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Home ›Riflessioni attorno al saggio “realismo capitalista” di Mark Fisher
Abbiamo notato che un certo interesse tra le giovani generazioni sta suscitando, in Italia, il testo di Mark Fisher “Realismo capitalista”. Scritto in Inghilterra nel 2009, ma arrivato da noi per i tipi di Nero edizioni solamente l’anno scorso, il libretto vorrebbe presentarsi un po’ come punto di riferimento per il perfetto anticapitalista del nuovo millennio. Tanto ci basta per fornire al lettore in cerca di un reale orientamento anticapitalista una piccola rilettura critica dell’opera. Non ci dilunghiamo sulla biografia, reperibile in rete, dell’autore scomparso suicida nel gennaio 2017.
Veniamo al sodo. Dal punto di vista rivoluzionario il testo presenta alcuni spunti di interesse e notevolissimi punti di debolezza. Proveremo ad esporre gli uni e gli altri ripercorrendo la narrazione dell’autore di “realismo capitalista” seguendolo capitolo per capitolo, in corsivo le citazioni dal libro:
1. È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo
Partendo dal film I figli degli uomini prende piede una riflessione sul totalitarismo che, ai nostri tempi, avanza nonostante e proprio attraverso il permanere della forma democratica: le misure autoritarie che intuiamo dalla trama [del film] possono essere attuate all’interno di una cornice ancora democratica, almeno nominalmente. Il lettore critico capisce quindi che si sta parlando proprio di noi, della nostra epoca. La normalizzazione della crisi ha prodotto una situazione nella quale la fine delle misure d’emergenza è diventata un’eventualità semplicemente impensata. Per l’autore il Realismo capitalista viene definito come la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginare un alternativa coerente. Cavolo! Ci siamo! È proprio questo il punto. È necessario ribaltare la narrativa dell’ideologia dominante per affermare che questo non è l’unico mondo possibile, ma, semplicemente, il peggiore. Bene. Proseguiamo. Nel film, ancora preso come chiave di lettura del presente, non assistiamo a nessun arretramento dello Stato, quanto semmai a un ritorno dello Stato alle sue originarie funzioni di stampo militare poliziesco. Esatto ancora, d’altra parte per noi Marxisti è un punto di partenza imprescindibile: lo Stato è sempre l’espressione istituzionale dell’oppressione della classe dominante sulla classe dominata. Il tema dell’emergenza poi assume ancora maggiore forza oggi, alla luce della crisi da covid-19. È qui che i rivoluzionari, solitamente, inseriscono l’analisi delle cause e delle conseguenze, cercando di mettere in luce una strategia rivoluzionaria possibile.
Fisher, invece, fa una scelta differente. Evita analisi e strategia e si concentra sul vissuto di angoscia che questa situazione induce nella persona, consapevole che molto probabilmente il futuro non porterà altro che reiterazione e ripermutazione (?) di quanto esiste già. Ok. Fisher, allora gettiamoci in questo baratro di disperazione e non senso prodotto dal capitalismo per trarne delle direttive suscettibili di essere declinate in chiave rivoluzionaria!
Per l’autore l’ansia prodotta da tale angosciante prospettiva (o meglio assenza di prospettiva) produce una sorta di oscillazione bipolare tra speranze messianiche e convinzione che niente di nuovo accadrà mai sul serio. Bene, superiamo l’unica citazione di Marx, dal Manifesto, presente nel libro ed andiamo alla definizione del Mostro, perché per Fisher il capitalismo è un mostro simile a La cosa di John Carpenter: un'entità mostruosa, plastica e infinita capace di metabolizzare e assorbire qualsiasi oggetto con cui entra in contatto. Va bene, ma forse dovremmo caratterizzare un poco meglio il Capitalismo come sistema fondantesi sullo sfruttamento di classe, il denaro, la proprietà privata… no, niente. Il capitalismo non viene mai definito, eppure sarebbe stato utile. Pazienza.
Procediamo con il viaggio nell’angoscia esistenziale prodotta dal mostro che fagocita ogni cosa proiettandoci in un eterno e incriticabile presente. Inevitabile il richiamo a La fine della storia di Fukuyama. Non perché dopo l’89 la storia sia realmente finita, ma perché tale tesi ha finito per essere accettata, persino introiettata, a un livello culturale inconscio. È agli anni ‘80 che Fisher fa risalire l’affermazione del Realismo capitalista, che è in larga parte sovrapponibile a ciò che altri definiscono neo-liberismo… ma quindi… Fisher, non è che alla fine ci teorizzi un “capitalismo non realistico”? Come i critici del neo-liberismo che poi vogliono solo un capitalismo dal volto umano? Speriamo di no e procediamo con la lettura.
Siamo alla svolta del 1984, dicevamo. La Tatcher che sconfigge i minatori inglesi affermando la dottrina del non c’è alternativa. Poi crolla il Realismo Socialista e il Realismo Capitalista si trova ad essere unico dominatore del mondo. Bene. Certo, due parole per spiegare che quello in URSS non era socialismo ma capitalismo di stato, imperialista e anti-proletario anch’esso avresti potuto spenderle. Non per qualcosa, ma il Capitalismo si professa unico ed insuperabile proprio perché ha lasciato intendere che l’avversario comunista è stato sconfitto, ma noi dobbiamo chiarire che quella roba lì, con il comunismo, non c’entrava nulla. Vabbè niente. Anche perché è vero che per la maggior parte delle persone sotto i vent’anni l’assenza di alternativa al capitalismo non è nemmeno più un problema: il capitalismo semplicemente occupa tutto l’orizzonte del pensabile. Certo, se poi anche noi anti capitalisti lasciamo in piedi quella gigantesca falsificazione che era l’URSS… ma qui Fisher ha già preso un’altra piega. È passato a riflettere come, sul piano culturale, questa occupazione da parte del capitalismo di tutto l’immaginario comporta che “alternativo” e “indipendente” non denotano qualcosa di estraneo alla cultura ufficiale; sono semmai semplici stili interni al main stream o, meglio, sono a questo punto, gli stili “dominanti” del main stream. Ma, quindi, Fisher, facci capire. Per te l’anticapitalismo si era sviluppato attraverso una cultura alternativa che nel secondo dopo guerra si era imposta tra le pieghe del sistema? Sì. Infatti il primo capitolo si chiude con il suicidio di Curt Cobain: La morte di Cobain ribadì la sconfitta e l’incorporazione delle ambizioni utopico-prometeiche del rock.
Ah. Massimo rispetto per il Rock. Ma non crediamo che i Pink Floid o i Rolling Stones, con i loro ingenti conti in banca, abbiano mai voluto rappresentare un’istanza anti-capitalista. Effettivamente per un’istanza anticapitalista dovremmo cercare altrove. Vediamo come procede il libro.
2. Che succederebbe se organizzassi una protesta e venissero tutti?
Il capitalismo, nota Fisher, è in grado di assorbire ogni anticapitalismo.
Il ruolo dell’ideologia capitalista… è… di celare il fatto che le operazione del Capitale non dipendono da alcuna condizione soggettivamente imposta… il capitalismo funziona altrettanto bene, se non addirittura meglio, anche quando nessuno si prende il disturbo di perorarne la causa.
Sulla natura totalizzante e pervasiva dell’ideologia dominante contemporanea ci siamo, sul carattere impersonale (perché finanziario) del capitale pure, anche se andava spiegato meglio, ma andiamo avanti, passando all’analisi del movimento No-Global. L’autore ne identifica i motivi del fallimento nella sua incapacità di ipotizzare un modello politico-economico alternativo al capitalismo finendo nel tentativo di mitigarne gli eccessi peggiori. Giusto, anche se si sarebbe dovuto aggiungere che i No-Global hanno fallito anche perché hanno perso l’occasione per rilanciare la conflittualità di parte proletaria come fattore centrale di ogni cambiamento anticapitalista possibile. A questo Fisher non accenna nemmeno mentre sostiene che il modello del conflitto No-Global è stato assorbito da una sua spettacolarizzazione sul modello del Live 8. La critica di Fisher sembra moralizzante. Si attesta cioè sull’estetica del problema ogni volta che, invece, diventa necessario analizzare la causa materiale dei fenomeni sociali dai quali il problema emerge. In questa superficialità non manca naturalmente la colpevolizzazione dell’individuo perché quello che dobbiamo tenere a mente è, sia che il capitalismo è una struttura impersonale e iperastratta, sia che questa struttura non esisterebbe senza la nostra cooperazione. Che è anche vero, ma se non si sottolinea che sono i produttori, i lavoratori, i proletari coloro che devono far leva su questa dipendenza del capitale dalla loro forza lavoro… ci aggiriamo in un panorama desolato e senza prospettive. In effetti è qui che Fisher passa alla definizione del capitalismo come parassita astratto, zombie infetto… etc. Mai come un rapporto sociale fondato sullo sfruttamento della forza-lavoro da parte del capitale stesso, ossia dei suoi detentori, personali o impersonali (finanziari) che siano. Se non si mette a fuoco che il capitale è un rapporto sociale determinato e determinante la relazione tra due classi sociali e che è questo rapporto tra le classi che permette al Capitale di esistere come la più potente forza produttiva mai esistita… Fisher… non si va lontano e alla fine si rischia di cadere in depressione.
3. Il capitalismo e il reale
Si passa quindi a quella che dovrebbe essere l’ideologia del realismo capitalista ossia una specie di “ontologia imprenditoriale” per la quale è “semplicemente ovvio” che tutto, dalla salute all’educazione, andrebbe gestito come un’azienda. Qui, e in tutta l’opera, l’autore sembra identificare realismo capitalista e neoliberismo, sulla dannosità di questa identificazione abbiamo già detto. Procediamo. Dove collochiamo la critica a tutto questo? In realtà il realismo del capitalismo non collima con il reale interesse generale: viene quindi da pensare che una prima strategia contro il realismo capitalista potrebbe partire dall’evocazione di quei “reali” che sottendono la realtà per come il capitalismo la rappresenta. Siamo alla denuncia di quanto di falso viene propagandato dall’ideologia borghese. Contrapporre il reale alla falsa rappresentazione che ne fa il capitale. Va bene. Tre sono i temi fondamentali che vengono qui proposti:
- La catastrofe ambientale e la necessità di politicizzare le battaglie ecologiste perché la necessità di espandere costantemente il mercato e il feticcio della crescita stanno a significare che il capitalismo è, per sua natura, contrario a qualsiasi nozione di sostenibilità.
- La salute mentale e la necessità di una politicizzazione di disordini assai... comuni, si parla della depressione che va diffondendosi, specie tra le giovani generazioni, lo stress (angoscia). Anziché accettare la privatizzazione dello stress in auge (sei stressato, colpa tua, prenditi una pasticca) bisognerebbe criticare l’origine capitalista di tali disturbi.
- La burocrazia, con l’esempio di una progressiva burocratizzazione di tutta una serie di mansioni come l’insegnamento, burocratizzazione che va in direzione esattamente opposta alla supposta efficienza che pure dovrebbe perseguire.
Per quanto i primi due temi siano di un certo interesse, mentre il terzo meno (saremmo noi a dover criticare la burocrazia che in realtà non rende efficiente il sistema?). Non c’è accenno alla falsificazione insita in altre, e almeno altrettanto pericolose ideologie, come quelle nazionaliste, del siamo tutti sulla stessa barca, della scomparsa delle classi sociali etc... Politicizzazione della questione ambientale e della salute mentale, va bene. Ma quale politicizzazione? Questo Fisher ancora non lo fa capire. Toccherà aspettare le ultime due pagine del libro.
4. Impotenza riflessiva, immobilizzazione e comunismo liberale
Parlando del generale disimpegno delle giovani generazioni Fisher introduce la categoria di impotenza riflessiva. La consapevolezza che la situazione è brutta e il futuro nero, accompagnati dalla altrettanto chiara consapevolezza che non possono farci niente. A partire da questa condizione desolante dilagano problemi di salute mentale, difficoltà di apprendimento, depressione. La risposta di molti, per Fischer, è l’edonia depressa ossia la continua e disperata ricerca del piacere per sfuggire a questo stato di angosciosa consapevolezza. Il suo complemento è l’inerzia edonistica, la soffice narcosi della Playstation, delle nottate di televisione e della marijuana. Chiedete agli studenti di leggere più di un paio di frasi vi risponderanno che non ce la fanno... che è noioso, una giovane generazione post-alfabetizzata e troppo connessa per riuscire a concentrarsi. Ancora la metafora sono gli auricolari, con la loro capacità di isolare dal mondo, riempiendo il vuoto. Gli insegnanti si trovano così intrappolati nel ruolo di facilitatori-intrattenitori, ma in un mondo in cui le strutture disciplinari sono andate in crisi: mentre le famiglie sono frammentate dal fatto che tutti devono lavorare, agli insegnanti viene delegato anche il ruolo educativo prima proprio della famiglia. In questo contesto si inserisce il fenomeno – estremamente diffuso nel mondo anglosassone – dell’indebitamento degli studenti, legati a questo modo a doppio filo al capitale.
Bene, condividiamo la fenomenologia della desolazione moderna che affligge le giovani generazioni, ma, ancora, non collegando il tutto alla più grave e prolungata crisi capitalista della storia, alla sconfitta subita dalla classe lavoratrice e alle sue possibilità di ripresa, senza comprendere il ruolo ideologico giocato dal crollo dell’URSS, non si hanno gli strumenti per individuare una prospettiva di uscita, che poi è, per riassumerla in due parole, la lotta di classe anticapitalista.
Mancando di questi riferimenti Fisher continua a vagare senza idee nella desolazione del presente. Afferma: nel realismo capitalista i contestatori oscillano tra immobilisti (chi si oppone a questa o quella legge in nome della conservazione del precedente) e comunisti liberali - ma perché insozzare in tal modo il termine, già massacrato di suo, di comunismo? Bah - alla Soros o Bill Gates, che fanno la carità per smorzare gli eccessi del sistema. Qui piomba sul lettore una nuova conclusione sconcertante: Qualsiasi opposizione alla flessibilità e alla decentralizzazione rischia di essere come minimo controproducente… resistere al nuovo non è una causa che la sinistra possa o debba abbracciare.
- scopriamo che il referente sociale di Fisher non è la classe lavoratrice, gli sfruttati etc. ma “la sinistra”;
- scopriamo che le battaglie per resistere agli attacchi del capitale non sono una causa che si possa abbracciare;
- dobbiamo accettare, stando buoni buoni, flessibilità e decentralizzazione;
- qualsiasi ipotesi di collegare le battaglie di resistenza immediate alla prospettiva della lotta rivoluzionaria è per Fisher inconcepibile.
Potremmo fermarci qua, ma proseguiamo, non senza puntualizzare che noi internazionalisti non riteniamo di appartenere alla “sinistra”: destra e sinistra sono le diverse parti dello schieramento politico borghese. Noi siamo comunisti, internazionalisti, rivoluzionari ossia anticapitalisti, non di certo parte della sinistra del… capitale.
Incapace di ritornare alla lotta di classe Fisher ritiene che il vero problema della sinistra sia di non aver sviluppato un nuovo linguaggio. Detto questo fa finalmente la sua apparizione la categoria di “lotta di classe” che negli ultimi 50 anni è stata combattuta e vinta dai “ricchi”: il rapporto tra il salario medio dei lavoratori e quello dei dirigenti d’azienda è passato da 30:1 nel 1970 a 500:1 nel 2000. Fine.
Dall’84 (sconfitta dei minatori britannici) la lotta di classe è qualcosa di sconfitto e perdente. Questa l’impressione che ne ricava il lettore. La lotta di classe l’abbiamo fatta e l’abbiamo persa, quindi lasciamola stare e torniamo nei meccanismi patologici del capitale per cercare un altra via. Questo il filo logico che sembra seguire l’autore.
5. Non fare entrare niente nella tua vita
Confrontando i film gangsteristici di Francis Ford Cppola e Martin Scorsesetra tra il 1971 e il 1990 e Heat di Martin Scorsese, del 1995, Fisher fa notare come i valori che tengono insieme le bande criminali nei ‘70, ossia famiglia, radici, tradizioni, etc., siano esattamente quelli ritenuti obsoleti nel ‘95. All’opposto della rigidità fordista, il post-fordismo è flessibilità, just in time.
Per Fisher è il conflitto tra il volere la stabilità rassicurante delle vecchie forme di organizzazione del lavoro da un lato, e la moderna precarietà lavorativa dall’altro, a produrre in massa il disturbo bipolare e la schizofrenia, fenomeni effettivamente sempre più diffusi tra i lavoratori. Ma mentre noi identifichiamo nella sconfitta di classe “l’origine del male” e nella ripresa della lotta di classe fino all’istanza rivoluzionaria l’unica medicina possibile, Fisher si limita ad osservare che è il capitalismo stesso ad essere bipolare coi suoi salti tra espansione e crisi e questo non può che riflettersi nella mente dei lavoratori. Capitalismo in depressione, lavoratori depressi, capitalismo in espansione, lavoratori espansivi. D’accordo, ma qua si rasenta la banalità.
Fisher individua alcuni fattori effettivamente agenti oggi, come la colpevolizzazione del soggetto sofferente: sei malato per la chimica del tuo cervello non perché il sistema è marcio per cui l’unico da biasimare sei tu. Osserva giustamente che tutto ciò porta lauti affari alle multinazionale farmaceutiche, ma cosa propone? Ripoliticizzare la malattia mentale. Siamo anche d’accordo, ma se non si sviluppano le prospettive dell’anticapitalismo rivoluzionario e della lotta di classe che la devono sostenere, di che ripoliticizzazione si parla? Ancora non è dato di sapere.
6. Stalinismo di mercato e antiproduzione burocratica.
Il post-fordismo porta con se nuovi modelli “colpevolizzanti” di valutazione dei lavoratori – che qui non descriveremo. Sarebbero questi modelli a sottostare a molte delle patologie sopra espresse:
Il capitalismo reale è segnato dalla stessa discrasia che caratterizza il socialismo reale: da una parte, una cultura ufficiale in cui imprese e aziende vengono presentate come premurose e socialmente responsabili; dall’altra, la diffusa consapevolezza che queste stesse compagnie sono in realtà corrotte e spietate. In una società del controllo diffuso in cui i controllati stessi diventano a loro volta controllori.
Ancora nessuna critica al capitalismo di stato sovietico! Che, anzi, si lascia tranquillamente intendere che sia socialismo reale e che quindi non funzioni… tutta la tirata contro la burocrazia che segue, attingendo a Kafka, ha poi un retrogusto liberale. Va bene criticare la psicologia del controllato che diventa a sua volta controllante, ma manca completamente nell’autore la proposta di un’alternativa, si percepisce come anche lui, in realtà, non sia in grado di vedere oltre il capitalismo, di ipotizzare un suo possibile superamento e si fa strada nel lettore il dubbio che anche Fisher, in realtà, sia vittima e, quindi, parte del... realismo capitalista.
7. Il realismo capitalista come forma onirica e disturbo della memoria
Nel realismo capitalista non esisterebbe altra forma di vita possibile che l’accettazione dell’esistente, senza domande che, se poste, esporrebbero il soggetto alla follia:
quello che sta emergendo come un profondo tratto costitutivo della stessa postmodernità… è che d’ora in poi, laddove tutto si presta al continuo succedersi di mode e rappresentazioni mediatiche, nessun cambiamento sarà possibile.
Fisher sembra qui denunciare questo orrore, ma in realtà, a ben leggere, lo ha già preso come immutabile dato di fatto.
Nel frattempo, lo Stato forte tanto caro ai neoconservatori è stato confinato alle funzioni militari e di polizia, in diretta antitesi a uno Stato sociale accusato di minare la responsabilità morale degli individui.
In chiusura l’autore, invece che cercare aperture di prospettiva e critiche di senso capaci di svelare percorsi possibili di un agire anticapitalita, difficile per definizione proprio perché destinato a svilupparsi tra mille difficoltà, invece di fare questo che fa? Torna al dispotismo totalizzante dei I figli degli uomini. Dopo tanto girovagare nessuna via possibile, non diciamo di attacco, ma nemmeno di resistenza (anzi, la resistenza pare vada evitata perché immobilismo!) è stata trovata. Il nero sipario sta per calare.
8. Non esiste un collegamento preciso
Il sistema si presenta come profondamente impersonale le colpe vengono fatte ricadere su quegli individui apparentemente patologici che “abusano del sistema” invece che sul sistema stesso. Aziende e compagnie sono esse stesse espressioni e prodotto della massima causa che un soggetto non è: il capitale. In poche parole siamo vittime del capitalismo impersonale, di una fitta trama che toglie punti di riferimento e, questo il messaggio tra le righe, probabilmente ogni battaglia è destinata alla sconfitta e anche se non sarà nostra responsabilità il Sistema ci farà sentire lo stesso che, anche della sconfitta, “la colpa è nostra”.
9. Super-tata marxista
Quindi? Ti prego Fisher, ti abbiamo seguito fino a qui, dicci qualcosa di utilmente rivoluzionario! Trasferire l’attenzione alle cause strutturali che reiterano questi effetti. Va bene, siamo d’accordo. Quindi torniamo a Spinoza.
Spinoza??!!
La libertà può essere conquistata solo nel momento in cui apprendiamo le cause reali della nostre azioni, solo cioè quando siamo in grado di accantonare le “passioni tristi” che intossicano e ci ipnotizzano.
No, scusa Fisher, ma quali passioni tristi, qui la vita è veramente difficile, precarietà, disoccupazione, crisi, coronavirus, noi chiediamo: che fare?
Una certa dose di stabilità è necessaria per qualsiasi vivacità culturale: come possiamo provvedere a questa stabilità?… L’obiettivo di una sinistra genuinamente nuova non è la conquista dello Stato, ma la subordinazione dello Stato alla volontà generale… ravvivando e modernizzando l’idea di uno spazio pubblico.
La subordinazione dello Stato borghese alla volontà generale?? Ma se hai appena detto che il mostro informe fagocita ogni cosa! Modernizzare l’idea di uno spazio pubblico – evidentemente senza passare da una rivoluzione mai nemmeno nominata in tutto il libro – ma se hai appena descritto una dinamica che va esattamente in senso opposto! Ma poi, quale stabilità, è evidente che nel capitalismo della crisi permanente nessuna stabilità è più possibile. L’autore ci risponde:
Sì perché i sintomi del fallimento della visione individualista del mondo sono ovunque. Quindi riconduciamo i sintomi alla medesima causa sistemica, il Capitale.
Va bene, noi proponiamo la lotta di classe anticapitalista, anche perché la crisi avanza, il sistema potrebbe vacillare presto e noi abbiamo oltre due secoli di esperienza della lotta di classe a cui attingere per uscirne vittoriosi, questa volta.
No, risponde Fisher: Dobbiamo insomma cominciare, come se fosse la prima volta, a sviluppare strategie contro un Capitale che si presenta ontologicamente ubiquo. Ma quali strategie? Lasciarsi alle spalle l’attaccamento romantico alla politica del fallimento, al comodo ruolo della minoranza sconfitta.
Ma che fai? Tu non hai messo lì uno straccio di proposta ed ora ci insulti?
Risponde:
una sinistra sinceramente rinvigorita occupi con fermezza il nuovo terreno politico... lottando per la riduzione della burocrazia, per l’affermazione dell’autonomia del lavoratore, per il rifiuto di un certo tipo di occupazione… con nuove forme di lotta e di protesta… boicottando le mansioni controllanti…
E la prospettiva anticapitalista? Silenzio assordante.
Ci mettiamo nella testa del giovane lettore che ha comprato il libello, tra l’altro ben impaginato, alla ricerca di una prospettiva di lotta al capitalismo e si ritrova in mano questo e si chiede, ma quindi che dobbiamo fare?
Se non l’hai capito te lo diciamo meglio, con un estratto di un intervista a Fisher stesso:
Ma credo che possiamo avere fiducia nel fatto che questi fenomeni sono legati fra loro, che non vi sarebbe stato Corbyn senza Syriza, e che se Corbyn sarà battuto, emergerà qualcos’altro. Siamo sulla soglia di una nuova onda, sulla quale possiamo cominciare a surfare per dirigerci verso il post-capitalismo.
Intervento di Mark Fisher, 23 febbraio 2016, Londra, undici mesi prima del suicidio. effimera.org
Votare il meno peggio per andare verso il post-capitalismo. Questa la prospettiva di Fisher, un autore che, insieme al suo vate Zizek, di rivoluzionario non ha nulla. Nessuna analisi materialista, nessuna definizione del capitalismo, della lotta di classe, della crisi strutturale che viviamo, nessuna prospettiva anticapitalista e, anzi, un certo disprezzo snobistico per chi invece ha individuato nella militanza rivoluzionaria e anticapitalista l’unica vera medicina per i mali indotti dal capitalismo.
Chiudiamo qui.
Se il suicidio di Cobain ribadì la sconfitta e l’incorporazione delle ambizioni utopico-prometeiche del rock, il suicidio di Fisher ribadisce l’impotenza reale di ogni prospettiva di critica al capitalismo che non si fondi su pilastri solidi quali la critica dell’economia politica, la concezione materialistica della storia, le esperienze delle lotte di classe passate e il programma rivoluzionario comunista che da queste derivano.
Già Marx, nella sua XI tesi su Feuerbach ci aveva ammonito: I filosofi hanno solo interpretato, (molto spesso male ndr) il mondo in modi diversi; si tratta però di cambiarlo.
Lotus, 2 aprile 2020Inizia da qui...
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