La visita di Nancy Pelosi a Taipei e la nuova puntata della crisi Stati Uniti-Cina

Era da 25 anni che un alto rappresentante istituzionale degli Stati Uniti non si recava in visita ufficiale a Taiwan, e in verità le escursioni sull’isola a carattere più o meno diplomatico di membri del congresso USA e funzionari militari si sono moltiplicate negli ultimi tempi. Per tutta risposta, prevedibilmente, il governo cinese ha inscenato una dimostrazione di forza senza precedenti, moltiplicando i sorvoli sull’isola, facendo sfilare i propri carri armati per le città e le spiagge antistanti e lanciando batterie di missili che mai come questa volta sono arrivati vicini all’obiettivo.

La sfida tra le due superpotenze assume sempre di più i contorni di una logorante partita a scacchi in cui ciascuno dei contendenti cerca di muovere i suoi pezzi per acquisire un vantaggio di posizione, avendo cura di non provocare un conflitto aperto, ma tenendosi pronto nel caso le circostanze lo richiedano.

Se però volessimo vedere la partita in un arco temporale più ampio, poiché pensiamo che i fenomeni sociali possano essere compresi a fondo solo nel loro dinamismo, è significativo come il confronto si sia trasferito col tempo da scenari locali in cui gli stessi attori si celavano dietro guerre combattute per procura per il controllo delle materie prime o dei traffici commerciali ad uno scenario in cui la sfida si è fatta più ravvicinata e frontale tra i due protagonisti, a Taiwan ma non solo, calcolando per il momento la Russia solo come un alleato della Cina.

Se osserviamo le cose in questa prospettiva è difficile sostenere, come invece tutta la pubblicistica di parte borghese si ostina a fare, che la colpa della situazione sia di questo o quel presidente, di questa o quella politica, per quanto questi ultimi possano essere dei fattori secondari di accelerazione della dinamica stessa. Alla base di questa situazione c’è un capitalismo sempre più in difficoltà nella sua riproduzione allargata, nella valorizzazione dei capitali investiti, saggi di profitto in decrescita, un sistema che ha procrastinato negli ultimi decenni questa crisi con strategie come la globalizzazione e la finanziarizzazione e si ritrova ora allo specchio la stessa crisi, ma più ampia e profonda, che mette in fibrillazione gli imperialismi su teatri di guerra che continuano ad intensificarsi ed allagarsi.

I momentanei interpreti dell’attuale puntata, che ha come sfondo il dominio politico ed economico nell’area dell’indo-pacifico, sono, da una parte, un Biden alle prese con una crisi debitoria che non ha riscontri dal secondo dopoguerra e, in subordine, con le elezioni di medio termine e una crisi di consenso particolarmente forte, causata tra le altre cose anche da un’impennata inflazionistica; dall'altra uno Xi Jinping anche lui desideroso di riaffermare il proprio controllo sul potere, un po’ meno solido di quanto appariva pochi anni fa, quando la Cina veleggiava al vento di tassi di crescita invidiabili, il debito delle imprese, delle amministrazioni locali e delle famiglie non era a livelli così elevati e il settore delle costruzioni - insieme alle esportazioni - trainava la crescita che ora invece rischia di azzoppare. Senza contare che “grazie” allo sviluppo tecnologico, anche la Cina incomincia ad avere problemi di valorizzazione del suo capitale e di saggi del profitto più bassi rispetto ad un recente passato.

Sempre sullo sfondo ci sono le prossime elezioni politiche a Taiwan del 2024 e i tentativi dell’una e dell’altra potenza di volgerle a proprio favore, cosa che se riuscisse agli Stati Uniti manterrebbe più o meno tutti i problemi attuali sul tavolo, se riuscisse alla Cina le consentirebbe di ottenere quanto si propone, ovvero la riconquista di Taiwan e l’eliminazione di uno scoglio al suo espansionismo, senza dover puntare tutte le sue fiche s in una mano in cui non è ancora sicura di avere un poker. Quello delle elezioni può non essere l’unico metodo per la Cina per far capire a Taipei , primo produttore mondiale di microchip e semi conduttori, che è opportuno ricongiungersi senza fare troppe storie alla madrepatria, e sappiamo che Pechino ha argomenti formidabili quando si tratta di ritorsioni commerciali. In questo senso ha già cominciato a praticare un blocco di alcune importazioni da Taiwan e potrebbe in futuro inasprire la strategia. Il Giappone per esempio ricorda bene il blocco informale che è seguito per qualche mese all’esportazione di terre rare - di cui la Cina è quasi monopolista - come ritorsione per l’affondamento di un peschereccio presso le isole Senkaku, la cui sovranità è contesa. Oppure potrebbe far salire la tensione indefinitamente attorno all’isola muovendo la propria marina e determinando la reazione di quella statunitense in modo da provocare indirettamente una paralisi delle rotte commerciali che fanno capo a Taiwan.

Nel frattempo, continua incessante dall’una come dall’altra parte il lavorio diplomatico, economico e militare per rinforzare le proprie posizioni nell’area indo-pacifica, con la Cina che ha stretto alleanza con le Isole Salomone e sta cercando di fare altrettanto con Tonga, Papua Nuova Guinea, Vanuatu, Kiribati, Figi, isole Cook, tutte più o meno direttamente coinvolte nelle nuove vie della seta, mentre gli USA stringono i bulloni della propria alleanza con il QUAD e l'AUKUS e rilanciano la propria iniziativa economica con l’IPEF (Indo-pacific Economic Framework), che più che un patto di libero scambio è una mossa volta a rassicurare i Paesi titubanti che non intendono fare passi indietro nell’area. Molti Paesi non si sono ancora schierati e cercano di ritardare il più possibile la scelta, specie nel sud est asiatico. Possono propendere per uno dei due contendenti su alcuni dossier, ma essere costretti a far di necessità virtù su altri: emblematico il caso dell’India, anti cinese ma al tempo stesso fortemente legata alla Russia.

In tutto questo scenario che abbiamo qui sinteticamente tratteggiato e che nulla ovviamente promette di buono, i protagonisti sono solo i governi e le classi dominanti degli stati nazionali. Ben altra potrebbe essere la prospettiva per l’umanità se la classe sfruttata decidesse di riprendere in mano il proprio destino attualmente consegnato ad una ristretta élite di agenti del capitale.

MB
Domenica, August 21, 2022