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Home ›Intrecci e scontri tra Usa e Cina
Pronti all'azione, con le armi ai piedi
Tra Usa e Cina – nonostante tutto – esiste un intreccio di interessi specie di tipo finanziario oltre alla presenza attiva, in tema di “manovre affaristiche”, di grandi gruppi americani come Apple, Amazon, Facebook, Google. I cinesi a loro volta presenti con i gruppi Tencent, Alibaba, Baidu e altri. Nel complesso, le prime cinque imprese Usa, operando a livello mondiale, avevano a metà 2017 un valore di mercato pari a 3 trilioni di dollari con una liquidità di circa 330 miliardi.
Il settore bancario e finanziario è scosso dall’invadenza di questi colossi con i loro flussi di cassa e “attività” di finanziamento legate a ondate di vertiginosi aumenti delle loro azioni. Azioni che vengono vendute e riacquistate dai diretti interessati (per una loro “valorizzazione”…) a suon di centinaia di mld (si parla di circa 800 mld di dollari entro quest’anno, a fronte di 525 mld nel 1917).
Si parla anche di “investimenti” riguardanti la creazione di vasti gruppi “conglomerati” e con attività differenziate. Ad esempio, la Amazon alla vendita di libri on-line ha aggiunto dischi, videogiochi, prodotti elettronici per la casa, abbigliamento, ecc.. Effettua consegne a domicilio di generi diversi (fra cui anche… drogheria) e usando pure i droni. Inoltre produce video, film, spettacoli vari; opera nel campo dell’intelligenza artificiale e in quello delle catene farmaceutiche.
La cinese Tencent è presente nelle reti sociali, messaggeria, portali web, giochi on-line (è leader mondiale del settore), pubblicità e musica on-line, acquisti e pagamenti elettronici, fondi monetari, cloud computing (software e hardware per archiviazione dati), auto elettrica, oltre al settore del bike-sharing (servizi di biciclette pubbliche).
Di capitali monetari (risorse finanziarie) in giro per il mondo ce ne sono parecchi, sia in mano ai privati che in fondi pubblici. Come, per esempio, il fondo giapponese SoftBank, con il suo Vision Fund che dispone di circa 100 mld di dollari e vanta la partecipazione di fondi dell’Arabia Saudita, di Abu Dhabi, ecc.
La SoftBank che ha programmi di investimenti futuri nel settore tecnologico per almeno 880 mld di dollari (nei prossimi 10 anni…) domina la filiera della sharing economy e partecipa al capitale di Uber e della cinese Didi Chuxing, principali attori del settore, oltre alla Grab di Singapore e alla Ola indiana. Si aggiungano partecipazioni in società come Alibaba, Nvidia, WeWork,ecc., con mani rapaci protese specialmente sul continente asiatico e sempre con l’occhio rivolto al flusso delle innovazioni tecnologiche e – se possibile – ad una contemporanea capitalizzazione produttiva (che tenga alti i saggi di profitto…). Da segnalare anche il Fondo sovrano norvegese, il CIC cinese, il Temasek di Singapore.
Dunque, da un lato un’aspra concorrenza e dall’altro un fitto incrocio di partecipazioni azionarie tra imprese cinesi e americane alla ricerca di una “amichevole” spartizione dei mercati. Fra di esse, la cinese Didi Chuxing, oggi la più grande impresa della sharing economy, con partecipazioni della giapponese SoftBank, delle statunitensi Uber e Apple, e delle cinesi Alibaba e Tencent. Tutti impegnati in continue meccanizzazioni e automatizzazioni affinché i costi di produzione diminuiscano; ovvero proprio “mangiandosi la coda”, preparando le condizioni migliori perché in seguito diminuisca il saggio di profitto! Il quale sembra (dati del database AMECO dell'UE), in “sofferenza” nella maggior parte delle principali economie, almeno fino al 2016: sarebbe rimasto inferiore a quello del 2007 e persino del 1999…
In questo contesto internazionale, l’irascibile e spocchioso Trump ha ingaggiato una battaglia (per ora limitata al solo campo commerciale…) contro l’impero cinese che sta facendo passi avanti nella conquista di quote di mercato: cosa questa che gli Usa non possono tollerare, soprattutto in settori industriale ad alta tecnologia e nella farmaceutica. Dagli economisti arruolati per conto della Goldman Sachs, la banca d'investimento statunitense, apprendiamo che gli Usa vantano a tutt’oggi un’ottima (per il capitale) produttività specie nel settore tecnologico. “Impressionanti” sarebbero le quote di brevetti e diritti di proprietà intellettuale in suo possesso. Mentre nei settori a medio valore aggiunto la Cina ha già ottenuto importanti successi merceologici, in quelli dei beni high-tech Pechino ha ancora qualche problema ma ha cominciato ad aumentare la quota delle sue esportazioni anche in questo campo. Allarme rosso, per Washington e per il deficit americano del settore commerciale, ma anche dei servizi dove nonostante gli Usa siano ancora molto forti rimane sempre vivo lo spauracchio della tendenziale debolezza dei saggi di profitto delle imprese industriali. Gli utili societari (settore merceologico) risentono di un plusvalore la cui “produzione” non cresce come invece sarebbe necessario per i “bisogni” del capitale. Il quale, nella sua forma fittizia, non può far altro che gonfiare bolle pronte ad esplodere…
C’è però un dato ancora favorevole, nonostante tutto, agli Usa: si tratta di quello della produttività per ora lavorata. Gli Usa sono in vantaggio rispetto ad altre economie avanzate, mentre la Cina si trova con un livello di produttività generale che è solo il 20% degli Stati Uniti, pur essendo addirittura quadruplicato dal 2000. (Questi sono dati che circolano fra gli economisti americani che si collocano a “sinistra”.)
Gli “investimenti” in ricerca e sviluppo sono sempre notevoli negli Usa, con una quota di Pil molto alta, che li colloca come leader globale con circa il 30% del totale mondiale. Molto alto il numero dei brevetti per nuove invenzioni, ma anche la Cina vede la sua quota in costante aumento.
Così il 38% del Pil americano è legato a settori avanzati di tecnologia e conoscenza. La Cina segue con il 35% del suo PIL proveniente da questi settori, una percentuale che sta diventando preoccupante per il capitale Usa alle prese con un calo di profitti e occupazione in molti settori. E nonostante anche nella produzione di servizi commerciali gli Usa siano ancora in testa, rimane pur sempre un deficit commerciale per le stesse industrie della tecnologia e della conoscenza. Questi settori, con la relativa occupazione (circa un terzo dei posti di lavoro negli Usa), vanno “salvaguardati” a tutti i costi, come una fra le ultime spiagge del capitalismo americano.
C’è però da notare che il settore tecnologico, coi relativi profitti, si concentra in poche aziende e società leader, solo cinque, che detengono oltre il 60% delle vendite in biotecnologia, farmaceutica, software, internet e apparecchiature di comunicazione.
Sono loro che si accaparrano larghe fette di mercato esportando prodotti ad alto contenuto tecnologico e impedendo agli altri di fare altrettanto.
A questo punto non siamo noi, “vetero marxisti”, a denunciare un allarme (in un rosso che tende a farsi cupo) anche per il capitalismo americano che negli ultimi mesi pretenderebbe di essere in “ripresa”. Per questo, un personaggio come Trump sta correndo in aiuto delle corporazioni statunitensi con tagli alle loro tasse, a cui seguiranno quelli – e qui saranno i proletari a pagare le conseguenze! – nei servizi pubblici federali per contenere i balzi all’in su del debito pubblico. Una situazione in riga con quella mondiale, dove il FMI è preoccupato per gli alti livelli di debito globale nelle famiglie, nelle società e nei governi. Con previsioni di una loro continua crescita anche per il probabile aumento dei tassi ufficiali d‘interesse. Con le banche centrali che hanno pompato a più non posso il credito aumentando gli indebitamenti a tassi di interesse molto bassi dando ossigeno alla speculazione nei mercati azionari, obbligazionari e immobiliari . Inoltre, i governi hanno continuato ad accumulare livelli più elevati di debito pubblico per finanziare i salvataggi alle istituzioni finanziarie e coprire i crescenti disavanzi di bilancio creati da tagli delle tasse e spese militari. A questo punto (ormai cruciale) il rapporto debito / PIL nelle economie avanzate si fatto più che preoccupante ed è in continuo aumento. Galoppa sia per il settore privato (mutui, obbligazioni e prestiti per le famiglie) sia per quello pubblico.
Tornando negli Usa, è vero che essi restano pur sempre la maggiore economia del mondo con il più grande settore finanziario, con il dollaro che resiste come valuta di riserva mondiale e con una potenza militare che li mette in grado di esercitare la funzione di poliziotti imperialisti del mondo. Ma, come abbiamo visto, lo “sviluppo” capitalistico – senza il quale il cielo si fa cupo per la classe borghese internazionale – è quanto meno fermo: si piange ovunque sul basso livello degli investimenti in nuovi impianti, macchinari e nuove tecnologie. Anche qui si torna a guardare con preoccupazione alla Cina che si è portata subito dietro gli Usa per investimenti all’estero: la crescita è annualmente di circa il 25%; il suo “valore” si aggira attorno a 1,3 trilioni di dollari.
Ecco dunque il protezionismo commerciale che sta tornando alla ribalta dopo decenni di "libero scambio" e globalizzazione del mercato. Sarebbe imposto dalla “sicurezza nazionale”, assieme a una presa di distanza degli Usa dalla Trans-Pacific Partnership (TPP) e dalla rinegoziazione dei termini dell'Area Nord Atlantica di Libero Scambio (NAFTA)
La “crescita economica” sbandierata per alcuni decenni dall’economia capitalista, ha fatto del “libero scambio” (con riduzioni di tariffe e vari accordi commerciali internazionali) lo sperato toccasana di ogni intoppo mercantile. Ci si aspettava una “armonizzazione” e un “riequilibrio” dei saldi commerciali, con aggiustamenti nei tassi di cambio e nei costi di produzione internazionali delle merci. Ma tutto è andato in senso inverso. Si fa evanescente di mese in mese il mito della eguaglianza della ricchezza e dei “redditi” nonché della crescita dell’occupazione: tutti i dati peggiorano sia tra i vari Paesi sia al loro interno. Ci informano che circa 1,5 miliardi di lavoratori a livello globale sono senza un lavoro o un reddito regolare.
La bassa redditività dei capitali, a caccia di plusvalore in ogni parte del mondo, manda in soffitta, di nuovo, il libero scambio e la “globalizzazione”, colpevoli di un tracollo degli… interessi nazionali. Ritorna ad essere in pericolo di collasso la sopravvivenza dell’intero sistema, gettando nella disperazione legioni di atterriti economisti, benefattori, operatori umanitari, riformisti, populisti, ecologisti, animalisti (persino). Santi e peccatori uniti in preghiera ai piedi del traballante dio capitale….
DCBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #05-06
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