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Home ›Sul Comitato di Roma NWBCW: un'intervista
Pubblichiamo un'intervista ai nostri compagni romani, tra i fondatori del comitato NWBCW di Roma; con essa si dà conto delle difficoltà che hanno portato alla fine, almeno per il momento, di questa esperienza così come si era configurata.
In premessa a questa intervista abbiamo sottolineato come la situazione del Comitato NWBCW di Roma sia tutt’altro che rosea. Ci potete dire come stanno le cose?
BC: Sì, purtroppo possiamo parlare di fine prematura del Comitato.
Che cosa è successo, quali sono stati i fattori che hanno portato a questo epilogo?
BC: Per spiegare questo, dovremmo innanzitutto ritornare alla costituzione del Comitato che si forma dall’incontro di due soggettività, i compagni di Battaglia Comunista e quelli di Società Incivile nel comune riconoscimento dei principi generali dell’internazionalismo e degli indirizzi di riferimento stabiliti nella piattaforma di azione dello stesso Comitato. Ma, nonostante questa attestazione generale, nel breve percorso del Comitato sono emersi due modi diversi di intendere la funzione e il ruolo del Comitato, nonché una diversa tipologia di metodo e organizzazione di lavoro. Questo detto in estrema sintesi.
Su cosa verteva questa differenza che nominate?
BC: L’abbiamo detto. Secondo noi, centrale è stato il diverso ruolo e funzione da dare al Comitato. Se per noi il Comitato rappresentava un organismo deputato in questa fase all’agitazione e propaganda dei principi internazionalisti nei diversi ambiti individuati, per i compagni di SI si trattava principalmente di costruire l’ennesimo involucro politico-organizzativo per l’ennesimo “rilancio dell’iniziativa politica e aggregativa.” Non è che noi come compagni di BC non vedessimo questi obiettivi, ma sicuramente erano collocati in una prospettiva diversa e su un piano diverso, facendo i conti con le contraddizioni reali della lotta di classe e delle espressioni della soggettività. Tenendo anche in conto che il Comitato nella sua impostazione d’origine era uno strumento di avvicinamento e coesione delle più diverse soggettività che si riconoscessero sui punti centrali dell’internazionalismo e si attivizzassero nell’agitazione e propaganda di questi contenuti. È intorno a questo punto centrale che non si è data omogeneità politica, d’azione e metodo nella breve parabola del Comitato.
Questo a cosa ha portato?
BC: Ha portato di fatto a far vivere il Comitato come l’espressione di un “intergruppo” che poi, come per esperienza sapete, produce dinamiche non certo di riordino, ma il più delle volte deflagranti. In questo processo individuiamo come piano di contraddizione soggettivo, i riflessi negativi della condizione di minoritarismo e marginalità politica che per i compagni di SI si è riflesso in una continua oscillazione nella loro valutazione dei fattori inerenti alla pratica stessa del Comitato, unita alla costante autoreferenzialità del proprio percorso, che li ha portati, fra le altre cose, a ricondurre la questione del Comitato ad una espressione territoriale espunta dalla sua dimensione internazionale in cui lo stesso era collocato, e ridotta ad un piano di riferimento d’azione del proprio quadrante territoriale e verso i referenti precedenti senza una reale relazione politica costruita. Autoreferenzialità che si è riflessa anche nel metodo complessivo interno al Comitato, quando sicuramente un ambito più largo necessita sempre di un affinamento del metodo stesso di lavoro. Il punto di deflagrazione dei problemi è stato il 13 novembre nella costruzione, sia nell’organizzazione che nel contenuto, dell’iniziativa al “Parco Liberato” al Prenestino. Lì le contraddizioni hanno assunto forme parossistiche. Ciò che di fatto si è dato e che alcuni compagni, noi, hanno portato fino in fondo quanto stabilito e condiviso e si sono ritrovati lasciati da soli in mezzo alla strada durante una iniziativa. Una questione che in altri tempi sarebbe stata solo lontanamente immaginabile.
Quale è lo stato dei rapporti al momento?
BC: Abbiamo chiesto un incontro chiarificatore definitivo che formalizzi lo stato del Comitato. Ma a parte una molto generica disponibilità personale, di fatto oltre non si è andati. E questo incontro non si è tenuto. Ciò segna nei fatti l’intenzione dei compagni di SI di non avere più nulla a che fare con l’esperienza del Comitato, e di fatto la fine dello stesso. Ma nello stesso tempo non può esimerci dal constatare che questo metodo di sottrarsi alle proprie responsabilità, di chiarire la propria posizione, e l’ennesima riprova di come si è vissuta questa esperienza come un cambio d’abito usa e getta, appunto l’ennesimo. Anche lo stato critico dei rapporti fra loro e noi non giustifica tali atteggiamenti.
Come valutate la situazione alla luce di questi sviluppi?
BC: Sicuramente dal nostro punto di vista la fine del Comitato è un danno rilevante. Ovviamente ci riferiamo al dato politico. Il Comitato certo era poca cosa se vista dal punto di vista organizzativo. Ma, e qui andiamo al nocciolo della questione, rappresentava sul piano politico e nello sbocco di azione pratica uno dei punti più avanzati dell’attività internazionalista. Non solo per la dimensione internazionale che sopra ricordavamo e al contempo di punto di raccordo e azione dei sinceri internazionalisti, ma perché intendeva misurarsi con i tempi politici e materiali prodotti dagli scenari di guerra e le loro diverse ricadute sul fronte della nostra classe. In ciò superando le diverse “strozzature” che di volta in volta ha introdotto la soggettività di classe o d’avanguardia nell’affrontare questa dimensione.
Cosa intendete dire più concretamente?
BC: Come abbiamo più volte detto e ribadito, intorno al tema della “guerra imperialista”, nel campo che si rifà genericamente o più compiutamente ai principi di un corretto internazionalismo, si sono riprodotte tali e quali gli stessi ordini di problemi e limiti che hanno contraddistinto tutta la disposizione dei diversi rami della soggettività, in una condizione di arretramento politico, prodotto anche dal continuo martellare della borghesia sulla nostra classe. Non parliamo semplicemente dell’internazionalismo di maniera, che a fronte della presentazione di alcuni principi internazionalisti di fatto opera una politica opportunista, conciliatoria e compromissoria. Ma più concretamente ci riferiamo a quelle forze che, pur avendo una posizione corretta, sono rimaste ferme ad una pratica di posizionamento teorico-politico, nonché più specificamente a quelle realtà variegate, più corpose che di fatto ancora una volta per l’ennesima volta, al di là di analisi più o meno azzeccate sulla guerra imperialista, di fatto ripropongono in diverso dosaggio e forma la prospettiva economicistica quale terreno pratico e privilegiato dell’azione politica. Questo dà vita ad un “internazionalismo spurio”, che di fatto blocca la classe nella sua risposta alla dimensione immediata di contraddizione sulle proprie condizioni di vita quali ricadute della situazione prodotta dalla guerra imperialista, magari baloccandosi teoricamente nel carattere “oggettivamente” politico assunto dall’incompatibilità delle rivendicazioni economiche di classe rispetto alla crisi della borghesia.
Quindi qual è il punto per voi?
BC: Il punto per noi è che c’è bisogno di un salto politico nell’agire di chi si dice avanguardia. Crisi-guerra-ristrutturazione-crisi, sono dinamiche, seppur su piani diversi e con aspetti diversi all’opera costante e sempre più incidente, che assieme ai costi della guerra diretta dove si combatte e dell’economia di guerra che accompagna il processo di crisi, pongono di fronte all’avanguardia il problema soggettivo del superamento del sistema capitalistico e di ciò che produce. Se per tutti è oramai chiara la consapevolezza della sua non riformabilità, non è altrettanto chiara, o comunque non assunta praticamente, questa prospettiva. Si badi bene, non facciamo qui astrazione della situazione dei rapporti di forza, dello stato di combattività, o meglio di larga passività, della nostra classe e della forza di pressione costante dello stato borghese tesa ad eliminare o circoscrivere nell’impotenza ogni espressione di classe che vada oltre il consentito. Così come ciò che diciamo non è certo la messa in mora del movimento economico di classe e delle sue rivendicazioni. Questi nodi vanno affrontati e lo possono essere solo da un punto di vista rivoluzionario. Se così vogliamo dire per semplificare, il problema che si pone costantemente all’avanguardia è quello di collegare costantemente la dimensione immediata a quella complessiva di ribaltamento del sistema, perché è solo dentro questa dimensione che si dà tutela degli stessi interessi immediati di classe e si ricollocano dentro un'altra prospettiva. La divaricazione e il corto circuito fra un’analisi più o meno corretta e la proposta concreta immediatissima non può trovare ricomposizione se non affrontando il piano politico rivoluzionario. E questo, ancor prima che un problema di classe, è un problema di avanguardia. In fondo, se si guarda bene, i Comitati NWBCW, pur nei caratteri specifici, rappresentano l’assunzione consapevole delle diverse avanguardie, pur magari con diverse provenienze, di questo piano generale di prospettiva, declinato in termini politici e pratici sul terreno dell’Internazionalismo contro la guerra imperialista.
Un discorso giusto in generale, ma che non pecca d’astrattezza e in fondo la vostra stessa esperienza all’ interno del Comitato non ci dice il contrario?
BC: Come abbiamo detto, le contraddizioni che abbiamo riscontrato all’interno del Comitato rispondono, a nostro avviso, a tutto quel percorso di logoramento politico che pesa sulla soggettività di fronte alla costante e lunga debolezza del conflitto di classe. Ulteriormente, e lo abbiamo constatato anche noi assumendolo contraddittoriamente e non senza limiti, ha pesato come ulteriore corno del problema, quello dell’erosione degli ambiti e spazi di azione reali su cui operare l'intervento. Ma riconoscere questo problema generale ovvero che va oltre i ristretti ambiti di quella o quelle altre realtà, senza scappatoie minimaliste o immediatiste, non vuol dire far venir meno il presupposto di fondo dell’azione d’avanguardia per come dicevamo, e, seppur in forma diversa, tende ad animare l’azione dei Comitati. I Comitati, nella loro “semplicità” d’impostazione e d’azione, trovano appunto il loro scopo nel porre la questione della “guerra imperialista”, sia come denuncia della stessa in tutti gli ambiti possibili, sia come elemento possibile e necessario di crescita di coscienza, nonché di azione pratica della soggettività d’avanguardia che si misura con la dimensione generale del capitalismo.
Come intendete procedere?
BC: Preso atto dei fatti, non ci resta che operare per un lavoro di “ricostruzione” del Comitato. Sappiamo che non è un lavoro facile. Tutti quegli elementi, che prima indicavamo caratterizzare aree e posizioni di soggettività oggi disposte contro la “guerra imperialista”, costituiscono anche un limite obiettivo da affrontare nel lavoro e ciò lo possiamo fare solo nella chiarezza delle nostre posizioni e della battaglia politica e d’azione. Così come interverremo lì dove si manifesteranno espressioni della conflittualità di classe. Perché una linea di intervento, seppur in condizioni difficilissime, è l’unica garanzia reale ad un processo di costruzione e ricostruzione delle condizioni politico-organizzative all’azione dei Comitati, così come più in generale allo sviluppo dell’azione d’avanguardia.
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