Europeismo, anti-europeismo? Lotta e organizzazione di classe!

Volantino per il 25 marzo, a Roma

I Trattati di Roma del 1957 sono una tappa fondamentale del percorso delle borghesie europee nel tentativo di creare un polo imperialista unitario che potesse, in prospettiva, tenere testa ai due fronti imperialisti all'epoca dominanti nel mondo: statunitense e sovietico.

Da allora, com'è noto, molte cose sono cambiate: il blocco dei paesi definiti del “socialismo reale” – in realtà capitalisti da ogni punto di vista, sebbene nella forma del capitalismo di stato – è crollato sotto il peso delle proprie contraddizioni. Ciò che è emerso cerca di recuperare l'antico ruolo imperiale – la Russia – o di inserirsi, più o meno linearmente, nei nuovi assetti imperialisti, a cominciare da quello europeo.

Alla deindustrializzazione-ridimensionamento che hanno interessato molte aree dell'«Occidente avanzato» è corrisposto un esodo dei capitali in quei territori, sparsi per il mondo, dove la forza lavoro è pagata pochissimo, dove la dittatura padronale e dunque lo sfruttamento non hanno limiti, neppure i deboli argini di natura giuridico-sindacale qui ancora esistenti, ma da decenni in via di progressivo smantellamento. La cosiddetta apertura dei mercati ha posto i segmenti della forza lavoro mondiale in concorrenza diretta, cioè in una rincorsa al ribasso delle condizioni generali di lavoro e quindi di vita. Il peggioramento, fin qui inarrestabile, delle esistenze proletarie e di quelle di altri strati sociali medio-bassi, è accelerato dal ruolo abnorme assunto dalla speculazione, dall'appropriazione parassitaria della ricchezza estorta al lavoro salariato, vera e propria direttrice d'orchestra del concerto economico internazionale.

La cornice di questo scenario è stabilita dalla crisi strutturale del processo di accumulazione capitalistico, che da oltre quarant'anni è il motore di quanto si muove in tale quadro.

L'euro è un altro momento fondamentale nel percorso accidentato di costituzione di un polo imperialista europeo, uno dei principali strumenti con cui contrastare l'egemonia imperiale statunitense, il primato del dollaro negli scambi commerciali e nei movimenti finanziari a livello mondiale. Uno strumento, anche, per amministrare al meglio – nelle intenzioni borghesi – una crisi che non passa. E' questa, non una moneta, che spinge i governi a imporre politiche economico-sociali – tra cui i famigerati aggiustamenti strutturali – che deprimono il salario diretto, predano quello indiretto-differito (lo “stato sociale”), che hanno effetti micidiali per l'occupazione (precarietà, disoccupazione). E' sempre la crisi che inasprisce lo scontro tra interessi imperialisti contrapposti fino a trasformarli in guerre aperte, in cui la popolazione inerme è la vittima principale che, spesso, ha nella fuga disperata l'unica speranza di sopravvivenza.

Nell'assenza di un punto di riferimento classista allo stato di cose presente, l'arcipelago della sinistra variamente riformista, spesso erede dello stalinismo, illude (e si illude) il “popolo di sinistra” con ricette economiche e sociali che se avevano avuto una qualche ragione d'essere – sul piano borghese – durante gli anni del boom economico, oggi non hanno nessun spazio. Non sono solo le “banche” e il “neoliberismo” il problema, ma il capitalismo in tutte le sue espressioni: è con questo che bisogna rompere. Ma ciò significa imboccare una via che quella sinistra, per sua natura, non si sogna nemmeno di ipotizzare. La vergognosa, ma non sorprendente, vicenda di Syriza in Grecia dovrebbe essere la pietra tombale delle illusioni riformiste, invece vengono continuamente riproposte come se niente fosse successo.

Dall'altra parte, l'estrema destra, il cosiddetto populismo cresce sull'onda della disperazione, della devastazione sociale provocata dalla crisi, cattura strati non indifferenti di piccola borghesia declassata e anche di proletariato, ideologicamente frastornato e disilluso da una sedicente sinistra sempre pronta ad assecondare i diktat del capitale.

Paradossalmente, ma non tanto, a parte gli aspetti carognesco-fascistoidi (l'odio contro gli immigrati, l'autoritarismo ecc.), le ricette populiste per “uscire” dalla crisi non sono, in fondo, molto diverse da quelle della sinistra riformista, perché tutte e due rimangono fermamente radicate sul terreno borghese (capitalistico): uscita dall'euro, protezionismo, intervento dello stato e molto altro ancora che farebbe un figurone in un festival dell'assurdo e dell'incoerente. In ogni caso, se mai dovessero essere attuate anche solo parzialmente, avrebbero costi altissimi che verrebbero interamente scaricati sulle classi che si dice di voler difendere: la piccola borghesia impoverita e, prima di tutto, il proletariato.

Prendere coscienza del carattere truffaldino dei programmi della sinistra riformista e della destra populista, non significa che non esistano alternative, che ci si debba rassegnare a un destino immutabile. L'alternativa passa per la consapevolezza dell'incompatibilità tra le spietate esigenze del capitale e le nostre, proletariato, mondo del lavoro (e del non lavoro) salariato-dipendente, dunque per un percorso di lotta - oggi meno che mai facile - che si contrapponga al capitalismo in tutte le sue articolazioni economico-politiche. Passa per la costituzione dell'organizzazione rivoluzionaria che sappia raccogliere la rabbia contro questo sistema disumano ormai antistorico e la incanali in maniera coerente verso il suo superamento. In caso contrario, niente potrà fermare il degrado delle nostre vite, la distruzione irreversibile dell'ambiente, le guerre imperialiste con i loro tragici effetti non collaterali di morte e sofferenza.

Comunismo o barbarie, non c'è altra scelta!

Lunedì, March 20, 2017

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.