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Home ›Turbolenze finanziarie del capital-socialismo di Pechino
Proseguono le “turbolenze” finanziarie della Cina “capital-socialista”: merita attenzione la caduta dei listini borsistici dopo la loro baldanzosa crescita del 158% dal marzo 2014 a metà giugno 2015. I successivi crolli hanno poi gettato nel panico i “risparmiatori” del renminbi cinese. L’ultimo tonfo in Borsa è stato quello del 27 luglio con un meno 8,5% (indice Sse Composite); soltanto dalla metà di giugno ad oggi le azioni avrebbero perso il 30% del loro precedente valore.
I corsi azionari avevano per mesi subito una abnorme crescita di guadagni e di vendite che il Governo esultando attribuiva ai primi esiti delle “riforme” economiche messe da poco in cantiere. Sullo sfondo di un sistema bancario etichettato come… “socialista”, ora in sofferenza e con pericolo di implosione, si sono liberalizzati gli acquisti a debito delle azioni (390 mld di euro); si bloccano le vendite allo scoperto, si sospendono le quotazioni e si acquistano azioni direttamente dalla Banca Centrale mentre il Governo da parte sua “assorbe” le perdite. Sono tutte cure che seguono il “ricettario” mondiale della finanza capitalista: alcuni titoli sono “congelati”; le operatività delle capitalizzazioni vengono in parte bloccate dopo che sono state bruciate centinaia di miliardi di dollari.
I “crolli” delle azioni cinesi si alternano ai tentativi di Pechino rivolti a sostenere la Borsa. Gli aiuti statali ammonterebbero già a più di 1300 mld di yuan (209 mld di dollari). Ai brochers cinesi si fanno prestiti per ricomperare azioni. Ma le iniezioni di capitale pubblico (socialista?) si fanno insostenibili mentre gli “strategisti” finanziari sono in tilt dopo che i crediti a basso costo hanno soltanto favorito speculazioni e gonfiato bolle.
Il capitale finanziario va ricercando un proprio mitico equilibrio (viste le difficoltà che attanagliano i settori produttivi) nel tentativo di evitare – così commenta la China Securities Regulatory Commission – un “precipizio irrazionale”. Avanti, dunque, con il credito che però si contrae man mano che il cielo si oscura mentre circola un’aria di recessione che tende a spostare, questa volta verso l’estero, i capitali avidi di autovalorizzazione. Certo, nonostante tutto (in confronto il capitale d’Occidente si leccherebbe alcune dita..), la Cina è creditrice netta, nei confronti del resto del mondo, con ben 3500 mld di euro di riserve. Ma tuttavia l’economia non “cresce” più come prima, il Pil perde colpi e il “socialismo” pechinese (al pari di tutto il capitalismo globale) se non produce e vende un sempre maggiore quantitativo di merci, entra in stato comatoso. Gli investimenti si abbassano e sono meno redditizi: i profitti industriali in Cina durante gli ultimi 12 mesi sono calati (ufficialmente) dello 0,3%.
Il timore di un “contagio globale” soffia quindi altalenante anche sulle Borse di Hong Kong, Tokio, Taiwan, Sidney. Tagli ai tassi di interesse; riduzione al coefficiente di riserva obbligatoria nella sfera finanziaria; aumento delle spese per infrastrutture diventate necessarie per sostenere uno “sviluppo” economico rallentato: sono segnali delle difficoltà che il capitalismo cinese sta incontrando secondo le leggi che “regolano” i movimenti del capitale in ogni parte del mondo. Anche i motori della economia “capital-socialista” cominciano infatti a grippare; la China Securities Regulatory Commission (paragonabile alla italiana Consob) è in allarme e sta tentando di buttare acqua su pericolosi focolai, mentre lo Stato (del popolo…) fa ulteriori finanziamenti tramite la Banca Centrale, la China Securities Financial Corporation, il veicolo statale che fa prestiti agli intermediari finanziari.
Dopo l’ingresso di Pechino nel Wto e quindi l’aumento delle sue esportazioni di merci in Occidente, gli inizi della crisi internazionale hanno costretto Pechino ad adottare una politica espansiva del credito, dopo che i Paesi importatoti (in recessione) avevano allentato i loro giri di “affari” commerciali con il “capital-socialismo”. La incentivazione di uno sviluppo economico interno in Cina si è affidata a “spinte” (monetarie-creditizie) agli investimenti infra-strutturali e successivamente alle speculazioni immobiliari e poi a quelle azionarie.
Buona parte dei titoli azionari della Repubblica Polare Cinese si trova nei portafogli del nuovo ceto-medio cinese. Per quanto circoscritti siano ancora i redditi medio alti in Cina, sarebbero comunque questi piccoli “risparmiatori” a trovarsi ora in difficoltà, per altro dopo essere entrati (o meglio essere stati attirati) in un mercato già sopravalutato con i valori dei titoli sganciati dalla realtà. Sarebbero stati bruciati 3mila miliardi di dollari, quando il Pil cinese (debitamente manipolato dal Governo…) supererebbe di poco i 10mila mld di dollari. Per “investire” nella Borsa “socialista” sarebbero (vale il condizionale essendo i dati forniti da fonti governative) stati dati in prestito 334 mld di euro (circa 2250 mld di yuan in confronto ai 500 del 2014): questo l’ammontare dei debiti per l’acquisto di azioni.
Uno sportello unico (anch’esso “socialista”?) accomuna le Borse di Shangkai e Hong Kong; lo scopo è quello di far crescere il mercato azionario rastrellando “risparmi” dalle tasche del… popolo. I risultati si sono visti, mentre l’economia rallentava i ritmi di “sviluppo”; per ridare forza a quest’ultimo, ora i capitalisti di Hong Kong possono investire a Shangkai, e viceversa: con Shenzhen saranno presto tre le sedi finanziarie “capital-socialiste”. Inoltre, Hong Kong costituisce una riserva di “prodotti” finanziari in renminbi, che interessa anche Singapore, Taiwan e Macao. I mercati offshore del renminbi si ampliano a livello internazionale, quello attualmente presente nel bel mondo borghese. Agli stessi livelli si va adeguando e prosperando – nella Cina “popolare” – un altro mercato: quello del lusso al seguito di tre milioni 500 mila cinesi che ogni anno viaggiano turisticamente in Europa, 4 mln in Giappone, 6 mln in Corea, 2 mln negli Usa. Una “crescita” alla quale si contrappone un contenimento dei viaggiatori russi appena usciti dalle sabbie mobili di un altro mercato etichettato come “nazional-comunista”, ed ora di nuovo alle prese con le più o meno identiche sabbie…
Viaggiando, i cinesi (quelli appartenenti alla classe borghese e non certo al proletariato) non trascurano occasioni per fare business, per gettare le basi di investimenti, joint venture, ecc. Tutto il mondo è paese, capitalisticamente parlando.
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