il tutto in barba allo "spirito della Costituzione italiana" e alle norme del diritto internazionale ed europee. Nella democrazia capitalista l'aggressione contro le condizioni di vita e di lavoro del proletariato e le misure criminali a protezione della competitività del "sistema Paese" vengono ricondotte alla volontà o al consenso della "cittadinanza". Non è un caso che tutte le forze politiche borghesi si richiamino alla loro democrazia e che la stessa Meloni, nell'annunciare la proposta di riforma costituzionale, la sbandierasse demagogicamente come uno strumento per dare più potere all'elettorato.

Nell'imperialismo la commistione tra lo Stato e i vertici dell'economia raggiunge il culmine con l'estendersi della competizione capitalista a un livello internazionale e poi mondiale, per cui gli Stati tendono tutta la loro azione a supportare, a garantire l'accumulazione capitalistica e a rafforzare il loro apparato repressivo con un inevitabile corollario di devastazioni belliche che, per un grosso numero di belle anime al servizio del capitale, sarebbero il frutto di scelte politiche guerrafondaie. Ai fini di difendere il regolare svolgimento dell'accumulazione capitalistica, lo Stato non tollera nessun ostacolo che in qualche modo si opponga al moloch capitalista, men che meno da parte dellla classe lavoratrice, la classe su cui si fonda l'intero sistema di sfruttamento dello stato capitalista. Espressioni della cosiddetta società civile, come il sindacato e i partiti borghesi della “sinistra” si trasformano de facto in organi dello stato borghese, traendone l'agibilità politica e la possibilità di avere delle fette di potere decisioniale sull'andamento del sistema, mentre sul posto di lavoro il padronato o i funzionari del capitale - nei paesi a capitalismo avanzato - riconoscono nei sindacati degli interlocutori che gli permettono di imbrigliare il conflitto di classe nelle compatibilità del capitalismo e di programmare il prezzo della forza lavoro.

A chi ci replica che si tratti di una visione superata del capitalismo e del suo Stato ferma a Lenin, basta ricordare come diversi tra i leader dei partiti che hanno appoggiato il governo Draghi e che sono stati sconfitti nelle elezioni del 2022, siano stati in seguito lautamente ricompensati dai loro referenti economici e come gli stessi sindacati abbiano firmato – oltre trent'anni fa - le limitazioni al diritto di sciopero . Quelli che a prima vista possono apparire come "tradimenti" dei partiti della sinistra sono riconducibili al duplice ruolo da loro tradizionalmente ricoperto nei paesi a capitalismo avanzato2 nell'epoca imperialista della borghesia di rappresentanti di fazioni della loro borghesia nazionale e di mediatori degli interessi immediati della classe lavoratrice nell'ambito delle istituzioni borghesi, cioè la loro sottomissione, sempre, a quelli del capitale. E' la tenuta di questa collaudata forma di intermediazione degli interessi della società borghese a vantaggio della borghesia ad essersi incrinata nel periodo storico apertosi con la fine degli accordi di Bretton Woods, cioè della crisi del processo di accumulazione post-bellico. Sulla crisi della sinistra e sul successo elettorale negli ultimi anni dei partiti di estrema destra apertamente xenofobi e razzisti nei paesi a capitalismo avanzato non ci possono ormai essere dubbi. E' un fenomeno che è ammesso e studiato da sociologi ed esperti vari che si precipitano a raccontarci le loro tesi secondo cui la sinistra avrebbe perso la sua identità e abdicato alla sua funzione di difesa delle "classi popolari" e "della giustizia sociale" cedendola alla destra . Le tesi degli accademici sono mistificazioni interessate, ma è innegabile che, di pari passo con l'esplodere delle contraddizioni dovute alla crisi dell'attuale ciclo di accumulazione capitalista, i partiti della sinistra borghese abbiano giocato la carta dei diritti civili. Nei decenni della fase ascendente del ciclo di accumulazione capitalista immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, gli alti saggi medi del profitto rendevano possibile la costruzione del welfare state (a spese del proletariato) e un miglioramento del tenore di vita della classe lavoratrice, senza che ciò inceppasse il processo di accumulazione capitalistica. Nel contesto post-bellico i partiti della sinistra borghese, che fossero di stampo socialdemocratico o si richiamassero a un capitalismo di stato spacciato per socialismo, potevano allineare la classe lavoratrice sul terreno del riformismo "socialista" e "assimilarla" nello Stato democratico borghese, a fronte della concessione del welfare State, che nell'ideologia socialdemocratica ne sanciva la dissoluzione nella "cittadinanza", come destinataria di diritti sanciti dall'apparato statuale borghese. Con l'inizio della crisi del processo di accumulazione capitalistica, tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70, la classe lavoratrice – a partire dai settori più sfruttati - reagisce alle prime ristrutturazioni e avanza istanze che contestano l'inadeguatezza del sindacato e dei partiti della sinistra borghese nel tutelarla, anche sul piano delle istituzioni borghesi. Tra l'altro, Quei settori della classe lavoratrice spesso appartengono a gruppi sociali che nella società borghese sono soggetti a discriminazioni sistematiche su basi etniche, di genere o per altre motivazioni soggettive. Stante la debolezza della classe lavoratrice e l'impossibilità di uno sbocco classista (per la mancanza/marginalità estrema di un punto di riferimento rivoluzionario), la piccola e media borghesia si riappropriano di queste rivendicazioni e le riconducono nel vicolo cieco di una richiesta di riconoscimento dei diritti civili nell'ambito delle istituzioni borghesi. Per la piccola e la media borghesia le discriminazioni sistematiche costituiscono un pericolo per il consolidamento e l'incremento della loro ricchezza, mentre l'ideologia dell'identity politics si è fatta strada anche in ampi settori di classe lavoratrice frammentata dalle delocalizzazioni e dalla crescita dell'occupazione nel terziario. Con la nuova composizione della classe lavoratrice appare immediatamente plausibile il vecchio cavallo di battaglia della sinistra borghese secondo cui le discriminazioni e le scelte politiche sbagliate, e non lo stesso capitalismo, sarebbero le responsabili dello sfruttamento. Nell'ideologia e nella politica dell'identity politics lo sfruttamento della classe lavoratrice non è alla base della società capitalista, ma è una forma di oppressione alla pari di altre da rettificare con una lotta per i diritti civili nell'ambito delle istituzioni borghesi, alleandosi con altri "soggetti" oppressi. I partiti della sinistra borghese si sono rivolti proprio ai movimenti per i diritti civili per frenare la crisi del loro consenso e intercettare voti, proponendosi come partiti alleati dei movimenti per il riconoscimento dei diritti civili a favore di "soggettività" discriminate. Le riforme antiproletarie imposte dalla crisi strutturale del capitalismo - crisi dovuta in ultima istanza alla caduta tendenziale del saggio di profitto - e le delocalizzazioni, hanno reso questa strategia un passo obbligato per i partiti della sinistra borghese, che nei paesi a capitalismo avanzato non hanno più potuto fare affidamento come prima sui voti di quella classe lavoratrice sindacalizzata che costituiva il loro serbatoio elettorale. Sul piano sovrastrutturale, anche il crollo del capitalismo di Stato dei paesi del cosiddetto "socialismo reale" ha ridimensionato la capacità della sinistra borghese di porsi allo stesso tempo come rappresentante della borghezia nazionale e intermediario delle istanze della classe lavoratrice nelle istituzioni borghesi. Anche se il nuovo orientamento ideologico della sinistra borghese ha assolto alla sua funzione di recuperare il conflitto di classe e di riportarlo sui binari dell'interclassismo, non ha nella maggior parte dei paesi a capitalismo avanzato bloccato l'erosione del consenso dei partiti della sinistra borghese. Il loro nuovo orientamento politico pretende di creare un capitalismo umano e inclusivo che elimini le discriminazioni e i privilegi, ma la loro ricetta politica una volta al governo si è rivelata -come era prevedibile - un'illusione. Ponendosi i partiti della sinistra borghese su una base interclassista e non mettendo in alcun modo in discussione il capitalismo, non hanno potuto intaccare quelle forme di oppressione che sono state ereditate da modi di produzione precedenti al capitalismo (vedi per es., l'oppressione di genere, appunto) e che hanno finito per connaturarlo. Nel capitalismo, la presunta lotta a forme di oppressione che ne sono parte integrante si traduce in politiche di sostegno e promozione di strati di piccola e media borghesia (le mezze classi) e galvanizza proprio quegli apologeti apertamente reazionari della compressione dei diritti civili che hanno seminato il loro veleno razzista e fascisteggiante nella classe lavoratrice. Non possiamo tacere a proposito di come la sinistra borghese, con la sua azione politica e la sua finta lotta all'oppressione, abbia perpetuato e accentuato le divisioni della classe lavoratrice al suo interno, tra quelli che definisce in modo interessato come i "privilegiati" nella classe lavoratrice e gli strati più sfruttati di quest'ultima, che appartengono in buona parte anche a categorie discriminate. Dopo che la sinistra borghese ha diviso e ingabbiato la classe lavoratrice nei vicoli ciechi (per la classe lavoratrice ma non certo per il ceto politico riformista o per il mantenimento della società capitalista) del parlamentarismo e del sindacalismo, la destra populista e sovranista ha avuto gioco facile ad accampare il titolo farlocco di difensore " del popolo lavoratore" contro la sinistra borghese e i liberaldemocratici, che vengono per questioni di bottega identificati dal fascistume come emissari dei "poteri forti". Del resto, come abbiamo già scritto in molti articoli, perchè un proletariato "indigeno" isolato e privo di orizzonti di classe non dovrebbe votare per i sovranisti che promettono una fine del deterioramento nelle condizioni di vita di pari passo con la difesa dallo "straniero", quando ha sperimentato che "gli amici del popolo" della sinistra borghese non offrono degli argini contro lo strapotere padronale? La destra sovranista e fascistoide si è quindi candidata- in tutto il mondo e specialmente nei paesi a capitalismo avanzato - come la salvatrice della patria di fronte alla crisi della rappresentanza politica borghese. Nei paesi a capitalismo avanzato, in cui le contraddizioni del capitalismo hanno provocato una crisi radicale della rappresentanza borghese, intaccando la capacità dei partiti politici di porsi come intermediatori degli interessi della società borghese e dove si è ha avuto, in concomitanza, un'ascesa dei consensi del sovranismo fascistoide, i partiti della destra sovranista hanno puntato ad accentrare il potere politico-istituzionale nelle loro mani e a rendere marginale il ruolo dei partiti borghesi non allineati a loro e dei sindacati. Quando esponenti della sinistra liberaldemocratica o socialdemocratica scrivono su giornali come Micromega - a proposito della proposta di riforma costituzionale del governo Meloni - di una fine della Repubblica fondata sul lavoro, non si preoccupano di certo delle "libertà" della classe lavoratrice, piuttosto temono una riduzione del ruolo dei partiti della sinistra borghese e dei sindacati nella gestione dei conflitti sociali del capitalismo italiano, nell'ambito delle istituzioni borghesi (cioè del loro soffocamento).

Alla luce di quanto abbiamo detto sull'operato del governo Meloni e dei suoi tentativi di accaparrarsi il potere politico-istituzionale, verrebbe naturale accostarlo d'acchito al fascismo storico. Non hanno infatti esitato diversi commentatori a qualificare l'azione del governo Meloni come fascista o a definire il sovranismo come un fascismo 2.0 . Al netto delle indubbie somiglianze tra i due fenomeni, sarebbe tuttavia un errore ritenerli equivalenti. Il fascismo storico nasce negli anni in cui proletariato tenta la soluzione rivoluzionaria, si nutre dell'appoggio della borghesia e delle debolezze dello Stato liberale per schiacciare la classe lavoratrice e le sue organizzazioni e sostituirle con organizzazioni dello Stato totalitario che inquadrassero il proletariato sul posto di lavoro e nel tempo libero. Il populismo sovranista e fascistoide viene invece alla luce in un periodo storico in cui i sindacati e gli ex partiti operai hanno da tempo completato il loro processo di trasformazione in ingranaggi dello stato borghese e la classe lavoratrice viene da decenni di controrivoluzione, dopo l'isolamento della rivoluzione russa. Dove non c'è un movimento rivoluzionario della classe lavoratice da reprimere e non ci sono organizzazioni proletarie da distruggere per sostituirle con organizzazioni espressione dello Stato, non si può parlare di fascismo. Lo scenario che la borghesia cerca di impedire sostenendo il sovranismo non è la rivoluzione, ma la possibilità che la classe lavoratrice riprenda a muoversi autonomamente dalle forze delle sinistra borghese e dei sindacati e fuoriesca dalla sua passività davanti all'offensiva lanciata dalla borghesia contro le sue condizioni di vita negli ultimi decenni: una prospettiva che sarebbe intollerabile per una borghesia alla prese con saggi di profitto bassi e con scontri inter-imperialistici in via di inasprimento. La borghesia ha perseguito il suo obiettivo di neutralizzare in via preventiva il conflitto di classe, spalleggiando sia la sinistra borghese che la destra borghese, ma è naturale che nei paesi a capitalismo avanzato, dove il sistema di intermediazione politica si è sfasciato (altro fenomeno non collaterale della crisi del processo di accumulazione), la borghesia si accodi – anche se non raramente di malavoglia, almeno per certi settori borghesi - dietro al sovranismo fascistoide, la “merce” politica che oggi va per la maggiore nel mercato della politica borghese. Il sovranismo si colloca d'altronde, a discapito dei suoi proclami demagogici contro le elites, pienamente sul terreno della conservazione borghese e promette alla borghesia di radunare il proletariato attorno alla bandiera nazionale, deviando il malcontento proletario sul falso nemico rappresentato dal proletariato immigrato e dai " diversi" appartenti a categorie discriminate, che molto spesso sono essi stessi proletari. Per realizzare questa pretesa comunione con il "popolo lavoratore", così da poterlo aggredire meglio, il populismo fascistoide scavalca le formazioni intermedie della società borghese e non ne costruisce di nuove come fece invece il fascismo. Il sovranismo fascistoide condivide sostanzialmente con la sinistra borghese una diagnosi della crisi economica e politica del capitalismo, in cui sono le scelte sbagliate ad aver scatenato la crisi, ma, a differenza della sinistra borghese, ne attribuisce la responsabilità alle "elites liberali". Che il sovranismo non sia fascismo non significa sminuire la sua ferocia contro la classe lavoratrice e sottovalutare la sua presa ideologica su quest'ultima o la sua natura di strumento del padronato: il sovranismo si colloca interamente sull'orizzonte della conservazione borghese alla pari delle altre forze politiche e il suo progetto politico interpreta le esigenze del capitalismo italiano oltre ai suoi singolari interessi di bottega. Ne è un esempio il progetto di riforma costituzionale che con la corrispondente compromissione dell'influenza politica dei partiti di opposizione si inserisce in una logica volta a rafforzare il potere politico del Presidente del Consiglio per consentire alla borghesia italiana di liberarsi dai lacci e lacciuoli dei compromessi dell'intermediazione parlamentare, per infliggere al proletariato altri colpi alle sue condizioni di vita e prepararlo alla guerra, dotando allo stesso tempo l'esecutivo di un'unità di intenti e stabilità consoni alla proiezione internazionale dell'imperialismo italiano. Anche se è una linea che, aggirando i “corpi intermedi” rischia di esporre la borghesia ad uno scontro frontale con il proletariato, il personale politico populista calcola di addormentare il conflitto di classe e di guadagnarsi un consenso plebiscitario nelle fila del "popolo lavoratore" elargendo elemosine alla classe lavoratrice, finanziate da tagli al welfare state e da spostamenti di poste di bilancio da uno strato ad un altro della classe lavoratrice. Nel frattempo, il sovranismo fascistoide incamera i voti di strati della piccola e media borghesia impauriti dalla crisi con la flat tax e i regali agli evasori e si propone come principale referente della grande borghesia italiana, ricalcando le politiche economiche del governo Draghi e fornendo garanzie sull'allineamento dell'Italia al blocco imperialista della NATO, fondamentale per la difesa degli interessi del capitalismo italiano. Anche se la borghesia liberal-europeista preferisce farsi rappresentare da altri partiti e diffida del tentativo del sovranismo fascistoide di concentrare il potere politico nelle proprie mani, potrebbe accettere obtorto collo la compressione del ruolo di figure come il Presidente della Repubblica, che tanto hanno servito il capitalismo italiano, pur di avere un governo che persegua sistematicamente gli interessi dell'imperialismo italiano e assicuri la pace sociale.

Forse si sorprenderanno quelli che ci accusano di indifferentismo politico della nostra presa di posizione sul progetto di riforma costituzionale del fascistume al governo: non siamo sempre noi a ripetere che i partiti politici istituzionali non rappresentano nulla di progressivo e corrispondono, al più, ad articolazioni di fazioni interne alla borghesia? Perchè prendiamo posizione allora? Solo in apparenza è una contraddizione. L'unico sbocco interno alla crisi strutturale del capitalismo è la guerra generalizzata tra potenze imperialiste che hanno già cominciato – o impresso un'accelerazione - a mettere a ferro e fuoco il pianeta e richiesto un tributo di vite sacrificate sull'altare del dio profitto. Il capitalismo deve distruggere capitali fissi e variabili con la guerra imperialista per far ripartire il ciclo di accumulazione capitalista. Che il fascistume riesca nel suo intento o le forze della sinistra borghese al contrario impediscano il successo della riforma, la classe lavoratrice sarà sempre votata al ruolo di vittima sacrificale e carne da macello. Per questo noi comunisti abbiamo il dovere di denunciare le mosse della borghesia, che in tutte le sue espressioni politiche cerca di agganciare il proletariato al carro della guerra imperialista.

Dalle contraddizioni di questa società putrida che ci trascina verso il baratro non ci potranno salvare né il fascistume né "i democratici": l'unica risposta alla marcia verso la guerra imperialista è una rivoluzione proletaria mondiale, che espropri del potere politico ed economico la borghesia e che inizi la transizione ad un modo di produzione basato sui bisogni umani e sulla cooperazione dei produttori liberamente associati e non sulla produzione per l'estrazione di plusvalore, cioè per i profitti. Perché questo avvenga, sarà indispensabile che si formi e si rafforzi un'avanguardia politica della classe lavoratrice - espressione del conflitto di classe permanente tra borghesia e proletariato - che nel suo programma chiuda ogni spazio alle illusioni sull'uso dello Stato borghese per fini rivoluzionari e che ponga quindi in primo piano la questione della conquista del potere politico, per realizzare la dittatura del proletariato sulla borghesia, che difenderà il proletariato rivoluzionario dai tentativi di reazione della classe nemica.

Mai come oggi è stato chiaro che senza l'abbattimento del modo di produzione capitalistico il futuro sarà la barbarie: di fronte a questo capitalismo decadente il proletariato non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare, liberando con sé tutta l'umanità

BC

1Vedi, per es., Legge elettorale, al via la partita della riforma tra soglie e premi di maggioranza - Il Sole 24 ORE

2 In questi paesi il loro ruolo è forse più evidente, per così dire, ma ovunque sinistra riformista/borghese e sindacati non prevedono nei loro programmi il superamento del capitalismo, al massimo, un suo abbellimento, in senso riformista, appunto.

Giovedì, December 14, 2023