Il nuovo disordine mondiale, le guerre e il pacifismo

Nel corso della guerra di Ucraina l’imperialismo occidentale insiste sui concetti di aggressore ed aggredito e di difesa della democrazia contro la dittatura. Quello orientale si sforza di apparire gli anti nazisti, come se fossimo nella seconda guerra mondiale. Intanto la criminale guerra continua con il suo tragico fardello di morte e devastazione. Il Donbas e le sue repubbliche indipendentiste, la penisola di Crimea, le coste del Mar nero, la transitorietà delle pipe lines attraverso il territorio ucraino, il tentativo di sottrassi all’abbraccio mortale della NATO sono certamente i motivi contingenti e strategici che hanno scatenato l’aggressione dell'imperialismo russo contro Kiev. Ma il vero scenario che si alza dietro questa guerra ha altri risvolti e di ben altra portata. Il bipolarismo è finito con l’implosione dell’Urss e oggi siamo in presenza di un multipolarismo complesso con molti attori in diretto contrasto tra di loro o alleati strumentali, quando va bene.

Intanto, il vero scontro è tra Mosca e Washington. Biden ha tutto l’interesse che la guerra sia scoppiata in territorio europeo e che continui il più a lungo possibile. Innanzitutto perché così facendo riesce a vendere armi ai paesi NATO, ricavandone un business di miliardi di dollari. Secondariamente, tende ad indebolire l’avversario russo a favore della NATO e del suo accerchiamento nei confronti di Mosca. Di conseguenza, tende ad indebolire anche l’alleato cinese che rimane, agli occhi del Pentagono, il nemico n° 1 da battere. La via della seta e il ruolo dello yuan spaventano Washington più di quanto possa fare Mosca con i suoi carri armati. Nei progetti di Pechino infatti non c’è soltanto il tentativo di assurgere a polo imperialistico mondiale nello spazio di pochi anni. C’è una operatività già in atto adesso. La via della seta dovrebbe essere, a tutti gli effetti, un articolato flusso di merci, di capitali e di tecnologie avanzate che da Pechino dovrebbero arrivare in Europa e nel basso Mediterraneo attraversando il continente asiatico. Ma per far questo l'imperialismo cinese ha bisogno di una vasta serie di punti di appoggio da parte di paesi consenzienti, a furor di yuan, e di governi disponibili a fare parte del progetto. Allo stato attuale dei “lavori”, la Cina è riuscita a coinvolgere 140 paesi, dal Pakistan alla Russia (accordi del 4 febbraio 2022 sotto la denominazione di un “memorandum” d’intesa tra i due paesi sulla disponibile partecipazione al progetto da parte di Mosca, non senza gli immancabili vantaggi economici, quali gas e petrolio, le cui forniture a favore di Pechino, dallo scoppio della guerra sono raddoppiate). Dal Belucistan al Kazakistan sino alle maggiori capitali europee. Pechino si è garantita la disponibilità dei porti di Malta, Bilbao e Casablanca. Sempre nel Mediterraneo la multinazionale cinese COSCO si è assicurata la disponibilità anche del porto di Atene e di Marsiglia. Di Amburgo nel mare del Nord, e di Mombasa in Kenya. Oltre alle miniere di ferro e di rame, Pechino ha comprato la disponibilità dei porti del Perù. La stessa cosa l’ha tentata con i porti di Trieste e Genova ma, per il momento, senza successo. A tutto questo va aggiunto il l'enorme flusso finanziario che dalla Cina arriverebbe in Europa facendo dello yuan un possibile concorrente del dollaro, sia nello scambio delle merci che come bene di rifugio monetario.

Ecco perché il terzo obiettivo americano è il rafforzamento del dollaro nei confronti dell’Euro, del pericolo yuan e del tentativo russo di rilanciare il debole rublo come difesa nei confronti delle sanzioni in atto e di quelle future. Più la guerra continua, più gli Usa hanno la possibilità di agganciare l’Europa ai suoi interessi economici, finanziari e strategici, mettendo all’angolo le mire espansionistiche della Russia in Europa e della Cina nel quattro continenti. Non dimentichiamoci che l’economia Usa, pur continuando ad essere la più potente del mondo, soffre di gravi problemi nella produzione reale, quella che crea plusvalore. Ha una bilancia dei pagamenti con l’estero dal rosso brillante, come non mai dalla fine della seconda guerra mondiale. I suoi saggi di profitto sono in caduta libera, la speculazione avanza con progressione geometrica e la gestione dell’intera società è scandita dal debito pubblico e da quello privato che hanno raggiunto livelli record.

Per di più, le ultime Amministrazioni americane hanno sofferto l’aumento prodigioso della competitività cinese che, secondo i piani del presidente Xi Jinping, entro un ventennio, diventerebbe la più grande potenza economica, commerciale e finanziaria del mondo, soppiantando il dominio economico e monetario del dollaro. Il tutto nel bel mezzo di una crisi strutturale mondiale che preme come non mai per soluzioni belliche in tutte le forme. Da quelle condotte per procura, a quelle combattute in prima persona (Russia in Ucraina), ad un possibile conflitto generalizzato che metterebbe a rischio la continuazione dell’esistenza del genere umano. In questo scenario tripolare si inseriscono altri protagonisti minori, quali l’Iran, in orbita russo-cinese, e la Turchia che, pur facendo parte della Nato, non ha votato le sanzioni alla Russia, al pari dell’Ungheria. In compenso, ha fornito droni da guerra all’Ucraina, si confronta con Mosca in Libia e in Siria, ma concede il Turkish stream alla Russia, in una sorta di partita imperialistica giocata su più tavoli. Non ultimo, quello di presentarsi come unico mediatore tra Russia e Ucraina, bypassando in un sol colpo gli Usa, ai quali la negoziazione per il cessate il fuoco non interessa affatto, e l’Europa che, come al solito, sul piano imperialistico non esiste per un contrasto di interessi dei singoli paesi più concentrati a difendere le proprie aspettative economiche che a darsi una struttura militare, così da fungere da quinto polo imperialistico accanto a quelli russo, cinese, americano, iraniano e turco.

Ma non è di questo di cui vogliamo parlare, lo abbiamo già fatto in altra sede e continueremo a farlo sulla stampa di BC, Prometeo e su quella degli organi internazionali della TCI (Tendenza Comunista Internazionalista) di cui facciamo parte. Vogliamo mettere in luce le dirette conseguenze sul proletariato mondiale e quale debbano essere le denunce politiche che ogni avanguardia rivoluzionaria dovrebbe adottare.

Partiamo dalle conseguenze che il teatro bellico ucraino ci fornisce. La politica delle sanzioni imposta da Biden sta avendo come inevitabile conseguenza uno straordinario rincaro di tutte le materie prime (gas e petrolio su tutte), con relativo aumento dell’inflazione che in Europa si è già attestato su una media del 6%. Ma il dato va disaggregato, perché il 6% non è uguale per tutte le categorie sociali. Con l’aumento del costo dei fertilizzanti, stanno soffrendo l’agricoltura e gli allevamenti, con il risultato che pane, frutta, verdura e carne hanno visto aumenti anche del 10-12%, andando a colpire in modo particolare i proletari e i pensionati sui beni primari, quelli alimentari. Per non parlare dell’aumento vertiginoso delle bollette del gas e della luce. Il rincaro energetico sta penalizzando le piccole e medie imprese oltre alla macro economia. Secondo i dati ufficiali, in Europa saranno centinaia di migliaia le imprese che dovranno chiudere o diminuire il personale. Il che significa licenziamenti, disoccupazione e, se va bene, contratti a termine come se piovesse, ovviamente a salari sempre al minimo. Ciò per chi non si trova al fronte; per quelli che al fronte ci sono, c’è la morte e per le loro famiglie la fuga, le migrazioni di massa e la miseria generalizzata.

In compenso, si fa per dire, la solita pressione americana nei confronti dei paesi della NATO ha imposto un aumento delle spese militari sino al 2% del PIL, mettendo in ulteriore difficoltà le economie occidentali. Economie ancora alle prese con la crisi pandemica e con gli effetti, mai superati del tutto, della crisi “finanziaria” del 2008, nonostante l'enorme esborso di capitali da parte delle Banche centrali, nel tentativo di salvare il salvabile di un sistema capitalistico che fa acqua da tutte le parti. Il che si ripercuote inevitabilmente sul mondo del lavoro attraverso finanziarie penalizzanti le stratificazioni sociali più povere; modifiche al mercato del lavoro dove i nuovi contratti, quando ci sono, sono a tempo determinato e il licenziamento ancor più facilitato; ristagno dei salari e se crescono sono nettamente inferiori all’incremento della produttività. Inoltre, la disoccupazione aumenta e la povertà sociale, quella di coloro che ufficialmente sopravvivono sotto la soglia di povertà, è in continua espansione.

Tornando alla guerra guerreggiata, va sottolineato come i quattro milioni – al momento - di profughi ucraini abbiano trovato una disponibilità nell'accoglienza tra i paesi europei che i loro omologhi maghrebini e africani non hanno mai avuto, perché bianchi e caucasici e non arabi e mori. Ma questo è un altro discorso che merita uno sviluppo a parte.

Quello su cui concentriamo la critica e la denuncia politica, tra i tanti problemi creati dalla guerra, è il pacifismo. Il pacifismo, pur nelle sue infinite sfaccettature, rimane indissolubilmente legato alla guerra. Sembrerebbe un ossimoro ma non lo è. Si può essere pacifisti per molti motivi: per spirito umanitario, per l’orrore che la guerra genera, per paura che quanto succede al di fuori di casa nostra e guardiamo dalla finestra mediatica, prima o poi finisca per entrare dalla porta principale. Lo si può essere anche per una propensione ideologica, dettata da un fasullo senso della democrazia e della buona convivenza tra gli uomini. Come se bastasse un atto di volontà collettivo per scongiurare la guerra e le immani catastrofi che ne derivano, con tanto di scempio di morti e di disprezzo dell’umanità. In sintesi, buoni sentimenti ma che nel mondo capitalistico trovano spazio solo nella narrazione, molto spesso pelosa, di pennivendoli che pensano di fare carriera uscendo dal coro per presentarsi come cantori solisti di un bene superiore, quale la difesa della vita umana, la lode alla convivenza, in una bolla di fasulla democrazia. “Ben detto”, perché l’avversione alla guerra potrebbe essere anche un buon punto di partenza, benché circoscritto all’interno di una visione assolutamente borghese e conservatrice. Ma a queste anime candide qualcuno dovrebbe spiegare che, da quando l’imperialismo è diventato l’unico modo di essere del capitalismo, nessuna manifestazione pacifista, nemmeno quelle a massima partecipazione internazionale, ha mai fermato una guerra. (gli esempi vengono dalla recente storia di opposizioni pacifiste alle due guerre mondiali, dalle manifestazioni oceaniche contro la guerra del Vietnam, in piccolo, le scarse manifestazioni per la dissoluzione della Iugoslavia, quelle più grosse per la guerra contro l’Iraq del 2003).

La ragione è molto semplice, come è scontata la mancanza di realismo da parte dei pacifisti, qualunque sia la loro indole politica o la loro “filosofia” di partenza. Chiedere all’imperialismo di smettere di fare la guerra, come più volte abbiamo scritto, è come chiedere al capitalismo di non fare profitti. Ecco l'ossimoro. Le guerre non scoppiano perché al governo di un paese o di un altro c’è un pazzo o un delinquente - ora va di moda l'epiteto di macellaio - ma perché le insanabili contraddizioni del sistema capitalistico non possono che creare crisi economiche, che diventano finanziarie, che accelerano la competizione tra imperialismi che, a loro volta, trasformano le tensioni economiche e finanziarie in guerre comunque guerreggiate. È la legge del capitale. È il tentativo, nel capitalismo contemporaneo, di superare le crisi economiche dovute a bassi saggi di profitto che creano problemi alla valorizzazione del capitale produttivamente investito, con l’azione della forza militare per la conquista di spazi a vocazione energetica, di materie prime funzionali alle moderne tecniche produttive. Ma, soprattutto, che le arroganti borghesie imperialistiche ne siano coscienti o meno, le guerre, più vaste sono, più valore capitale distruggono e, per i vincitori, più spazi di mercato si aprono perché la distruzione economica è la condizione di una ricostruzione il cui nuovo ciclo di accumulazione è tento più intenso quanto più profonda è stata la distruzione che l'ha preceduta.

Il pacifismo dunque non avendo le categorie di analisi del marxismo si ferma all’aspetto sovrastrutturale. Combatte a parole contro le guerre lasciando inalterate le cause che le pongono in essere. Così agendo, il pacifismo non solo non ferma le guerre, non solo è inefficace nella sua campagna di denuncia “umanitaria”, ma perseguendo la pace come obiettivo strategico non fa altro che predicare il ritorno allo “status quo ante”, ovvero al capitalismo, allo schiavismo salariale, al rapporto tra capitale e lavoro che è la base di tutte le iniquità sociali, di tutte le crisi economiche e di tutte le guerre.

Ai pacifisti, ma non solo, andrebbe spiegato che solo la lotta di classe contro il capitale e le sue guerre può avere successo, ma a condizione di uscire dagli schemi borghesi del pacifismo, del nazionalismo e dallo scegliere su quale fronte attestarsi in caso di guerra.

CONTRO LA GUERRA PER LA LOTTA DI CLASSE è l’unica parola d’ordine che i rivoluzionari devono agitare per una società a misura d’uomo, senza sfruttamento, senza classi sociali, senza essere vittime sacrificali del dio profitto e delle guerre per soddisfarlo.

FD, 10 aprile 2022
Martedì, April 12, 2022