Far finta di essere sani: la salute in Italia al tempo della privatizzazione

Le condizioni in cui si trova il Sistema Sanitario Nazionale in Italia destano preoccupazione in tutti gli osservatori più attenti e quel che è peggio da anni sono inserite stabilmente in una tendenza al ribasso. Proviamo qui a sintetizzare per sommi capi la materia, che è di per sé complessa, senza avere alcuna pretesa di esaustività.

I dati a volte variano a seconda delle rilevazioni e dei parametri. Come prima approssimazione teniamo per buona un’analisi di Eurostat(1) su base ventennale perché ci permette di fare un confronto con altri Paesi europei e di osservare le linee di tendenza di lungo periodo: nell’anno 2000 i posti letto ospedalieri in Italia erano 268.000, vent’anni dopo meno di 180.000. In questo arco di tempo quindi si sono persi oltre 80.000 posti letto, il che tradotto in percentuale significa passare da 4.8 letti ogni 1000 abitanti a 3.18. La tendenza al ribasso può anche non essere dovuta solo ad esigenze di bilancio, perché riflette in parte cambiamenti avvenuti nelle pratiche mediche che hanno ridotto il tasso medio di ospedalizzazione. Rimane il fatto però che in Germania nel 2020 si contavano ancora 7.8 letti ogni 1000 abitanti e in Francia 5.7 - pur essendo scesa la percentuale anche in questi Paesi - mentre in Italia siamo più o meno alla metà(2). Non v’è da stupirsi che la pandemia abbia impattato in modo diverso in termini di mortalità, al di là dei lockdown, dei green pass e delle differenti politiche di contenimento. Tra l’altro 3,18 letti/1000 è pur sempre la cosiddetta “media del pollo”, perché in realtà alcune Regioni meridionali stanno al di sotto di questo dato. Tutto ciò senza considerare un aspetto non secondario: nell’arco di tempo considerato il tasso di invecchiamento è cresciuto, specialmente in Italia, e questa è una variabile determinante nel calcolare la domanda di cure che una popolazione esprime(3).

La tendenza alla scomparsa dei posti letto naturalmente è un riflesso della tendenza alla riduzione del numero di ospedali o al loro accorpamento: su questo disponiamo di dati relativi al 1998(4) quando c’erano in Italia 1380 ospedali, di cui il 61% pubblici e il 38% privati; nel 2021 i dati del Ministero della salute(5) ci dicono che siamo arrivati a circa mille ospedali, con un calo quindi di quasi un terzo: di questi il 51% è pubblico, il 48% è privato accreditato. L’unica variabile che evita al numero di ospedali di scendere ancor più verticalmente in effetti è proprio il numero di ospedali privati che viene inaugurato ogni anno, nel 2020 per esempio su 12 ospedali aperti, 11 erano privati.

Questo travaso dal pubblico al privato sarà il filo conduttore che accompagnerà il nostro resoconto perché, com’ è facilmente intuibile, sanità pubblica e privata sono vasi comunicanti e la contrazione dell’una è inversamente proporzionale allo sviluppo dell’altra, con quali conseguenze vedremo a breve.

Abbiamo detto di ospedali e dei posti letto, ora spostiamo lo sguardo verso il personale: medici, odontoiatri, infermieri. La situazione del numero di camici bianchi è sfaccettata: come numeri assoluti l’Italia non partirebbe da una situazione di deficit rispetto agli altri paesi Europei, ma di fatto in alcuni settori la carenza c’è ed è forte, specialmente per molti profili di specialisti negli ospedali (medicina di urgenza, anestesia, rianimazione) e nella medicina generale. Le ragioni sono varie: a partire dal 2005 c’è stato il blocco del turn over inaugurato dal secondo governo Berlusconi e poi confermato dai diversi governi successivi; in seguito alle Regioni è stato imposto un tetto ai limiti di spesa per il personale che non doveva superare il budget del 2018. Questa situazione ha interrotto il ricambio generazionale e ad oggi ci troviamo con i medici dall’età media più avanzata in Europa: più di metà ha età pari o superiore ai 55 anni; oltretutto la cosiddetta “quota cento” ha incentivato in questo settore molti pensionamenti anticipati (forse quella dei medici è una delle poche categorie che se l’è potuta permettere, considerato il taglio dell’assegno). Date le condizioni anzidette e calcolando pensionamenti e dimissioni, tra il 2022 e il 2024 si stima che circa 40mila medici siano destinati a lasciare l’incarico. Alcuni specialisti trovano impiego all’estero(6), dove sono anche meglio retribuiti, altri si indirizzano verso il settore privato dove in certi casi possono trovare condizioni migliori. Solo nel periodo 2019-2021 sembra che 9.000 medici abbiano lasciato l’incarico. Le dimissioni volontarie sono un fenomeno recente, determinato in parte dalla situazione creatasi con la pandemia e in parte dall’aumento dei carichi di lavoro in molte realtà ospedaliere(7), prime fra tutte i pronto soccorso che sono in una situazione insostenibile. In generale la CGIL, per esempio, stima che manchino circa 20.000 medici e non di rado capita che non solo i pronto soccorso, ma a volte anche interi reparti siano ceduti a cooperative che reclutano i cosiddetti “medici a gettone”, offrendo servizi della cui qualità complessiva molti osservatori hanno motivi per dubitare(8).

Il consenso è unanime sul fatto che se la situazione dei medici è in parte critica quella degli infermieri è di gran lunga peggiore. Il rapporto Agenas(9) dice che l’Italia ha il rapporto più basso tra infermieri e popolazione residente, 33/1000 abitanti, mentre in Scandinavia il rapporto è 89-90/1000, e la media OCSE è 49. Su questo praticamente tutti gli osservatori sono d’accordo, non solo mancano da 40 a 60 mila infermieri in Italia, ma quelli che ci sono lavorano, sia dal punto di vista dei ritmi sia dal punto di vista economico, in condizioni di svantaggio rispetto ai loro colleghi europei, ciò che alimenta anche in questo caso il fenomeno della fuga all’estero dei neolaureati.

Abbiamo delineato per sommi capi le condizioni strutturali in cui versa la sanità italiana, ci sarebbero molte altre cose da dire, ma non è questa la sede né siamo noi gli osservatori più autorevoli per farlo: quello che ne risulta è un sistema che avrebbe urgente bisogno di un piano di investimenti massiccio se non per invertire la tendenza quantomeno per fermare l’emorragia in corso. Ciò che avviene però è esattamente il contrario.

In continuità con la linea già impostata dal governo Draghi (e dai precedenti), che ha aumentato il finanziamento al sistema sanitario solo per la parentesi pandemica, anche il governo Meloni prevede per il triennio del DEF 2022/2025 una riduzione della spesa sanitaria media dell’1.13% all’anno, e un rapporto spesa/PIL che, secondo l’ultima NADEF (Nota aggiornamento Documento di Economia e Finanza), nel 2025 arriverà al 6.1%, cioè al di sotto dei livelli pre-pandemici e soprattutto al di sotto della soglia del 6.5 sul PIL che l’OMS considera la soglia minima per garantire un servizio universale. In effetti l’unica cosa su cui non si è mai lesinato in Italia è la retorica con cui sono stati incensati i sanitari e tutto il sistema di cura durante la pandemia, giurando che mai più sarebbero stati trascurati.

Secondo l’index consumer health invece l’Italia è oggi al 22° posto su 35 Paesi europei per i servizi sanitari, essendo scesa di 11 posizioni solo negli ultimi 10 anni; ciò è coerente con il rapporto stilato da GIMBE, che dice che dal 2010 al 2019 sono stati sottratti al fondo di finanziamento pubblico circa 37 miliardi di euro. Eppure, riportare la spesa al 7% del PIL costerebbe circa 10 miliardi all’anno, una cifra che non è lontana da quello che si è speso in tempi recenti per il reddito di cittadinanza o per “quota cento”, meno di quello che si spenderà per il ponte sullo stretto (se mai verrà fatto...), tanto per fare un esempio, che purtroppo è facile come sparare sulla Croce Rossa.

Si dirà: la colpa è del debito pubblico e della spesa per interessi che riduce i margini di manovra dei governi. Certamente il debito e il servizio sul debito non sono fattori ininfluenti: lo Stato italiano deve onorare ogni anno una parcella di circa 80 miliardi di interessi, ma anche considerato questo - e anzi forse proprio considerando come questo debito si genera - vedremo che le cause di questo definanziamento sono meno semplici di come può sembrare a prima vista e sono legate a scelte politiche di fondo, le quali sono orientate a loro volta, in ultima analisi, da leggi economiche di fondo.

Cronologia per sommi capi delle riforme in sanità

Prima del 1978, anno di approvazione della legge 833 che istituì il Servizio Sanitario Nazionale, in Italia la cura della salute si fondava su forme di protezione assicurativa e previdenziale legate alla propria occupazione, facendo sì che il diritto alla salute dipendesse prevalentemente dalla condizione lavorativa. Le casse mutue, sorte originariamente dalle prime società operaie della fine del XIX secolo, furono oggetto durante il Ventennio, di tentativi di riorganizzazione e regolamentazione da parte del regime fascista, che intendeva unificarle in un sistema composto da pochi grandi enti. La riforma più significativa in questo senso fu però bloccata dallo scoppio della guerra. Anche nel dopoguerra, pertanto, la tutela della salute rimase vincolata al ruolo ricoperto da ciascuno all'interno del mercato del lavoro tramite il sistema delle mutue. Ne discendeva che le persone vulnerabili, disoccupate o sottoccupate e le loro famiglie non avessero accesso a forme adeguate di assistenza sanitaria.

La legge 833 del ‘78, pur senza mettere in discussione il sistema di regole economiche tipiche del capitale, fu un passo in avanti in direzione di una tutela universale del diritto alla salute, ma fu anche l’ultimo risultato politico “progressivo” di una stagione decennale di lotte di classe che avevano condotto un capitalismo ancora relativamente “in salute” fino all’inizio di quella decade a concedere tutto quello che poteva concedere. Da quel momento in avanti, con il progressivo affermarsi della legge di caduta tendenziale del saggio di profitto, che ebbe la sua prima manifestazione nella crisi del sistema di Bretton Woods e nel successivo ciclo di ristrutturazioni industriali, tutte le vittorie sociali di quel periodo furono prima gradualmente rimesse in discussione, poi poco alla volta smontate, e infine spazzate via.

I sinceri democratici di oggi e perfino qualche “socialista” di incerta identità, parlano in proposito di affermazione ideologica del neoliberismo e attribuiscono a questo l’origine dei fatti, senza rendersi conto che in questo modo fanno camminare a testa in giù un processo storico che ha coinvolto, in forme e tempi leggermente diversi, tutti i paesi avanzati. Eppure è molto difficile spiegare un processo di questa ampiezza con le teorie economiche alla moda di qualche intellettuale alla Milton Friedman o di qualche leader politico conservatore alla Reagan o Thatcher, è molto più facile invece comprenderlo contestualizzandolo sul terreno più solido e scientificamente verificabile di leggi economiche.

Sia come ciascuno vuol credere, fatto sta che già a pochi anni dalla sua nascita nel 1978, il Sistema Sanitario Nazionale ha cominciato a vedere volteggiare sulla sua culla degli strani uccelli dalle tetre sembianze. Sulla scorta della considerazione, non priva di fondamento, che la spesa sanitaria cresceva in modo incontrollato - ma il motivo per cui cresceva così era anche che veniva usata per generare e gestire consenso politico a livello locale - il liberale Francesco De Lorenzo, già sottosegretario alla Sanità a partire dal 1983, si candida a capofila della corrente politica che spinge per la riapertura ai privati, cosa che finalmente ottiene in veste di ministro nel 1992.

Si deve a lui il disegno della legge che riaprì in quell’anno ai privati le porte della sanità principalmente attraverso tre canali: la delega alle Regioni dei poteri di spesa (e in seguito la responsabilità del suo contenimento), la trasformazione delle Unità Sanitarie locali con cui i Comuni dovevano gestire i servizi sul territorio, in aziende controllate dalle Regioni e infine la riammissione degli attori privati all’accesso alla spesa pubblica.

Nel corso degli anni Ottanta le talpe del capitale italiano avevano continuato la loro lenta ma inesorabile opera di erosione, per esempio la Corte dei conti ha calcolato che nel periodo dal 1983 al 1992 le industrie farmaceutiche hanno profuso 15mila miliardi delle vecchie lire (traducibili sommariamente in 7-8 miliardi di euro) in tangenti per assicurarsi l’aumento arbitrario del prezzo dei farmaci. Ricordiamo qui anche il successivo arresto e la condanna di De Lorenzo nel 1994 in relazione ad un giro di tangenti per 9 miliardi di lire; il ritrovamento a casa di Poggiolini, direttore del servizio farmaceutico nazionale, di gioielli, lingotti e contanti nascosti nei divani e nei materassi. Impossibile poi non fare almeno un cenno al principale artefice della privatizzazione della sanità lombarda: il ciellino Roberto Formigoni, anch’egli condannato per aver dirottato milioni di euro di fondi pubblici alle attività della Fondazione Maugeri. Sarebbero sufficienti questi pochi episodi di cronaca giudiziaria, che certamente costituiscono la classica punta dell’iceberg, a dare un’idea degli enormi appetiti che la gestione della spesa sanitaria pubblica suscitava in un capitalismo affamato di profitti, a maggior ragione ora che nella sfera produttiva classica questi profitti erano (e sono) più faticosi per effetto dell’accresciuta composizione organica del capitale e per la conseguente urgenza di ridurre le spese che non fossero (e siano) produttive di nuovo plusvalore.

La legge del 1992 di De Lorenzo ammetteva i privati, ma al di fuori dei servizi connessi ai Livelli Essenziali di Assistenza; fu la legge n. 662 del 1996 dell’ulivista Bindi che introdusse, per la prima volta, il concetto di intramoenia, ad ampliare lo spettro di questi servizi e a consentire che il privato sostituisse a tutti gli effetti il pubblico anche, se necessario, tra le sue mura (appunto intramoenia).

Un’ulteriore picconata è stata data una quindicina di anni dopo dal Jobs act di Renzi, allora ancora leader del Partito Democratico(10), che ha completamente sdoganato e lubrificato il welfare aziendale - di cui le assicurazioni sanitarie sono una componente importante - detassandolo e incentivandolo. Nel 2019 con il decreto crescita del primo governo Conte si equiparano i fondi sanitari integrativi, che sono gestiti da società bancarie e assicurazioni, agli enti del terzo settore, quindi no-profit, inserendoli nell’ambito delle attività non commerciali. Il governo Conte 2 con il decreto-legge 53 (già Ministro della salute Speranza) ufficializza il blocco delle assunzioni: le Regioni non possono spendere per il personale più di quello che spendevano nel 2018.

Come si può vedere il processo che ha portato all’attuale agonia del SSN, e alla tradizionale privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite, si è avvalso del contributo di un ampio spettro di forze politiche(11), nessuno si è tirato indietro nel corso del tempo, benché questo non significhi ovviamente che tutti si siano fatti il divano imbottito di banconote, ma non è questo che ci interessa ora, se non per concludere con una battuta che evidentemente i divani comodi non piacciono solo ai percettori del reddito di cittadinanza (se ancora esistono).

Gli effetti della privatizzazione del sistema sanitario

In una ricerca pubblicata recentemente sulla prestigiosa rivista Lancet (12) si valutano gli effetti della esternalizzazione dei servizi sanitari in Gran Bretagna. Questa ricerca sviluppa un tema che era già stato affrontato una decina di anni prima da un altro studio, questa volta condotto in ambito italiano(13). Il parallelismo non è casuale perché Italia e Gran Bretagna hanno sistemi sanitari con ampi tratti in comune(14) e stanno affrontando trasformazioni simili.

Il parametro che viene preso in considerazione è quello della “mortalità evitabile”, cioè il numero di decessi che avrebbero potuto essere evitati tramite il ricorso a prevenzione, diagnosi e cure tempestive. Gli autori dello studio inglese mettono in relazione l’aumento della spesa sanitaria in outsourcing e l’incremento della mortalità evitabile e concludono che c’è una correlazione (non necessariamente causale dicono): ad ogni aumento del 1% della prima si assiste ad un incremento dello 0.38 della seconda. Lo studio fatto in Italia invece prende in considerazione un periodo anteriore, tra il 1993 e il 2003, quando la trasformazione in senso privatistico della sanità era ancora ai primi passi, ma anche questo studio conclude come ad ogni incremento di 100 euro della spesa pubblica pro-capite sia associata una riduzione della mortalità evitabile dell’1.47%, mentre l’incremento degli investimenti nel settore privato non è associato ad un calo della mortalità.

Il processo di privatizzazione o esternalizzazione viene generalmente accompagnato con l’argomento della necessità di una maggiore efficienza, ma che sia questo l’esito è tutt’altro che scientificamente dimostrato, a meno che non si vogliano estrarre i dati a piacere. Se c’è una riduzione dei costi spesso non è tanto per una migliore organizzazione quanto per il ricorso a personale sottopagato e precario. Come ha spiegato Marco Geddes(15), le conseguenze della privatizzazione sono tre: maggiore sfruttamento della forza lavoro, monopolio del privato sulle attività più lucrative, e concorrenza del pubblico che è costretto a dare priorità a risultati immediatamente quantificabili, diminuendo la qualità complessiva del servizio. Siccardo(16) fa riferimento all’esperienza della pandemia in cui la Lombardia, la Regione più ricca ma anche la capofila della privatizzazione della salute in Italia, aveva un numero di posti letto per terapia intensiva pari nel 2019 a meno di 10 ogni 100.000 abitanti. Nonostante gli sforzi per aumentarli, nel 2022 risultavano ancora meno di 20, cioè al quinto posto in Italia.

Sulla presunta convenienza del modello privatistico il Rapporto sullo stato sociale 2019, welfare pubblico e welfare occupazionale, rileva come “i costi di gestione delle assicurazioni sanitarie e dei fondi pensionistici finanziati a capitalizzazione presenti sul mercato sono strutturalmente superiori a quelli delle corrispondenti prestazioni offerte dal welfare state”. Del resto, la ragione è facilmente intuibile, quanto più si moltiplicano i soggetti e i livelli che intermediano l’erogazione delle cure, tanto più aumentano le spese. Un’assicurazione finanziaria ha dei suoi costi fissi e naturalmente un suo profitto, si avvale di un intermediario che gestisce operativamente il rapporto tra le strutture mediche e i pazienti, che vengono poi indirizzati a strutture private, che a loro volta vogliono ottenere un profitto dall’erogazione del servizio, gli attori in gioco si moltiplicano e le risorse si disperdono.

Che la privatizzazione della sanità non sia né efficiente né efficace lo dimostra in modo emblematico il caso degli Stati Uniti, il paese guida dell’Occidente. Secondo i dati OCSE riferiti al 2019 la spesa sanitaria in questo Paese si attesta a quasi il 18% sul PIL, 11.000 dollari pro-capite, contro i 2.600 dollari che si spendono in Italia (6% la spesa pubblica, 9% quella complessiva). Ebbene nonostante questa profusione di risorse i risultati sono disarmanti: il tasso di mortalità evitabile negli USA è di 265/100.000 abitanti, contro i 199 della media OCSE; la mortalità neonatale è di 19/100.000 nascite, contro l’1.7 in Italia; 32 milioni di abitanti, il 10% della popolazione, sono privi di copertura sanitaria e i posti letto sono 2.8/1000 abitanti(17), come in Calabria, la più in crisi tra tutte le regioni italiane. Il sistema sanitario USA, dunque, è esemplare per sconfessare la presunta maggiore efficienza del sistema privatistico di gestione della salute collettiva, detiene contemporaneamente il triste primato della spesa sanitaria più alta al mondo e dell’aspettativa di vita più bassa tra i paesi industrializzati.

L’inevitabile rovescio della medaglia dell’offerta privatistica di servizi e cure sanitarie è che una parte della popolazione rinuncia semplicemente a curarsi, secondo i dati dell’ISTAT già il 6.5% della popolazione in Italia si trova in questa condizione, o perché i presidi sanitari sono troppo lontani - questo modello infatti svilisce la rete dei servizi territoriali pubblici - o perché le cure sono troppo care.

Chi può invece provvede da solo, e infatti la spesa pagata dai cittadini per il settore privato (out of pocket) è passata dai 34.8 miliardi del 2019 ai 37 miliardi del 2022. Diminuisce invece la spesa per la prevenzione, altra caratteristica dei sistemi a vocazione privatistica, e aumentano ovviamente le disuguaglianze di accesso alle cure.

Questa in generale è la dinamica in corso: ma proviamo ancora una volta a soffermarci un momento sulle cause. Abbiamo detto in principio che le motivazioni ideologiche non ci sembrano decisive, possono fare da paravento e di fatto sono molto utili a spingere il processo, perché offrono una legittimazione culturale e politica, ma non sono a nostro avviso la causa prima, né può bastare il ricorso all’argomento del debito pubblico sic et simpliciter, perché il debito pubblico non si è formato per volontà divina o per calamità naturale. Il fatto è che ad un certo punto da un lato è sembrato conveniente dal punto di vista economico ridurre le spese sulla salute che, come abbiamo detto, sono improduttive, dall’altro e per lo stesso motivo è sembrato necessario agevolare gli investimenti privati, e la leva che è stata usata è quella della defiscalizzazione. Defiscalizzare, ovvero sottrarre alcuni soggetti alla partecipazione agli oneri sociali, è la misura più semplice dal punto di vista della classe dominante e ha il pregio di non costare molto in termini di consenso perché si svolge all’ombra di tecnicismi giuridici che spesso sono oscuri ai più.

Una volta che si sia creato un mercato della salute liberato dal presidio della “pubblica utilità”, sollevato il più possibile da qualsiasi onere fiscale, agevolato dalla possibilità di ricorrere a forza lavoro gestita in dumping - anche per le strutture accreditate, che invece dovrebbero in teoria attenersi a precisi requisiti – improvvisamente, quella che prima era una spesa odiosa e improduttiva, per la borghesia diventa un paese del bengodi della valorizzazione del capitale (paese del bengodi per alcuni ovviamente, mica per tutti). In conclusione, si è creato un mercato della salute agevolato e concorrenziale con il SSN e lo si è fatto a spese della fiscalità generale, che è quella che doveva provvedere al finanziamento del fondo sanitario pubblico. La beffa è che poi assistiamo impotenti alla reiterazione nel discorso pubblico di un argomento all’apparenza perentorio e definitivo: “mancano le risorse”. Si tace sul fatto che le risorse sono state stornate a monte per poi imporre a valle determinate scelte come frutto della volontà divina.

Uno degli strumenti che ha permesso questa operazione è stato il grande business del welfare aziendale. Tra gli elementi del cosiddetto “sistema multi-pilastro” che vede accanto alla sanità pubblica, quella privata tout court, quella privata convenzionata, quella del terzo settore, è comparsa ad un certo punto la sanità integrativa, dietro alla quale stanno grandi compagnie assicurative o bancarie come ad esempio Unicredit, Intesa San Paolo, Unipol. Queste società finanziarie intermediano una cifra per il momento intorno ai 5 miliardi di euro sotto forma di pacchetti sanitari differenziati a seconda del contratto stipulato dall’ente a copertura dei propri dipendenti. Ancora una volta decisiva è stata la modifica della tassazione di impresa introdotta dal governo Renzi: nell’arco di tempo che va dal 2016 al 2020 il numero di lavoratori che hanno usufruito di questa copertura è raddoppiato passando da 7 milioni a 14, e probabilmente entro qualche anno quasi tutti i lavoratori coperti da contratto nazionale avranno una qualche forma di copertura assicurativa privata; recente il caso di Metasalute, il fondo dei metalmeccanici che è diventato obbligatorio e raggiunge 1.5 milioni di iscritti.

Piccolo focus sul welfare aziendale: “il 20% del welfare aziendale è costituito da incentivi per servizi alle famiglie (nidi aziendali e borse di studio ai figli meritevoli e altro) e per l’80% è costituito da sanità integrativa tramite polizze collettive previste all’interno dei CCNL. Sul “welfare aziendale” il Jobs act ha messo 21 miliardi di euro di defiscalizzazione, che sono stati reiterati da tutti i governi che si sono susseguiti fino ad oggi per un totale di quasi 35 miliardi di euro(18).

In altre parole, i lavoratori italiani hanno perso in questi anni quelli che avrebbero potuto essere aumenti salariali in busta paga, che si sarebbero tradotti anche in contributi pensionistici e quindi aumenti del salario differito e hanno avuto in cambio una specie di “welfare di secondo livello” che loro stessi hanno finanziato con la fiscalità generale.

Non ci vuole molto a capire che un tale modello conviene soprattutto ai padroni e, ça va sans dire… ai sindacati, i quali entrano a far parte degli Enti bilaterali che gestiscono questi fondi, basti pensare che l’importo che segna la soglia di deducibilità fiscale per i fondi sanitari integrativi è 3.615 euro, mentre la spesa sanitaria pro-capite in Italia è 2470 €. Una volta che il lavoratore sia stato legato mani e piedi all’azienda, non ci vuol molto a capire che cosa comporterebbe la perdita del posto di lavoro; l’appartenenza del singolo all’azienda sarebbe a 360 gradi perché i servizi all’esterno del mondo aziendale si vanno nel frattempo desertificando.

Il PNRR e l’autonomia differenziata

Chiudiamo con alcune brevissime considerazioni sugli ultimi sviluppi che impattano sull’ambito sanitario.

Il PNRR nella missione n. 6 prevede:

  • l’aggiornamento del parco tecnologico e delle attrezzature per diagnosi e cura
  • la digitalizzazione del sistema
  • assistenza di prossimità diffusa sul territorio (1288 case di comunità e 381 ospedali di comunità)
  • assistenza domiciliare con l’attivazione di 602 Centrali operative territoriali

Gli investimenti nell’edilizia, la ristrutturazione di edifici di proprietà pubblica per farne case e ospedali di comunità e i fondi per l’acquisto di apparecchiature diagnostiche sono una buona notizia in sé e per sé, ma non sono previste assunzioni, nemmeno una. Più di un osservatore ne ha concluso che probabilmente queste nuove strutture saranno gestite mediante apposite convenzioni con il privato e il terzo settore.

Infine due parole sulla proposta di legge Calderoli sul regionalismo differenziato, se verrà portata avanti l’esito prevedibile sarà un federalismo fiscale in cui le Regioni più ricche non siano più vincolate a redistribuire quota parte del reddito prodotto a quelle meridionali, ciò che andrà a rinforzare l’attuale situazione di accesso differenziato alla salute a seconda della Regione a cui si appartiene: formalmente i livelli essenziali di assistenza sarebbero garantiti su tutto il territorio nazionale, ma di fatto già oggi essi non sono esigibili se la Regione non è in grado di erogarli per mancanza di fondi disponibili. Si passerebbe probabilmente da una situazione di fatto ad una situazione di diritto. Secondo un’analisi della Fondazione Gimbe, per esempio, l’autonomia differenziata darà il colpo di grazia al SSN(19). “Nel decennio tra il 2010 e il 2019 solo tre regioni hanno superato l’86% di soddisfacimento dei Livelli essenziali di assistenza. Guarda caso le tre che hanno già chiesto maggiore autonomia: Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna”(20). Tutte le regioni del Centrosud rimangono in piano di “rientro” e due, Calabria e Molise, sono commissariate.

In conclusione, abbiamo cercato di delineare in questo articolo le condizioni in cui si trova il sistema sanitario italiano e le circostanze che l’hanno condotto allo stato attuale. Abbiamo detto che i fattori principali non sono stati secondo noi di ordine ideologico o politico, ma di ordine economico, in primo luogo per la crisi sempre più forte che i capitali attraversano ad ogni nuovo ciclo di valorizzazione. Conseguentemente non possiamo sottrarci alla necessità di indicare la soluzione di questa crisi non in un impossibile e anacronistico ritorno alla fine degli anni '70, quando la legge 833 fu introdotta, bensì in una trasformazione che sottragga una volta per tutte il potere - economico., sociale, politico - ai suoi attuali detentori, il che significa spezzare la macchina statale borghese e sostituirla con gli organismi della dittatura proletaria: i consigli*. L’attuale assetto della società,* infatti, non solo non consente una gestione della salute collettiva né efficace né universale, ma non fa che intervenire sull’ambiente in cui viviamo in maniera tale da causare nel presente o nel prossimo futuro nuovi motivi di rischio per la salute degli esseri umani e degli esseri viventi in generale.

MB

Note:

(1) L’indagine è citata da Cesare Fassari su Quotidiano Sanità del 18 marzo 2023, consultato il 28/05/2023 al link quotidianosanita.it.

(2) Cesare Fassari “Ospedali. In Italia persi quasi 80mila posti letto in venti anni” in Quotidiano sanità, 18 marzo 2023 consultato il 20/05/2023 al link quotidianosanita.it.

(3) Nel libro verde della Ministero della sanità si afferma che “il consumo di risorse socio-sanitarie per le persone oltre i 75 anni è 11 volte superiore alla classe di età 25-34 anni e i pazienti cronici rappresentano il 25% della popolazione ed assorbono il 70% della spesa”. Citato da Giorgio Banchieri in “Le mille facce della sanità privata e la sua inarrestabile marcia di conquista” Quotidiano Sanità.it al link quotidianosanita.it, consultato il 28/05/23

(4) Si veda agi.it consultato il 27/05/2023

(5) Consultati il 20/05/2023 al link: salute.gov.it.

(6) Negli ultimi dieci anni diecimila medici italiani sono migrati all’estero, dove rappresentano il 50% di tutti i medici stranieri operanti in Europa, cfr. Rosy Bindi, Nerina Dirindin e Marco Geddes “La sanità italiana verso una privatizzazione strisciante. Il Governo fermi questa deriva” su Quotidiano Sanità consultato il 26/05/2023 al link quotidianosanita.it

(7) Si veda il comunicato ANAO consultato il 22/05/2023 al sito anaao.it

(8) A titolo di esempio nel pronto soccorso del principale ospedale di Trento su 27 medici 10 sono gettonisti e la CGIL stima che i medici gettonisti siano già 5 mila in Italia, cfr. Rachele Gonnelli “Sanità definanziata, i pronto soccorso già al collasso” su Sbilanciamoci.info, sbilanciamoci.info.

(9) Cfr. Rachele Gonnelli Sanità definanziata, i pronto soccorso già al collasso, su Sbilanciamoci.info reperito al link sbilanciamoci.info consultato il 28/05/2023. Per il rapporto completo si veda agenas.gov.it

(10) si dirà che Renzi era un cavallo di Troia della destra all’interno del PD, ma, come ci ricorda Ivan Cavicchi sul manifesto (11 marzo 2023), lo stesso si può dire anche di Letta che “quando era il ministro “ombra” del welfare (segreteria Veltroni) e poi nel periodo della segreteria Franceschini, in veste di responsabile nazionale welfare del Pd, organizzò un convegno storico “Persona, famiglia, comunità”, verso la Conferenza Nazionale sul Welfare del Pd (27 e 28 novembre 2009). In quell’occasione dichiarò ai quattro venti che la sanità pubblica andava privatizzata parlando esplicitamente di “un pilastro privato complementare”

(11) La fondazione GIMBE stima che il definanziamento complessivo sia stato di 37 miliardi tra il 2010 e il 2019, di cui 25 con i governi Berlusconi e Monti, e 12 Letta, Renzi, Gentiloni e Conte.

(12) Benjamin Goodair, Aaron Reeves, Outsourcing health-care services to the private sector and treatable mortality rates in England, 2013-20: an observational study of NHS privatisation_. Lancet Public Health_. 2022 Jul;7(7):e638-e646. doi: 10.1016/S2468-2667(22)00133-5. PMID: 35779546.

(13) Quercioli, Messina, Basu, McKee, Nante, Stuckler The effect of healthcare delivery privatisation on avoidable mortality: longitudinal cross-regional results from Italy, 1993-2003. J Epidemiol Community Health. 2013 Feb; 67(2):132-8. doi: 10.1136/jech-2011-200640. PMID: 23024258.

(14) Per esempio per quanto riguarda il riferimento ai costi standard che sono calcolati sul sistema inglese e non sulla realtà italiana, in proposito Giorgio Banchieri e Marinella D’Innocenzo ritengono che i costi standard coprano solo il 65% dei costi reali. Cfr. Sanità pubblica e sanità integrativa: quale cooperazione e quale integrazione per rispondere ai bisogni dei cittadini? In Quotidiano Sanità.it reperibile al link quotidianosanita.it consultato il 28/05/2023

(15) Marco Geddes da Filicaia in Salute internazionale L’esternalizzazione dei servizi sanitari, consultato il 26/05/2023 al link saluteinternazionale.info

(16) Andrea Siccardo: La privatizzazione dei sistemi sanitari fa male alla salute. Il caso del Regno Unito in Altraeconomia, consultato il 26/05/2023 al link altreconomia.it

(17) Crf. Mario Del Vecchio “Spesa privata in sanità. Vogliamo provare a parlarne seriamente?”, in Quotidiano Sanità, consultato il 26/05/2023 al link quotidianosanita.it

(18) Giorgio Banchieri op. cit.

(19) Gimbe: “Con l’autonomia differenziata colpo di grazia al Ssn” da Quotidiano Sanità.it, consultato il 28/05/23 al link quotidianosanita.it

(20) Autonomia differenziata, salute differente. Dal sito Collettiva.it consultato il 28/05/2023 al link collettiva.it

Venerdì, July 7, 2023