Nuove tecnologie - Dove va il lavoro?

L’introduzione di nuove tecnologie nei processi produttivi è stata sempre causa di profondi sconvolgimenti sociali, talvolta così radicali da determinare il mutamento dell’intera formazione sociale

Nella seconda metà del XVIII° secolo, per esempio, la macchina a vapore e la sostituzione del combustibile vegetale (legna) con quello minerario ( carbon fossile) produssero la nascita della moderna società capitalistica.

L’attività manifatturiera che fino ad allora si era svolta quasi esclusivamente nella piccola officina del maestro d’arte, venne radicalmente trasformata e trasferita nella fabbrica che, grazie alle macchine, poteva utilizzare manodopera scarsamente qualificata e a basso costo.

Nel lungo periodo, almeno in alcune aree del mondo, tutto ciò è stato fonte di un generalizzato miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori; ma nel breve e medio periodo, a seguito di quella che è passata alla storia come la prima grande rivoluzione industriale, si posero problemi sociali enormi.

L’estendersi delle nuove tecnologie creava nuovi settori produttivi e nuovi posti di lavoro, ma non in misura sufficiente a compensare quelli distrutti e la riduzione dei salari.

Il supersfruttamento mediante l’allungamento della giornata lavorativa, l’utilizzo delle donne e dei bambini in fabbrica malsane e per salari di fame, alimentò, per un verso, movimenti come quello luddista che indirizzavano la rabbia degli operai contro le merci straniere che facevano loro concorrenza e contro gli strumenti della produzione giungendo a incendiare le stesse fabbriche; e, dall’altro, contrapposta al pensiero economico dominante che riteneva che la soluzione consistesse nel lasciare mano libera alle forze del mercato, la ricerca, da parte degli intellettuali e degli esponenti più attenti della borghesia, di soluzioni che, salvaguardando la conservazione del sistema, potessero alleviare il disagio dei lavoratori.

Per molti versi oggi sta accadendo la stessa cosa. Poiché sta emergendo con sempre maggior nitidezza che la disoccupazione tecnologica, come la chiamava Keynes, è destinata a crescere non solo nel breve e medio, ma anche nel lungo periodo c’è chi comincia a interrogarsi sui possibili mutamenti che tale prospettiva potrà implicare.

I sacerdoti del neo-liberismo ritengono che con l’abolizione di tutti i vincoli che regolano il mercato, compreso quello del lavoro, si possono creare le condizioni per uno sviluppo della base produttiva così poderoso da assorbire la manodopera resa eccedente dalla introduzione nei processi produttivi delle tecnologie basate sulla microelettronica e a tale riguardano citano i presunti successi raggiunti negli Stati Uniti.

I risultati finora ottenuti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ovvero nei paesi in cui la ricetta neo - liberista ha trovato piena applicazione, non consentono però l’abbandono a facili entusiasmi. È vero che negli Stati Uniti sono stati creati 10 milioni di posti di lavoro negli ultimi cinque anni, ma è anche vero che si tratta pur sempre di un milione di nuovi posti di lavoro in meno rispetto ai tre milioni all’anno che l’economia statunitense creava durante la presidenza Carter; e altresì che si tratta in gran parte di lavori precari e mal retribuiti. Si tratta cioè, come abbiamo avuto più volte modo di dimostrare, di statistiche false, alla Trilussa, e l’ennesima conferma è venuta in modo indiretto dal dato (falso anche lui?) secondo cui il Pil statunitense avrebbe fatto registrare una crescita nello scorso mese di marzo, rispetto al marzo dello scorso anno, pari al 5,6 per cento. Se fosse vera l’equazione neo -liberista secondo cui alla crescita economica corrispondere-bbe automaticamente quella del numero degli occupati, negli Stati Uniti si dovrebbero creare, tenendo conto di una crescita della produttività media del 2,5 per cento, ben 3,8 milioni di nuovi posti di lavoro all’anno; ora, poiché anche i due milioni di posti di lavoro che ufficialmente si creano non compensano quelli distrutti, è evidente che siamo in presenza di un qualcosa che va oltre il fatto congiunturale e che mette in discussione la stessa capacità del modo di produzione capitalistico di sopravvivere alla rivoluzione del microprocessore.

A causa dell’evidente incongruenza della tesi neo-liberista, l’idea che il Mercato da solo non basti si sta facendo sempre più largo, ma, a riprova che l’attuale pensiero economico borghese brancolo nel buio più totale, anche le tesi che avanzano gli oppositori del neo - liberismo sono vecchie e smentite in partenza dalla storia.

Secondo l’economista Geminiello Alvi, già assistente dell’ex governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi presso la Banca dei Regolamenti Internazionali e autore di una pregevole storia economica del nostro secolo di recente pubblicata da Adelphi, Il Secolo Americano, per il superamento del dilemma sviluppo tecnologico/disoccupazione occorre stimolare la nascita di

... Istituzioni cooperative dentro la fabbrica e fuori di essa, in cui il movente fraterno, non mercantile del lavoro, possa specchiarsi. Cogestione e compartecipazione all’impresa da un lato e articolazione fuori della fabbrica di comunità locali vere in cui sia possibile identificarsi, in cui possa trovarsi un movente pubblico, di simpatia sociale... un’articolazione di interessi pubblici delimitati che si incarichino d’articolare il lavoro fraternamente e poi il Welfare, scuole, assistenza e ospedali, pubblici, ma non più statali.

La Repubblica del 24 febbraio 1997

Insomma, una nuova area economica, un terzo settore che non avendo come fine il profitto, dovrebbe assorbire tutti quei lavori e lavoratori di cui la produzione di merci per il profitto non ha più bisogno, ma che hanno lo stesso una grande rilevanza sociale. In qualche modo in ciò c’è un ritorno a certe tesi che furono già del socialismo utopistico, ma ignorando che uno dei sui maggiori e più nobili esponenti, l’industriale Robert Owens (1771 - 1858), impiantò fattorie modello, ispirate a principi simili in Inghilterra, in Irlanda e in America e che, nonostante le sue grandi doti umane e le sue capacità organizzative e dirigenziali, fallirono tutte miseramente né poteva essere altrimenti. Nel sistema capitalistico, le merci non si scambiano fra loro spinte dall’amore fraterno, ma per consentire a chi ne comanda la produzione, il capitalista, di recuperare le spese sostenute per produrle e ottenere un profitto; dunque, per averle anche l’ipotetico terzo settore deve cedere in cambio merci e quindi anche la sua produzione non può che essere produzione di merci poco importa se di beni o servizi. Angoli di economia non mercantile sono anche possibili e non mancano gli esempi, ma qui si sta parlando di un settore che addirittura, alla lunga, vista la progressione della crescita della disoccupazione, è quello in cui dovrebbe occuparsi la stragrande maggioranza della forza-lavoro e quindi destinato a diventare maggioritario.

Come il mondo dominato dal cittadino-consumatore caro ai neo-liberisti anche questo, quindi, sembra più il frutto dell’impotenza del pensiero economico e politico borghese incapace di comprendere la dimensione e la natura della contraddizione che una strada realmente percorribile. Come sarà esattamente il lavoro nel prossimo futuro forse con esattezza nessuno lo sa, ma di certo l’alternativa non sarà certo fra un capitalismo tutto libera concorrenza e una sorta di semicapitalismo dal volto umano che mette insieme il diavolo e l’acqua santa. L’alternativa sarà sempre più tra emarginazione crescente di crescenti masse di uomini e la liberazione del lavoro dallo sfruttamento capitalistico.

G.P.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.