La farsa delle elezioni in Iraq

L’ombra dei brogli nello spoglio delle schede e la pressione Usa sulla consultazione sono stati denunciati da Allawi e Entifadh Qanbar alla vigilia dei risultati definitivi

A proposito delle elezioni irachene, le seconde dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, a qualcuno è venuto in mente di dire: ...e se avesse avuto ragione Bush, se cioè il vero scopo della “campagna di Babilonia” fosse stato quello di dare all’Iraq una struttura democratica, libera e rappresentativa, togliendo di mezzo un perverso governo dittatoriale? Se le cose fossero andate così ci sarebbe da chiedersi quanto stupido sarebbe stato l’imperialismo americano a spendere oltre mille miliardi di dollari, a rimetterci oltre cinquemila uomini, a creare quasi mezzo milione di morti tra i civili iracheni e un milione e mezzo di profughi per un’operazione d’esportazione della democrazia, anche se con l’uso della forza. No non è così, l’imperialismo segue altri percorsi che sono quelli dell’interesse economico e strategico, anche se, come in questo caso, ma non è l’unico (vedi Afghanistan), gli obiettivi che sono stati alla base della guerra non sono stati raggiunti nonostante la profusione di mezzi, soldi e la confezione delle più rozze menzogne (acquisto di uranio dal Niger per la produzione dell’arma atomica, l’esistenza di armi chimiche a distruzione di massa e le presunte frequentazioni con Osama bin Laden) a giustificazione della necessità dell’evento bellico. L’obiettivo era il petrolio iracheno, il controllo e lo sfruttamento delle seconde riserve mondiali dopo quelle saudite, il tentativo di sostenere il dollaro quale unità di misura degli scambi internazionali, petrolio compreso. Che poi le vicende abbiano ridimensionato gli obiettivi sino a renderli praticamente nulli, devono far pensare ad una cocente sconfitta dell’imperialismo americano e non ad una riesumazione delle bufale che ne sono state alla base quale atti giustificatori.

Mentre scriviamo non sono ancora usciti i dati definitivi, ma il senso della consultazione elettorale, comunque vadano le cose, non cambia perché i giochi erano stati organizzati prima sin nei minimi dettagli. La farsa delle elezioni è andata in scena nel bel mezzo di una guerra civile che dura ininterrottamente da sette anni, a suon di attentati e di morti, gli ultimi 38 nel giorno stesso della consultazione. Le varie fazioni borghesi hanno continuato il loro assalto/difesa del potere dentro e fuori le urne in una spirale di violenza e di scontro ben superiore a quella del 2005, data delle prime elezioni “libere”. L’esercito di occupazione si è ben guardato dal presentarsi nelle piazze e nei seggi elettorali, preferendo presidiare i luoghi sensibili senza dare segni manifesti della sua ingombrante presenza. Il Governo di Al Maliki ha pensato bene di circoscrivere il parco dei possibili avversari politici cassando ben 500 candidature di personaggi ostili perché legati al vecchio partito Baath. Per cui la contesa è rimasta aperta tra lo stesso Al Maliki, presidente uscente, e Allawi ex presidente sino al 2005, entrambi sciiti, filo americani, con l’unica differenza che il secondo è a capo di una coalizione che ingloba anche elementi sunniti. Praticamente fuori gioco i candidati autonomi kurdi, che avranno dei risultati solo all’interno della loro provincia, e sunniti per mancanza di numeri significativi; l’unica eccezione è rappresentata dal radicale sciita Jaafari nelle province meridionali. Chiunque vinca non darà soluzioni alla questione sociale irachena, se non per la sorte della rendita petrolifera, vera posta in gioco, che rimarrà come prima, e per lungo tempo ancora, l’oggetto della rinascita economica dell’Iraq, nonostante le dichiarazioni di smobilitazione delle truppe americane. Smobilitazione peraltro parziale perché nel progetto di exit strategy della Casa Bianca è previsto il mantenimento di 50 mila uomini a salvaguardia dei suoi interessi strategici, visto che quelli petroliferi, nonostante i consistenti sforzi finanziari e militari, sono ancora di là da venire. In aggiunta la risposta alla chiamata elettorale è stata scarsa e di molto inferiore a quella del 2005. Allora si presentò alle urne il 76% degli aventi diritto, questa volta solo il 62,4%. Il che la dice lunga sui meccanismi di inoculazione della democrazia a colpi di mortaio e della disaffezione di una parte della popolazione nei confronti di un potere che gioca al suo interno i rapporti di forza per governare sul secondo giacimento petrolifero mondiale dopo quello dell’Arabia Saudita. Per il proletariato iracheno, prima soggiogato dal regime di Saddam, poi incanalato nelle faide borghesi a sfondo confessionale, sempre al traino della questione nazionale, la farsa delle elezioni è solo l’ultima delle fregature. I lavoratori dell’ex area industriale di Baghdad, i proletari petroliferi della zona di Bassora, le centinaia di migliaia di lavoratori della terra sono diventati la carne da kalashnikov al servizio delle varie fazioni borghesi in lotta tra loro. Se non bastasse, i Sindacati e i partiti di “sinistra” tra cui anche il resuscitato Partito comunista iracheno, ex stalinista, oggi al governo con le forze politiche più reazionarie, sono riusciti ad imporre scioperi nella zona di Bassora, coinvolgendo i lavoratori sul terreno del nazionalismo economico, stroncando sul nascere ogni propensione alla critica delle ragioni della guerra stessa, del ruolo conservatore e reazionario di tutte le fazioni borghesi, ponendo come unico obiettivo la lotta alla privatizzazione dei pozzi, quale fattore fondante del muoversi della classe. È in questo scenario che è andata in onda la seconda tornata elettorale nel devastato Iraq del dopo Saddam.

FD

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.