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Home ›Avanza l’ombra lunga del settembre 2008
L’incubo di una crisi che non arretra ma avanza
Calendario alla mano e siamo a 11 anni dal fallimento di Lehman Brothers (2008): il quadro dell’economia mondiale è sempre più cupo; la crisi nell’economia reale anziché regredire si è fatta stabile. La liquidità (una valanga di denaro – globalmente si parla di oltre 11mila mld) iniettata per salvare le banche e per fare ripartire l’economia, è poi finita in circuiti finanziari e speculativi, lasciando i “fondamentali economici” sempre più fragili.
Nonostante le grandi promesse fatte da economisti e politici, dopo quelle drammatiche giornate e con la illusione di riformare in profondità il sistema finanziario, tutto procede come prima. Non si parla più della “magica” separazione delle banche commerciali da quelle di investimento; si tace su un ridimensionamento delle banche too big to fail; resta un “auspicio” il progettato forte aumento del capitale delle stesse banche, come pure le proposte per una tassa sulle transazioni finanziarie ecc.
A questo punto, si aggrappano persino alla “riscoperta” di qualche spezzone (adeguatamente mistificato) del “pensiero” di Marx. Sia chiaro: si tratta quasi sempre di un “altro” Marx, generalmente ritenuto dedito a studi di natura più “filosofica” che “economica”, ai quali è d’obbligo far seguire la rivalutazione di alcune “politiche keynesiane” con funzione di critica alle “idee” più spinte, azzardate e scomode di Marx. E’ il bla bla bla di economisti e docenti universitari di questa “materia di studio”, i quali si definiscono persino molto vicini all’autore del Capitale. Uno di questi è M. V. Passarella, “esperto” di macroeconomia, stimatissimo nel mondo accademico di… “sinistra”. Il sopracitato ammette, sia pure a denti stretti, che la crisi iniziata negli anni Settanta fu dovuta ad una diminuzione del tasso di profitto (circa il 50% in meno, ed è lui a dirlo!) il quale oggi sarebbe risalito, sì, ma solo di circa la metà del precedente calo. Un risultato comunque ottenuto grazie ad un maggiore sfruttamento dei lavoratori. E senza alcuna “carota”, ma coi “salari stagnanti” (ormai da decenni!), con i tagli ad alcune “insostenibilità” del Welfare e con consumi ridotti e a fatica “stabilizzati” ricorrendo ad un altro preoccupante aumento degli indebitamenti, pubblici e privati.
L’immutabilità del capitalismo
Togliete al capitalismo la corsa (frenetica) agli aumenti di produttività, ed ecco il crollo di quello che figurerebbe, a detta dei suoi apologeti, come il carattere “dinamico” che lo distinguerebbe. Addirittura si aprono le porte di un minaccioso stato di caos! Quindi, fra le condizioni che potrebbero – si dice – allontanare una deriva devastante sia a livelli economici sia sociali, viene proprio indicata e perseguita la diminuzione dei salari (per chi ancora ha conservato il posto-lavoro).
Leggiamo che, nel mondo...
il rapporto del debito privato (delle famiglie) rispetto ai redditi netti disponibili è cresciuto dal 50% nel 1980 al 130% nel 2007. Nel 1929 il saggio del debito privato era del 30%.
Dal 2008 ad oggi, il debito complessivo, compreso quello dei gruppi finanziari, secondo varie fonti sarebbe ancora aumentato di quasi il 50% arrivando a 250 trilioni di dollari. Va pure detto che i poteri finanziari si sono ulteriormente accentrati, ampliando i loro “controlli” degli asset internazionali. E accanto a quello che è il sistema bancario ufficiale con funzioni creditizie, si è ulteriormente esteso quello “ombra”, contribuendo a sua volta alla crescita della “economia del debito pubblico e privato”.
Per chi poi aveva abboccato al mito dei “paesi emergenti” in ascesa, i quali avrebbero ridato fiato al sistema ovunque boccheggiante, in realtà ha visto soltanto ossigenarsi momentaneamente lo strapotere di multinazionali lanciate in una vera e propria caccia ai bassi salari e ai più bassi costi di materie prime. Questo spiega in parte l’aumento della produzione di merci nel mondo dal 2000 ad oggi; ma lo si deve soprattutto ai “paesi emergenti” (Cina e India in primis) e molto meno ai “paesi avanzati”. Le multinazionali sono state artefici di un processo di globalizzazione che tuttora vede un intreccio di rapporti di potere, in particolare per il controllo delle materie prime (petrolio, uranio ecc.).
La concorrenza con le sue leggi coercitive si inasprisce
La caccia al «plusvalore extra» diviene una questione di vita o di morte per la borghesia che insegue disperatamente l’autovalorizzazione del capitale, il feticcio che tutti adorano sacrificando ad esso la sopravvivenza dell’intera umanità imprigionata nella rete di un debito globale che si sta avvicinando, anzi superandoli, ai 300.000 miliardi di dollari, più di tre volte l'insieme del prodotto interno lordo (PIL) globale, e da anni in costante aumento. (All’incirca intorno al 9%, seguendo dati e stime del FMI con elaborazioni di Visual Capitalist). Il debito privato (imprese e consumi) a livello mondiale si aggirerebbe attorno ai 250mila mld, secondo il G_lobal debit monitor_ 2018 dell’Institute for International Finance, il quale ha così ripartito il debito 2017 in dollari: 68 mila mld (92% del PIL mondiale) per le imprese non finanziarie, 63 mila mld (87% del PIL mondiale) quello pubblico, 58 mila mld (80% del PIL mondiale) dal settore finanziario e 44 mila mld (59% del PIL mondiale) da famiglie e singoli.
Che si tratti di una vera e propria follia finanziaria diffusasi nella società capitalista, è confermato dagli sviluppi della tecnologia basata sull’uso degli algoritmi nella gestione dei movimenti delle Borse in tutto il mondo. Ma la concorrenza sui mercati è quella che detta legge in fatto di un continuo ricorso, per la produzione di merci, alle innovazioni tecnologiche al fine di aumentare la produttività. Quindi l’espulsione di forza-lavoro diventa necessariamente inevitabile (per il capitale), visto che la riduzione degli orari di lavoro ad un minimo (internazionale…), e che dovrebbe essere la conseguenza “razionale” degli aumenti di produttività, è chiaramente una misura impossibile per l’ordine mondiale attuale e la feroce competizione imperante sui mercati. I rapporti di produzione dominanti non lo consentono, mentre il saggio di profitto tende ad una costante diminuzione e il sistema si destabilizza mandando in crisi le sue leggi di movimento. Le quali, mentre si vorrebbe che portassero il capitalismo allo sviluppo, sono la causa prima della stessa crisi. Sarà soltanto il comunismo – grazie allo sviluppo tecnologico per la produzione di beni d’uso e non di merci – a rendere finalmente possibile e obbligata la conquista di tempo libero da dedicare a tutte le migliori attività umane: cultura, sport, divertimento.
Una nota quasi… umoristica
Ammirato fra molti post-keynesiani, ecco un Kalecki (“accademico”) il quale spiegava che il limite per un sostegno al pieno impiego sarebbe solo politico e non “economico”. Il capitalismo, insomma, avrebbe ancora convenienza a mantenere un ampio esercito di disoccupati… Dopo di che, ecco che vien fatta circolare la definizione di un Marx il quale (come Keynes) sarebbe stato “un propugnatore di una teoria interna della moneta”, con funzioni stabilizzatrici... Da qui parte poi una rivalutazione della “questione della pianificazione”, da approfondire “teoricamente” soltanto sul piano “politico”, dicono. Senza minimamente toccare la struttura del modo di produzione…
E sempre scambiando di volta in volta cause per effetti, si propagandano panzane del tipo: ci vuole un radicale cambio di rotta, culminante con la creazione di una contro-lobby di cittadini, società civile e imprese, riprendendo lo slogan di Occupy Wall Street: «siamo il 99%»! Nuove regole del gioco, quindi, come ci è capitato di leggere nelle esternazioni dei tanti “servi sciocchi” che si mascherano persino da… “antagonisti”. Culminanti col proposito di un lavoro culturale e di informazione per pretendere dalla politica un suo cambiamento, e con la pretesa di avere una finanza che sia al servizio dell’economia e delle persone!
Concludono: occorrerebbe dare ai lavoratori il “controllo e la gestione” del capitalismo, affinché – non lo si dice ma questo sarebbe il “fine” da perseguire! – si rendano conto – per il bene generale! – della necessita di contenere la caduta del saggio di profitto. Una “caduta” che sta tormentando il capitalismo e che viene rallentata soltanto col ricorso a quelle contro-tendenze che sembrano a volte annullarla per un breve periodo, per poi nuovamente precipitare in un aggravarsi delle condizioni stesse che hanno causato la caduta e di nuovo la ripropongono. Lo sviluppo tecnologico innanzitutto, fermo restando l’uso capitalistico che di esso si vuole fare, cioè servire per estrarre una quantità quanto più grande sia possibile di plusvalore dallo sfruttamento di una forza-lavoro numericamente sempre più ridotta.
Nei Grundrisse, Marx scriveva:
È quindi una frase borghese assolutamente assurda quella che l’operaio ha interessi comuni col capitalista perché questi, col capitale fisso (che è esso stesso, d’altronde, il prodotto del lavoro altrui appropriato dal capitale) gli agevola il lavoro (ché anzi gli sottrae con la macchina ogni indipendenza e carattere attraente) o gli abbrevia il lavoro. Il capitale impiega la macchina, invece, solo nella misura in cui essa abilita l’operaio a lavorare per il capitale una parte maggiore del suo tempo, a riferirsi ad una parte maggiore del suo tempo come a tempo che non gli appartiene, a lavorare più a lungo per un altro.
Quindi, nel sistema capitalistico la tecnologia non serve ad altro che ad estrarre una maggior quantità di plusvalore; non ad alleggerire il lavoro dell’operaio. Ed ecco la crisi che erode le basi stesse del capitalismo; nel quadro delle divisioni e dei contrasti imperialistici che movimentano il panorama internazionale, i rapporti fra gli Stati si aggravano a seguito degli squilibri settoriali, delle guerre commerciali e delle speculazioni nei mercati finanziari.
La calamità sociale della disoccupazione
Oggi non vi sono più dubbi a proposito di un capitalismo entrato in una fase storica agonizzante. Infatti, quella che fino a decenni fa si poteva interpretare come una volontà della stessa classe dominante di avere disponibile un esercito industriale di riserva permanente al fine di poter esercitare una pressione ricattatrice sul proletariato, è diventata una vera e propria calamità sociale ed economica. La crisi del processo di accumulazione del capitale si sta evidenziando anche ai ciechi. Ma gli economisti, anziché ammettere l’approssimarsi della fine storica del capitalismo, arrivano al punto di immaginare una “politica economica” (mai definita chiaramente) ispirata addirittura a Marx, fino ad arrivare a conclusioni di questo tipo: vanno scartate forme di trasferimento monetario ai lavoratori e si dovrebbe togliere alle “imprese private le scelte su composizione e livello della produzione”. Ecco la “soluzione” (definita “marxista”!) degli economisti della “sinistra borghese”: un piano per il lavoro col settore pubblico in posizione privilegiata per “l’occupazione della forza-lavoro” (sempre come una merce) necessaria a “fornire beni e servizi fondamentali (edilizia, educazione, sanità, trasporti, infrastrutture, energia, ecc.)” (sempre nella forma di merce). Quindi, “restrizione della libertà di movimento dei capitali, nazionalizzazione dei settori chiave dell’economia, stretto coordinamento tra Tesoro e banca centrale (al fine di contemperare la stabilità del potere d’acquisto con la piena occupazione), e tassazione fortemente progressiva dei redditi e delle ricchezze”. Ecco finalmente il paese della Cuccagna con l’aggiunta del controllo pubblico – “statale” – della produzione nazionale di merci e con l’ipocrita finzione del “pieno impiego, riduzione delle disparità sociali e difesa dell’ecosistema”.
I più “radicali” premettono la necessità di una conquista del potere (democratica, s’intende) e della “macchina statale” per controllarla “meglio” e assicurarle quel plusvalore che dovrebbe far meglio girare il suo motore. Ovvero proprio quella valorizzazione del capitale, che – sostituendo il lavoro vivente con macchine sempre più automatizzate – si sta disgregando in un processo involutivo che strangola il sistema stesso. Minacciando l’intera umanità di precipitare nel baratro di un vero e proprio imbarbarimento sociale.
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La caccia al «plusvalore extra» diviene una questione di vita o di morte per la borghesia che insegue disperatamente l’autovalorizzazione del capitale, il feticcio che tutti adorano sacrificando ad esso la sopravvivenza dell’intera umanità imprigionata nella rete di un debito globale che si sta avvicinando ai 300.000 miliardi di dollari, l’autovalorizzazione del capitale, il feticcio che tutti adorano sacrificando ad esso la sopravvivenza dell’intera umanità imprigionata nella rete di un debito globale che si sta avvicinando, anzi superandoli, ai 300.000 miliardi di dollari, più di tre volte l'insieme del prodotto interno lordo (PIL) globale, e da anni in costante aumento. (All’incirca intorno al 9%, seguendo dati e stime del FMI con elaborazioni di Visual Capitalist). Il debito privato (imprese e consumi) a livello mondiale si aggirerebbe attorno ai 250mila mld, secondo il G_lobal debit monitor_ 2018 dell’Institute for International Finance, il quale ha così ripartito il debito 2017 in dollari: 68 mila mld (92% del PIL mondiale) per le imprese non finanziarie, 63 mila mld (87% del PIL mondiale) quello pubblico, 58 mila mld (80% del PIL mondiale) dal settore finanziario e 44 mila mld (59% del PIL mondiale) da famiglie e singoli
C'è un problema qui, sembra ripetersi?
Si, è il motore di tutto questo è il fatto che il saggio del profitto è caduto talmente in basso da essere diventato un ostacolo al processo produttivo, invece del famoso stimolo del profitto che teorizzano loro.
I dati che copi sotto significano invece che il debito è 320% del pil mondiale.
1 La caccia al «plusvalore extra» diviene una questione di vita o di morte per la borghesia che insegue disperatamente l’autovalorizzazione del capitale, il feticcio che tutti adorano sacrificando ad esso la sopravvivenza dell’intera umanità imprigionata nella rete di un debito globale che si sta avvicinando ai 300.000 miliardi di dollari, l’autovalorizzazione del capitale, il feticcio che tutti adorano sacrificando ad esso la sopravvivenza dell’intera umanità imprigionata nella rete di un debito globale che si sta avvicinando, anzi superandoli, ai 300.000 miliardi di dollari, più di tre volte l'insieme del prodotto interno lordo (PIL) globale, e da anni in costante aumento. (All’incirca intorno al 9%, seguendo dati e stime del FMI con elaborazioni di Visual Capitalist). Il debito privato (imprese e consumi) a livello mondiale si aggirerebbe attorno ai 250mila mld, secondo il G_lobal debit monitor_ 2018 dell’Institute for International Finance, il quale ha così ripartito il debito 2017 in dollari: 68 mila mld (92% del PIL mondiale) per le imprese non finanziarie, 63 mila mld (87% del PIL mondiale) quello pubblico, 58 mila mld (80% del PIL mondiale) dal settore finanziario e 44 mila mld (59% del PIL mondiale) da famiglie e singoli
2 La caccia al «plusvalore extra» diviene una questione di vita o di morte per la borghesia che insegue disperatamente l’autovalorizzazione del capitale, il feticcio che tutti adorano sacrificando ad esso la sopravvivenza dell’intera umanità imprigionata nella rete di un debito globale che si sta avvicinando, anzi superandoli, ai 300.000 miliardi di dollari, più di tre volte l'insieme del prodotto interno lordo (PIL) globale, e da anni in costante aumento. (All’incirca intorno al 9%, seguendo dati e stime del FMI con elaborazioni di Visual Capitalist). Il debito privato (imprese e consumi) a livello mondiale si aggirerebbe attorno ai 250mila mld, secondo il G_lobal debit monitor_ 2018 dell’Institute for International Finance, il quale ha così ripartito il debito 2017 in dollari: 68 mila mld (92% del PIL mondiale) per le imprese non finanziarie, 63 mila mld (87% del PIL mondiale) quello pubblico, 58 mila mld (80% del PIL mondiale) dal settore finanziario e 44 mila mld (59% del PIL mondiale) da famiglie e singoli
Mi sbaglio, o è corretto il numero 2?
Ah e scappata una ripetizione. Ok
Ok!