Il discorso di Obama

La magniloquenza del presidente americano si è profusa nell’aula magna dell’Università del Cairo. Che Obama fosse un grande oratore lo si sapeva, ma perché dietro il suo esercizio retorico si possa capire il vero messaggio, occorre partire da tre considerazioni.

La prima è che il presidente degli Usa è alle prese con la più grave crisi economica del secondo dopoguerra, con tutti i problemi che essa comporta, non ultimo quello di imporre le solite politiche dei sacrifici al proletariato americano, e non solo, sperando che vengano pedissequamente seguite senza riempire le piazze della sacrosanta rabbia dei lavoratori.

La seconda riguarda il tentativo di fornire all’immagine degli Stati Uniti un volto più presentabile rispetto a quello truce rappresentato dall’Amministrazione precedente, che tanti problemi ha suscitato nei rapporti politici internazionali

La terza, che rappresenta il punto di arrivo delle prime due, è quella di ridare fiato e forza all’asfittico imperialismo americano, devastato sia dalla crisi che da una serie di sconfitte economiche e militari ancora irrisolte e che pesano enormemente sul processo di ricomposizione imperialistico mondiale.

Alla luce di queste premesse è facilmente comprensibile come il suo discorso si sia sviluppato sulla scontata necessità di presentare una discontinuità con la precedente Amministrazione Bush ma, al contempo, di far emergere una continuità in termini di politica estera, anche se accompagnata da toni meno arroganti, nel tentativo di riproporre l’imperialismo americano quale perno attorno al quale i processi di pace e quelli di scontro più o meno aperto devono, ancora una volta, ruotare.

Discontinuità. Della vecchia Amministrazione il presidente Obama si è ben guardato dal denunciare i contenuti imperialistici, le responsabilità economiche e politiche che hanno contribuito ad accelerare il disastro economico e quello dell’immagine politica - con una serie di pesanti sconfitte, (Iraq, Afghanistan, Pakistan, per non parlare della perdita di presenza politica ed economica in America Latina, Centro Asia ecc.) - ma si è limitato a denunciare le forme attraverso le quali si è espresso l'imperialismo a stelle e strisce. Discontinuità significa soltanto prendere le distanze da quelle prassi politiche che hanno fatto degli Usa il paese più odiato al mondo: un accenno all’eccessivo uso della forza, qualche deroga nel rispetto delle norme di applicazione della “democrazia” (Guantanamo), anche se parzialmente giustificate dall’eccezionalità dell'11 settembre.

Continuità. Dopo di ché, Obama si è incamminato sulla strada della continuità pur partendo da una situazione diversa e proponendo toni apparentemente più distensivi. Ne fa testo la ripresa della lotta al terrorismo, vecchio cavallo di battaglia dell’Amministrazione Bush, dietro la quale si sono nascoste le imprese imperialistiche americane in Medio Oriente. Non una parola sulle menzogne addotte a suo tempo a giustificazione di una serie di guerre per salvaguardare interessi economici, strategici ed energetici. Non un cenno al fatto che il terrorismo, prima di essere una risposta (tutta borghese e capitalistica) all’arroganza americana, è stato il miglior alleato di Washington negli anni ottanta e novanta.

Non illuda la forma espressiva del discorso di Obama, perché sui contenuti di sempre c’è la politica di sempre. È pur vero che la nuova amministrazione va con i piedi di piombo, si apre al dialogo, parla si multilateralismo, fa ammenda di alcuni eccessi del passato, tende la mano a quei paesi che sino a tre mesi fa erano nella lista nera dei “paesi canaglia” ovvero considerati nemici degli Usa in quanto ostacolo alle loro ambizioni imperialistiche, ma ciò non autorizza a pensare che la nuova Amministrazione rinunci al ruolo di potenza economica e politica mondiale.

Esempi.

Iran. Obama ha teso la mano, non al governo dell’attuale presidente, ma a quelle forze politiche che, con le elezioni di agosto, potrebbero arrivare al potere e stabilire nuovi rapporti con gli Usa. Rapporti che prevedono l’abbandono della via nucleare per scopi bellici (chi ha l’arsenale atomico pretende di esserne l’unico ad usufruirne), il reingresso del petrolio iraniano nel circuito ufficiale con tanto di vantaggio per gli approvvigionamenti americani, l’allontanamento dall’alleanza con i concorrenti Russia e Cina. Mano tesa che verrebbe immediatamente ritratta se le apertura americane non trovassero la giusta sponda politica. Allora si ritornerebbe alla politica delle sanzioni e, perché no?, alla minaccia di rappresaglie più pesanti.

Iraq. Come già deciso, le truppe americane si ritirerebbero completamente dal territorio iracheno entro il 2012. Ma ad una serie di condizioni. A condizione che il governo “liberamente” eletto si dimostri in grado di garantire l’ordine e la pace sociale. Che il petrolio prenda la strada degli Usa in termini preferenziali rispetto ad altri paesi e a prezzi di favore. Che il regime di Baghdad sia allineato alla politica medio orientale americana, altrimenti le truppe sarebbero costrette a rimanere con la solita scusa della difesa delle istituzioni democratiche quotidianamente lese dalle frange terroristiche.

Afghanistan. In questo caso la decisione della nuova Amministrazione è quella di rafforzare il contingente militare (quarantamila uomini) e di incrementare il budget bellico con altri miliardi di dollari. Da un lato si tende a stabilire un dialogo con le forze talebane moderate, dall’altro non si rinuncia alla continuazione della guerra. In palio non c’è, come si vuol far credere, la necessità di sconfiggere il terrorismo dei Mullah, portato al potere nel '94, poi scalzato nell’ottobre del 2001, perché non più confacente egli interessi strategici americani, ma il rilancio della presenza americana nella gestione del petrolio e del gas caspici che, al momento, sono saldamente nelle mani russe e cinesi.

Pakistan. Lo stesso vale per l’altra pedina asiatica. Lo sforzo di Obama è quello di rinsaldare l’asse Kabul-Islamabad in chiave anti-Mosca e anti-Pekino. L’obiettivo è sempre lo stesso, da perseguire con le buone, con il dialogo e l’apertura nei confronti degli avversari, o con le cattive, ovvero con la continuazione dell’attività bellica.

Israele-Palestina. Vecchia storia che si ripete. Come per le amministrazioni precedenti, Clinton e Bush, la questione palestinese riemerge e scompare a seconda dei calcoli imperialistici americani. La formula “due popoli e due stati” ha percorso molti itinerari politici. Dagli accordi di Oslo Washington, passando per Ginevra, la Road Map e almeno dodici Conferenze internazionali, è sempre rimasta al palo. Puntualmente, però, ogni volta che l’imperialismo americano era in procinto di attaccare un paese arabo - prima guerra del Golfo, secondo attacco all’Iraq, guerra in Afghanistan ecc. - le varie amministrazioni di turno, democratiche o repubblicane che fossero, hanno sempre ritirato fuori la necessità di dare uno stato ai palestinesi pur di mitigare la rabbia delle popolazioni arabe e di avere il consenso dei regimi mediorientali.

Anche questa volta le profferte di pace dell’Amministrazione Obama sembrano ripercorrere i vecchi sentieri. Che il neopresidente degli Stati Uniti abbia intenzione di procedere a una soluzione della questione palestinese è senz’altro probabile. Innanzitutto perché gli darebbe un prestigio interno e internazionale che gli altri presidenti non sono riusciti ad avere. La sua immagine e quella degli Usa ne uscirebbe rafforzata. Poi perché rilancerebbe il ruolo pencolante degli Usa in un’area di primaria importanza da un punto di vista strategico. Ma la vere ragioni di una simile iniziativa risiedono, ancora una volta, nella necessità di contenere la diffidenza del mondo arabo verso la prosecuzione delle attività militari americane in Iraq, Afghanistan e Pakistan. Un successo sulla questione palestinese, con tutte la garanzie del caso verso Israele, spianerebbe la strada agli Usa nel loro tentativo di riaffacciarsi nell’area centro-asiatica, dalla quale sono stati estromessi dopo gli accordi russo-cinesi con il Khazakistan e il Turkmenistan. Il nord-stream, attraverso il Mar Baltico, che porterebbe risorse energetiche in Germania, quindi nel resto dell’Europa, e il south-stream, che arriverebbe a sud, Grecia e poi Italia, sembrano in via di realizzazione. Mentre il Nabucco, sotto la guida americana - che rappresenterebbe l’alternativa alle vie russe e la compensazione al parziale fallimento del Btc (Bakù-Tiblisi-Ceyan) che doveva ricevere il petrolio kazaco, ma che in realtà deve accontentarsi di quello azero - è ancora in alto mare. L’unico ostacolo al progetto è rappresentato dall’attuale governo israeliano che, intuita la manovra, non vuole essere la vittima designata del progetto Usa. Il capo del governo di Tell Aviv ha immediatamente risposto rifiutando qualsiasi progetto che preveda la nascita di uno Stato palestinese - al massimo si potrebbe parlare di autonomia amministrativa nei Territori occupati - non è disponibile alla cessazione degli insediamenti in Cisgiordania e ha rilanciato dichiarando, dichiarazione poi smentita, ma questo fa parte dei giochi, che avrebbe risolto da solo la minaccia iraniana. Come dire, che se l’amministrazione Obama avesse veramente l’intenzione di perseguire questo piano, il governo Israeliano sarebbe pronto a buttarlo all’aria creando una situazione di crisi nel settore nevralgico, quello del Golfo Persico. Minacce a parte, la propensione di Obama è quella di continuare a perseguire il rafforzamento imperialistico degli Usa, con qualche carota in più rispetto all’amministrazione precedente, ma impugnando ben saldo il solito bastone.

FD, 2009-06-05

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.