Prendere o lasciare - Il ricatto di Pomigliano, ossia il futuro del lavoro salariato

Il capitale reclama “l’obiettiva necessità di una produttività competitiva” e si prepara a bastonare la classe operaia e il proletariato di ogni paese e colore

Dalle informazioni raccolte sui quotidiani, la Fiat produce in Italia 650.000 vetture con 22mila dipendenti. A Pomigliano i dipendenti sono 5.500; 1.400 a Termini Imerese e 5.300 a Melfi. In Polonia, con soli 6.100 operai produce 600mila auto; in Brasile i dipendenti sono 9.400 e le vetture prodotte 730mila. Riguardo al costo del lavoro, tutto compreso, quello in Italia è certamente più alto (ma in verità lo è anche il costo della vita!) e pur tenendo conto di una produzione nel nostro paese più specializzata in auto di lusso e di alta prestazione, il rapporto fra dipendenti e auto prodotte è senz’altro favorevole alla produzione all’estero. Sempre, s’intende, dal punto di vista del capitale e dei suoi profitti.

Ne risulta - al seguito della logica dominante nel modo di produzione capitalistico - che il cosiddetto prezzo di costo (impianti, materie prime e tecnologia + costo lavoro) quanto più è basso e tanto più renderà profitto alla Fiat la quale vende auto nei vari paesi ad un prezzo medio di mercato. Il saggio di sfruttamento (che dipende anche dai rapporti di forza fra operai e capitalisti) sarà quindi più alto là dove il comando del capitale si imporrà - con la forza - sulla resistenza degli operai.

A questo punto, con la crisi che morde il capitalismo nei suoi centri più sensibili e vitali, là dove concretamente si “produce” plusvalore sfruttando la forza-lavoro, le “aspre condizioni di lavoro” (così ammette la stampa di “sinistra”) sperimentate con successo all’estero saranno a lungo andare introdotte, oltre che a Pomigliano, in tutti gli stabilimenti italiani e non soltanto del settore auto. Questo almeno è l’obiettivo del capitale nella sua corsa al profitto, e il ricatto sarà quello di un possibile trasferimento di molta produzione del “made in Italy” in Romania, nelle Filippine, in India o in Cina fino a quando i costi saranno più convenienti per il capitale.

Il fatto che poi - a seguito delle “importazioni” anche in Italia di bassi salari e brutali condizioni di lavoro e sfruttamento - la domanda interna, i consumi, resteranno a dir poco “stagnanti” a causa di un potere d’acquisto insufficiente mentre il mercato si saturerebbe di prodotti-oggetti, beh, questa non è che una delle tanto contraddizioni che nel sistema stanno raggiungendo livelli destinati ad esplosioni anche violente, costringendo il capitalismo ad avvitarsi su se stesso. (Il mercato del Lingotto, rispetto a giugno 2009, risulta in crollo con flessioni del 20% e più. Su base annua le consegne scendono del 27,5%.) Col rischio - e pure questo va detto - di trascinare assieme anche il proletariato nel baratro di una barbarie infinita. Un proletariato nel quale la paura della perdita del posto di lavoro è una componente di rilievo in quello stato di disperazione e di impotenza collettiva, che tende in alcuni casi a diffondere un clima di individualismo ed egoismo personale; un “ciascuno per sé”, un “tutti contro tutti” di fronte al dilagare di intimidazioni, discriminazioni e ricatti che sembrano al momento imporsi anche su alcuni episodi di resistenza, di contestazione e di solidarietà che, nonostante tutto, cominciano a verificarsi là dove gli attacchi del capitale sono maggiori.

Quello attorno al quale tutto il management della Fiat è impegnato, è uno degli obiettivi che viene portato avanti dai lontani anni Cinquanta, quanto iniziarono apertamente i tentativi aziendali di riorganizzazione del lavoro imponendo assunzioni selettive e discriminanti. Il sindacato giallo dei Liberi Lavoratori Democratici, promosso dall’azienda stessa, fece da reggicoda alle strategie degli Agnelli-Valletta. Ora che la crisi e la saturazione dei mercati dell’auto si è aggravata a livello mondiale, rendendo aspra la competitività internazionale, tutti i nodi vengono al pettine, ovvero il capitale - se viene investito nel settore con la disperata illusione di intasare i continenti di auto private, se mai si troveranno i compratori - reclama il suo “vitale” profitto. A tutti i costi scaricandone il peso, manco a dirlo, sulla classe operaia. Nel giugno 2009, infatti, Marchionne in un suo intervento dichiarava che

il primo grande problema del settore è quello della sovraccapacità produttiva. La capacità produttiva mondiale è di oltre 90 milioni di vetture l’anno, almeno 30 milioni in più rispetto a quanto il mercato sia in grado di assorbire in condizioni normali.

Lautamente stipendiati e col posto a tempo indeterminato (questo, per lo meno, è quanto essi credono di essersi assicurato), i sostenitori del capitale e degli interessi di una borghesia che non bada ad assestare colpi su colpi sulla classe operaia, si sgolano nella loro opera di rimbambimento ideologico e politico del proletariato e dell’opinione pubblica in generale. Dopo di che, un Gad Ledner, su Repubblica, si chiede se forse sia venuta meno la “visione messianica della classe operaia, annichilita dal crollo dello stalinismo”…

Vale la pena di citare qualche esempio delle “tesi promozionali” diffuse dai principali mass-media. Cominciando da un M. Pirani che su la Repubblica (21 giugno) invita gli operai ad accettare “una condizione certo più dura, una pesante e rigorosa riorganizzazione”, ma che così facendo “difenderanno il loro lavoro e svolgeranno una funzione nazionale riaprendo la prospettiva di investimenti nel Mezzogiorno”. Da parte sua, anche Marchionne è stato categorico:

Se vogliamo ammazzare l’industria ditemelo. L’Italia non avrà futuro, l’industria non esisterà più.

Rivolgendosi al sindacato, segue l’invito di Pirani (la Repubblica) ad “esaminare attentamente le nuove necessità” ed a “farsi carico delle difficili problematiche connesse al prolungamento del lavoro notturno, all’aumento delle turnazioni, al cambiamento della stessa vita familiare”. Le “nuove necessità” sarebbero quelle di… accompagnare i figli a scuola, dopo i mutamenti di orario di lavoro dei genitori! Se questa non è ipocrisia…

Anche un Fassino non aspettava altro per affrontare i “problemi reali” del Paese. E in una intervista sul Foglio ricorda la “ineluttabile ristrutturazione” della Fiat nell’autunno 1980 con la marcia silenziosa dei quarantamila colletti bianchi che impedirono alla azienda di “finire stritolata”… Gli fa eco, sempre a nome della “sinistra” democratica”, Bersani, invitando il governo a mettersi “al servizio di un percorso di ricomposizione che dia certezze e prospettive d’investimentro”. Lo segue Veltroni, che, sul Corriere, parla di “accordo inevitabile a causa di una condizione obiettiva”. Da parte loro, Cgil e Fiom chiedono “investimenti nel segno della responsabilità” (?) mentre in un fondo, ancora del Corriere, D. Di Vico annuncia “la fine dell’età dell’oro per il sistema italiano e le sue relazioni industriali”. Ora bisogna fare sul serio: è finito “il tempo delle vacche grasse” (ma per chi?) e occorrono “soluzioni innovative intelligentemente tradotte per salvare la coesione sociale”. Basterebbe “una deroga ai sacri principi” e, “col buon senso”, non rifiutare “un investimento di 700 milioni di euro e 5mila posti di lavoro”. Dunque, basta col “mito del conflitto” altrimenti si favoriranno “i comportamenti corsari delle aziende”. E sarebbe colpa dei lavoratori stessi….

Il direttore del Sole 24 Ore, paragonando “l’inetto caso italiano” alla Coppa del Mondo di Calcio, scopre “la morale di un livellamento del gioco e delle squadre: standard unici per tutti, gioco globale nel mondo globale”. Se ne dedurrebbe che anche "a Sud di Roma si possono produrre auto secondo lo stile in cui si devono produrre nel mondo… Oggi nel mondo si produce col rigore del World class manufacturing_, altrimenti si resta a bordo campo_."

E sul Fatto quotidiano, F. Colombo ci spiega il World class manufatcturing (Wmc): “elimina tutti i tempi morti e si fonda su sei 0 (0 difetti, 0 stock, 0 tempi morti, 0 conflitti, 0 attesa per i clienti, 0 uso di carta per comunicare)”.

Ancora: elogi iperbolici si sprecano attorno ad un “pragmatismo necessario per costruire un futuro migliore” attraverso “uno sviluppo della legalità e una battaglia contro il sommerso”. Basterebbe rispettare “determinate condizioni e (questa è per i sindacati! - ndr) farsi carico di scelte difficili” per dare al Paese un futuro industriale.

Chiudiamo con Scalfari (Repubblica, 20 giugno) che ci ricorda come, in definitiva, “Pomigliano è l’apripista di un movimento generale (…) Non si tratta di ricatto ma i dati di fatto e con i dati di fatto è inutile polemizzare…”. Ovvero, poiché come ha detto Marchionne: “Io vivo nell’epoca dopo Cristo”, va preso atto - sempre secondo Scalfari - che “con la globalizzazione della finanza, delle merci e del lavoro, è inevitabile che la produzione si trasferisca nelle fabbriche dove i salari e le condizioni di lavoro sono più favorevoli al capitale investito”. Dura lex sed lex… come già dicevano i latini.

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La pillola, se possibile, andrebbe però almeno avvolta in carta dorata. Come? Scalfari, rispettoso dell’ordine costituito, non va oltre le regole del… gioco, e si appella - per contrastare l’attuale “livellamento verso il basso” - ad una “diffusione del benessere” attraverso un “piano globale di redistribuzione delle risorse e dei redditi”, attuabile con manovre fiscali. Si tratterebbe di un “movimento epocale da gestire col metodo della concertazione tra le parti sociali e il governo”. Poiché “siamo nell’occhio del ciclone”, alle prese con “la necessaria crudeltà della libera concorrenza”, non rimarrebbe che alzare le cortine fumogene della “libertà ed eguaglianza per il bene comune”: sacrifici e condizioni di lavoro sempre più bestiali da una parte, “coesione sociale” dall’altra. Un miracolo degno di Padre Pio, e che potrebbe far pensare ad una imminente conversione dello stesso Scalfari….

Intanto il sindacato di Fiat Polonia a Tychy ce la mette tutta, assicurando che gli operai polacchi vogliono solo produrre e lavorare! Addirittura - parole del leader sindacale Gierot - si invitano gli operai alla calma e ci si preoccupa per l’alta qualità fin qui assicurata a Tychy, per cui la Fiat danneggerebbe il proprio marchio spostando la produzione in Italia… Parole del presidente di Solidarnosc, Wanda Strozyh, la quale chiede di “sfruttare in modo pieno le forze di produzione di Fiat Auto Poland”! Insomma che cosa ci resterebbe da fare, visto che “con la globalizzazione è finito il conflitto capitale-lavoro”? (Tremonti). E la Marcegaglia conclude:

Siamo in emergenza e i tagli vanno bene così. Ha fatto bene Marchionne… Non si può avere un mondo chiuso, dove tutti stanno bene e hanno diritti senza alcun dovere…

Sull’altare del mercato, surriscaldato, e del profitto, in sofferenza, il proletariato viene chiamato dai sacerdoti del dio capitale a bruciare le offerte obbligate: tagli ai salari, sacrifici, drastiche riduzioni nelle prestazioni dei servizi (a rischio di totale smantellamento) e dei sistemi di assistenza sociale, già mal ridotti.

Qui chiudiano la breve rassegna, anche se ogni tanto val la pena di guardare in casa d’altri per osservare l’aria che tira. In questo caso, l’odore di muffa è però insopportabile.

Altre considerazioni sul conflitto in corso, sui contenuti reali e sulle finalità che si prospettano, a questo punto si impongono.

Svanita l’illusione, ampiamente manipolata ma durata lo spazio di un mattino, che la “crisi finanziaria” potesse addirittura offrire l’opportunità per una riorganizzazione economica rivolta con maggiore attenzione ai bisogni sociali (un paradisiaco quadretto disegnato dalla “sinistra” e dalla destra), la drammaticità della situazione è balzata evidente e in primo piano soprattutto per quanto riguarda le condizioni di lavoro e di vita delle masse proletarie in generale, occupati e disoccupati, giovani e anziani.

I “problemi” via via emersi non vanno tuttavia visti soltanto nella limitata relazione lavoratori-imprenditori e circoscritti ad episodi locali o di settore. Siamo di fronte a un rincrudirsi della lotta di classe fra borghesia e proletariato, ancora con la prima all’attacco e con un proletariato in evidente difficoltà, messo di fronte alle crude logiche delle leggi del capitale, ovvero al dilemma: proletari supersfruttati, sottoposti al totale dominio del capitale o disoccupati e senza salario, in una contrapposizione concorrenziale con operai sempre più schiavizzati e immiseriti in ogni parte del pianeta.

Con le bastonate, come sempre, al proletariato viene offerta una carota, già abbondantemente rosicchiata: si tratta di una riproposizione, qua e là sussurrata, del tema (peraltro ammuffito nella sua versione borghese) dell’egualitarismo, della spartizione della ricchezza disponibile, per coloro che invece non hanno fin qui avuto che poche briciole, nel migliore dei casi, pur essendo gli unici a produrla (ma quest’ultima puntualizzazione siamo solo noi ad aggiungerla).

E mentre a livello governativo (col ministro Sacconi) si dichiara invece superato il principio dell’uguaglianza e si afferma “un universalismo selettivo”, una selezione sociale la quale fa carta straccia di pretesi valori e diritti (a cominciare dal mitico e costituzionale “diritto al lavoro” inteso come perpetuazione e garanzia dello sfruttamento capitalistico), assistiamo ad un ritorno dei cascami di una ideologia - quella borghese classica - che da sempre tenta di coprire l’accumulo di ingiustizie, di soprusi, sfruttamenti e oppressioni e, in molte parti del mondo, di bestiali condizioni d’esistenza. Sempre e unicamente riservate al proletariato, cercando di piegarlo alla cultura del… mercato e del profitto.

Affrontare e guardare in faccia la realtà, il presente stato di cose, sottoponendolo ad una radicale indagine critica, è una attività prioritaria per comprendere chiaramente in quale fase storica ci troviamo. Quella in cui non sono certamente in gioco, come si usa dire, la democrazia e la Costituzione di questo nostro bel paese, ma ben più concretamente la nostra stessa vita, come uomini e donne e non come schiavi o bestie da sfruttare oggi e da macellare domani su qualche fronte bellico in allestimento.

Il vero problema per noi, avanguardie di classe impegnate nel rafforzamento del partito internazionale per il comunismo, è quello - certamente non facile - di dare un contenuto teorico, politico e programmatico ai movimenti e alle lotte che tendono e tenderanno a svilupparsi. Un compito e un’azione collettiva, non subendo le varie istanze di soggetti individuali o di gruppi, consapevoli o meno di muoversi su un terreno obiettivamente interclassista, ma organizzando forze e impegni attorno ad un definito programma di classe e all’interno di una specifica azione sociale. La quale sia politicamente alternativa a tutte le impostazioni che la “sinistra” borghese a sua volta tenta di affermare per arginare il tutto entro i confini dell’ordine, economico e politico, costituito e imposto.

Un’azione collettiva e di classe, dunque, centrata su interessi e valori comuni al proletariato e storicamente orientati. Costruendo un nostro legame “ideologico” che attraversi la fabbrica e il territorio e venga unito e rafforzato nel partito e con la sua necessaria guida; portando avanti un lavoro sia teorico che pratico, rafforzando un progetto ben definito che ha alla sua base gli interessi anche immediati ma soprattutto storici del proletariato, guardando cioè ad una radicale trasformazione del presente per un futuro che segni la nostra definitiva liberazione, economica e politica.

E’ evidente che fra le condizioni primarie del nostro programma vi è quella di liberarsi dal canto delle sirene per una aprioristica difesa della Costituzione, del lavoro (mercificato e salariato), dell’uguaglianza dei cittadini, eccetera. Diventa quindi fondamentale in questa prospettiva il ribadire fermamente - come comunisti - la nostra caratteristica linea di condotta che non si può né si deve limitare alla denuncia dei rapporti tra gli operai e i loro padroni, con l’unico obiettivo di insegnare ai venditori di forza-lavoro come alienare più vantaggiosamente questa loro "merce" e quindi come lottare (magari nei modi che i sindacati impongono e gestiscono) contro i padroni sul terreno puramente commerciale. Da comunisti dobbiamo, sì, portare avanti le denunce di tutti gli abusi e gli attacchi che avvengono sui luoghi di lavoro e lottare a fianco dei proletari, come punto di partenza della nostra stessa attività di militanti, ma a condizione di non approdare ad una lotta "puramente tradunionista ".

E’ quello che cerchiamo di mettere in pratica ed è ciò che Lenin ci ha indicato nelle famose pagine del suo Che fare? La lotta del proletariato deve essere diretta all’abbattimento del regime sociale che costringe i proletari a vendersi al capitale per poter sopravvivere. I comunisti quindi rappresentano la classe operaia non solo nei suoi rapporti con gli imprenditori, nei limiti aziendali, ma partendo da questi vanno oltre e toccano i suoi rapporti con tutta la classe dominante della società contemporanea e con il suo Stato. Per questo occorre una forza politica organizzata che non si limiti alla sola lotta economica ma si occupi attivamente dell'educazione politica della classe operaia, dello sviluppo della sua coscienza politica.

E, con Lenin, va aggiunto che non basta neppure limitarsi a spiegare agli operai la loro oppressione politica (così come non basta spiegare il contrasto dei loro interessi con quelli dei padroni). Bisogna fare, tendere a fare in modo organizzato, dell'agitazione a proposito di ogni manifestazione concreta di questa oppressione, in qualunque campo tale oppressione si eserciti, nella vita e nell'attività professionale, civile, privata, familiare, religiosa, scientifica, ecc.

Solo così facendo, organizzando e allargando denunce e agitazioni politiche, si potrà sviluppare, in tutti i sensi, la coscienza politica degli operai. Dobbiamo - è Lenin che scrive - di “tutte le manifestazioni dell'oppressione poliziesca e dell'arbitrio assolutista (oggi “democratico” - ndr), quali che siano (e non solo quelle legate alla lotta economica)”, farne i mezzi per trascinare il proletariato sul terreno della politica, una politica rivoluzionaria, che non si abbassi al livello della politica tradunionista la quale non va - e non può andare - al di là della invocazione di riforme economiche, entro i recinti della amministrazione e legalità borghesi.

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Detto questo e confermando la validità dell’insegnamento di Lenin, nella sua pratica traduzione va tenuto conto non soltanto della data (1902, un secolo fa, quando Lenin scrisse il Che fare?) ma soprattutto dello “sviluppo” che il capitalismo ha avuto in particolare dopo la Seconda guerra mondiale, e quindi della maturazione delle contraddizioni che oggi lo stanno corrodendo e portando al culmine di un’altra devastante crisi del suo vitale ciclo di accumulazione. Questo significa che, intervenendo sia nelle lotte economiche dei lavoratori sia nelle agitazioni a livello sociale e politico, il nostro compito è quello di portare l’attenzione su una situazione che - proprio muovendo dal rapporto lavoro-capitale - ha raggiunto un punto di saturazione definitivo. Vale a dire non esiste alcuna possibilità di trattativa (se non con momentanee soluzioni difensive per i lavoratori, quando questi si dimostrano però forti e risoluti nella lotta) né sul terreno di una migliore condizione di vendita della merce forza-lavoro né di un miglioramento delle condizioni di lavoro, se non per casi particolari, legati a situazioni specifiche, sempre possibili, come l'esperienza quotidiana dimostra. E' escluso, invece, che si possa ripercorrere una via di grandi riforme migliorative delle condizioni complessive di esistenza, a cominciare dalla compravendita della forza-lavoro, secondo quanto era successo nella fase ascendente del ciclo di accumulazione. Questo, però, non significa affatto l’abbandono delle lotte, bensì la loro intensificazione, il loro allargamento ad obiettivi che comincino a introdurre nel proletariato - con ancor più forza di prima - la conoscenza dei contenuti del programma comunista quale unica alternativa al capitalismo.

La critica dell’economia politica, l’analisi del modo di produzione e distribuzione capitalistico sono gli strumenti che, rapportandoli alle condizioni generali attuali del proletariato sia in campo nazionale che internazionale, ci consentono di portare fra i lavoratori la consapevolezza di un punto di non ritorno - raggiunto dallo sviluppo stesso del capitalismo - nel vortice della crisi economica e dell’imbarbarimento sociale che stiamo vivendo. Un punto di non ritorno, dove le applicazioni di cerotti sul corpo malato del sistema, con presunte correzioni a base di ipotesi di regole e riforme (ammesse ma non concesse), non farebbero che peggiorare il suo stato di salute e, soprattutto, quello del proletariato.

Una nota supplementare

A proposito di giustizia sociale e ripartizione del reddito, ecco intanto alcuni recenti e significativi dati. Cominciando dal Silvio nazionale che nel 2009 ha intascato un reddito pari a 11.490 volte il reddito (“salario”) di un operaio di Pomigliano. Si tratta di ben 126,4 milioni di euro provenienti dalle sue personali azioni della Fininvest, mentre l’operaio di Pomigliano, costretto anche a periodi di Cassa Integrazione, ha portato a casa circa 11mila euro lordi. Il “cavaliere” si è così appropriato di una somma pari a più di due volte l’intero monte salari dello stabilimento Fiat di Pomigliano. (Gad Lerner, la Repubblica, 26 giugno).

Il fustigatore di assenteisti e tagli salariali, Marchionne, nello stesso periodo è stato ricompensato dalla Fiat complessivamente con 4 milioni 782 mila euro, cioè 435 volte il reddito di un suo operaio.

Da altre fonti si apprende - dati dal 14esimo Rapporto di Merrill Lynch e Capgemini - che anche in Italia (come in ogni altra parte del mondo) i milionari ufficiali sono aumentati del 9,2% nel 2009; sarebbero ora 179mila. In aumento i “passion investment” e gli acquisti di “beni di lusso”: auto, aerei e yacht, gioielli, orologi, monete e… vini pregiati.

Sacrifici, signori!, sacrifici…

DC