Mai il capitale sanerà il problema dell'occupazione

Una delle tante mistificazioni del capitale é quella di contrabbandare il più violento attacco alla forza lavoro come mezzo per combattere la disoccupazione in modo particolare quella giovanile. Il gioco non è nuovo ma ha assunto una particolare rilevanza da qualche anno a questa parte. A fare da sfondo uno scenario economico di crisi strisciante caratterizzata dalla sempre maggiore difficoltà da parte del capitale di ottenere saggi del profitto adeguati, una concorrenza interna e internazionale propor-zionalmente più aggressiva e margini nel rapporto tra capitale e forza lavoro più ristretti.

Di fronte al fenomeno crescente e ormai endemico della disoccu-pazione, la truffa del proporre politiche sociali ed economiche in difesa delle precarie condizioni del capitale come strumenti di contenimento o superamento della disoccupazione e della inoccu-pazione si è espressa inizialmente con timidi passi per poi correre con grande velocità. Si é partiti con i lavori socialmente utili, cioè con quei lavori di cui la società avrebbe bisogno ma che nessun ente, privato o pubblico, è in grado di finanziare. Da qui l'idea di affidare allo Stato il compito di finanziare i lavori occupando una parte di cassa integrati e di disoccupati, possibilmente giovani. Qualcuno (i neo riformisti di sinistra) ha seriamente pensato che attraverso la diffusione e il potenziamento dei lavori socialmente utili si potesse addirittura eliminare il problema della disoccupazione. Che la "soluzione" sia risibile é evidenziata da due fattori. In primo luogo per quante decine di migliaia di disoccupati si possono impiegare nel settore sociale (musei, cura della foreste, dell'ambiente, assistenza ecc.) non si possono far scomparire tre milioni di disoccupati pari al 12% della popolazione attiva.

Secondariamente con quali soldi verrebbero pagati visto che lo Stato, colui che dovrebbe essere l'ufficiale pagatore, é sommerso da una valanga di debiti pari al 120% del Pil, ovvero ha accumulato più debiti della ricchezza nazionale che annualmente viene prodotta. Anzi la politica economica dello Stato si muove esattamente al contrario attraverso il contenimento delle spese per salari e stipendi nel pubblico impiego, lo smantel-lamento del welfar, il taglio dei rami secchi, le privatizzazioni e la contrazione di tutte le voci di spesa riguardanti le attività sociali e assistenziali. Infatti la legge che istituiva i lavori socialmente utili come un mezzo per andare incontro alla disoccupazione giova-nile non solo non è decollata, ma là dove si è mossa si è risolta per essere un valido mezzo di super sfruttamento nei confronti della forza lavoro giovanile. Quei pochi che sono stati assunti, nemmeno cento mila in quattro anni, su di una disoccupazione giovanile che supera i due milioni, hanno dovuto accettare condizioni capestro, prendere o lasciare. I contratti lavorativi ovviamente sono a termine sei, otto, massimo dodici mesi poi tutto torna come prima. Le ore lavorative, anche se disciplinate da contratti nazionali, non si contano e il salario é rigidamente ancorato alle 800 mila mensili. Nulla per la disoccupazione giovanile, se non super sfrut-tamento, niente male per l'ammi-nistrazione pubblica che ha a disposizione la forza lavoro a costi bassissimi senza vincoli contrattuali e problemi per gli eventuali licenziamenti.

Ma ciò riguarda solo un segmento della forza lavoro di scarsa rilevanza per il capitale, ben altre frontiere dello sfruttamento si stanno aprendo alla forza lavoro produttiva, quella che opera all'interno della produzione reale, il cui plus lavoro è destinato al mantenimento di tutta la società capitalistica. Sempre in nome dei giovani e delle politiche anti disoccupazione, grazie al compiacente ruolo di Rifondazione e dei Sindacati, si sono firmati i cosiddetti contratti d'area operanti nelle zone più arretrate econo-micamente e con un tasso di disoccupazione molto elevato. Simili contratti prevedono vantaggi solo ed esclusivamente per le imprese presenti in loco e per quel capitale che volesse investire nelle aree suddette. Innanzitutto per il capitale d'investimento sono previsti sgravi fiscali che gli consentono di essere competitivo sul mercato interno. Secondariamente ha a disposizione una forza lavoro il cui costo può arrivare al 40% di quello normale in modo da essere remunerato in termini di profitti. Situazione questa che nemmeno con la concessione della gabbie salariali si sarebbe raggiunta. Occasione ghiotta per quei capitali che abbiano problemi di inadeguatezza competitiva e costi del lavoro alti per i propri saggi del profitto e solo maggiore sfrut-tamento per quei lavoratori che abbiano la "fortuna" di essere assunti con i contratti d'area. Nei fatti la diffusa disoccupazione diventa una occasione per il capitale il quale può più facilmente strappare contratti e rapporti salariali vantaggiosi. Da un lato mettendo in concorrenza tra di loro occupati e disoccupati, garantiti e lavoratori saltuari. Dall'altro facendo credere che salari di fame e contratti a termine, in una situazione di precarietà diffusa, siano un bene da difendere e non una aggressione da cui difendersi. In aggiunta sta diventando prassi normale che contrattualmente il rapporto tra capitale e forza lavoro sia improntato da contratti part time o a termine correlati da salari decimati in modo da sgravare il più possibile le imprese da vincoli temporali ed economici. Si chiamano apprendistato, contratti d'ingresso, contratti di solidarietà, contratti week and ma con un unico contenuto: l'abbattimento della soglia salariale. Il contenimento del costo del lavoro é diventato un imperativo in tutte le società capitalisticamente avanzate. O é così oppure il capitale decentra la produzione là dove gli vengano garantiti saggi di sfruttamento più adeguati in mercati della forza lavoro più deboli e meno garantisti. Ultima in ordine di tempo, ma in prospettiva la più devastante, é la legge sul lavoro interinale, ovvero sul lavoro in affitto. In termini semplici il lavoro interinale rappresenta il più assoluto, per il momento, asservimento della forza lavoro al capitale. Tempi di lavoro, periodi di lavoro, salari e disponibilità lavorative vengono scanditi e regolamentati dal ciclo economico dell'impresa che attinge nel sempre più vasto bacino della disoccupazione. Al capitale viene consentito di usare la forza lavoro per il tempo necessario, non un'ora di più, e di farla ripiombare nell'inferno della disoccupazione nel momento in cui vengano meno le ragioni dello sfruttamento. Una sorta di caporalato industriale in cui l'uso della forza lavoro é disciplinato solo ed esclusivamente in funzione dai tempi e dalle modalità di estorsione del plus valore, mese per mese, settimana per settimana. giorno per giorno. Un rapporto usa e getta senza alcuna possibilità di difesa da parte del mondo del lavoro costretto ad entrare e uscire dai meccanismi produttivi a seconda della esigenze di accumulazione del capitale.

Fintanto che il capitale, stretto nella morsa del saggio del profitto e delle leggi di competitività del mercato, ha modo di estorcere plus valore al lavoratore esiste occupazione nei termini di tempo e di retribuzione imposti dal capitale stesso; quando i meccanismi di estorsione del plus valore si inceppano la forza lavoro rimane all'esterno della produzione senza che vincoli contrattuali intervengano a perturbarne il rapporto o a pesare sui bilanci dell'impresa. Nella gestione della impresa moderna, la cosiddetta fabbrica snella, dove la ossessiva razionalizzazione dei fattori della produzione arriva a calcolare giornalmente la necessità delle scorte di materiale primario per eliminare i costi delle giacenze ( just in time), la forza lavoro viene trattata alla stessa stregua. Usata solo per il tempo strettamente necessario e poi abbandonata senza costosi depositi improduttivi per l'impresa, la forza lavoro é per il capitale una merce tra le merci, ma con la prerogativa di produrre valore aggiunto che nessuna altra merce é in grado di fare. Ed é in questa chiave che la merce forza lavoro deve anche subire la flessibilità in termini di orario e di dislocazione parziale. Oggi si lavora qua a dieci ore al giorno, domani là a orario ridotto, dopodomani e per il resto dell'anno non si lavora da nessuna parte. Le uniche certezze sono la flessibilità, la precarietà, il lavoro a termine, il lavoro in affitto e salari di fame quando ci sono. Lo sfruttamento é sempre più intenso sul posto di lavoro e le garanzie sociali sono sempre meno presenti. Dalle pensioni alla sanità lo smantellamento dello stato sociale sta riducendo i margini di vivibilità di masse di lavoratori sempre più vaste. Queste sono le nuove frontiere dello sfruttamento, questo e solo questo può dare il capitalismo contemporaneo. Incapace di risolvere le proprie contraddizioni non può che assalire il mondo del lavoro colpendolo sul salario diretto e indiretto, sul terreno contrattuale, su quello sociale e della quotidiana vivibilità.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.